Di giorno scompare, un racconto di Emanuela D’Amore

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Io ho ogni giorno un padre diverso. Ma solo di notte. Al mattino scompare.
Sento rumori nel letto, vedo ombre, dico chi è? Mia madre dice tuo padre.
Chi è? Tuo padre.
Mio padre ha i capelli neri, i ricci biondi, la barba rossa, la pelle gialla.
Ma poi di giorno scompare.
Io ho molti padri.

Chiè,mamma?tuopadre.
Mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire.

La mattina mia madre mi porta a comprare susine. Andiamo al mercato. Tutti la salutano, tutti conoscono mia madre. Lei cammina avanti con la gonna a fiori corta che va su e giù tra le gambe lisce e sudate. Io le sto dietro con il mio cartoccio di susine e la faccia sporca. A volte mi prende per mano, solo un po’, poi si scoccia. Ma io piaccio a mia madre, lo so.


È da tanto che non piove. I mosconi si impigliano tra le ciglia con le ali azzurre come tutù e in giro c’è odore di carogne. Pure i pesci al fiume salgono a galla perché l’acqua bolle. Gli occhi tondi e liquidi.
Tonino mi è venuto a prendere con la bici. Si ferma davanti al cancello. Fa trillare di continuo il campanello attaccato al manubrio e mia madre si innervosisce. Mi lancia il telecomando in testa, mentre si mette lo smalto sulle unghie dei piedi, in poltrona, coi bigodini tra i capelli, e dice: “Esci, muoviti, ché a questo non lo sopporto più, non so quante volte glielo devo dire!”.
Mentre chiudo la porta, due donne in tivù si tirano i capelli a vicenda. Hanno le unghie laccate come quelle della mia mamma.
Mi siedo sul sedile di dietro della bici e mi aggrappo con una mano alla maglietta sudata di Tonino. Tonino pedala in piedi. Ha le crosticine del sonno sulle ciglia. Odora sempre di Vicks Vaporub, anche d’estate.
Il pomeriggio andiamo a caccia di vipere. Quando ci scocciamo, ci arrampichiamo sugli alberi e succhiamo limoni o ne mastichiamo le foglie. Tonino, mentre li addenta, strizza gli occhi perché sono aspri, e io rido. Certe volte sotto le foglie dei limoni si nascondono pidocchi piccolissimi. Sembrano i punti neri sul naso della maestra.
Se ammazziamo vipere e gliele portiamo, il vecchio che alleva polli dietro al mulino ci dà un uovo fresco. Uno a testa. Gli facciamo un buco e ce lo beviamo. Però, quando sulle uova ci sono incollate le piume del culo delle galline, mi fa schifo e do il mio uovo a Tonino. A Tonino non gli fa schifo niente.
Una volta io e Tonino abbiamo litigato, allora io ho pisciato sui suoi soldatini di carta.
Poi però mi sono sentita in colpa, pure perché lui non smetteva di piangere e se arrivava sua madre, mi cacciava via. Sua madre mi odia. Allora gli ho prestato la testa della mia Barbie preferita. Ce l’ho sempre con me. Ha i capelli tagliati corti. Ogni tanto metto una mano in tasca e infilo un dito nel buco alla base della testa di plastica. Mi rilassa. Tonino l’ha messa nella scatola che tiene sotto al letto, assieme alla plastilina indurita, alle figurine a doppioni, al pettinino di metallo per i pidocchi, alle caramelle d’orzo, ai pezzi di una matriosca, alle MicroMachines e a tutte le cose belle che troviamo in giro. Gli ho detto che di notte, se si sveglia per un incubo, la Barbie può dargli un bacio sulla bocca o sul pisello, tra le lenzuola. Funziona. L’ho visto fare a mia mamma con mio padre, quello biondo, una volta che mi sono svegliata. E lui, prima aveva una faccia accartocciata, come se volesse piangere, ma poi ha sorriso. Non aveva più paura. “Funziona? Pure se mi sogno IT?” ha smesso di piangere. Ho fatto segno di sì con la testa. “E quando te la devo ridare?”.
Ogni tanto se la porta a scuola, vedo il rigonfiamento nella tasca del grembiule.


Tonino fa i compiti in cucina. Sua madre lo controlla e non lo fa uscire se prima non ha finito.
Io sono più fortunata, mia mamma mi fa uscire quando voglio e non mi dà fastidio per i compiti. Però aspetto sempre che mi viene a chiamare lui, perché, se vado io a casa sua, la madre mi guarda con una faccia che mi fa sentire in imbarazzo e devo stare in cucina ad aspettare mentre Tonino, con le gambe ciondoloni, legge e ripete ad alta voce. Sua madre mi guarda male e mi fa mille domande, intanto che asciuga i piatti o frigge le uova con le mani che odorano di candeggina. Il rumore delle stoviglie mi pizzica la pelle.


Quando ero all’asilo mio padre era magro e alto, aveva solo una gamba, sussurrava e respirava tra i capelli di mia madre. Mi faceva il solletico soffiandomi piano sulla pelle. Era un ventilatore. Quando l’ho detto a scuola, per la festa del papà, tutti si sono messi a ridere.
L’anno dopo, mio padre era il segnavento. Era più alto, era cresciuto. Era sul tetto. Era allegro. Girava su se stesso con una risata metallica.
In seconda elementare, in un tema, era la pala eolica sulla collina. Elegante. Robusto. Si era fatto più serio. E se lo volevo abbracciare, le mie mani non si toccavano.
Mio padre si allontanava sempre più da casa mia, nel vento.
Poi si è sbriciolato in tanti coriandoli, spazzati via dal libeccio. È diventato le mani del salumiere, i baffi del bidello, le lenti spesse del maestro di matematica, i gesti affrettati del postino, il nome più lungo del calendario, la preoccupazione del padre di Tonino, quando andiamo al fiume a fare i tuffi.


Com’era bello, prima, quando giocavo nei giardinetti ed ero piccola. Avevo nove anni.
Adesso ho nove anni e un giorno.
Ancora non piove. La vecchia sta impazzendo. È la perpetua.
La perpetua è grassa.
Fa caldo. Il sole non si è ancora rotto e pesa sulla testa.
La perpetua è lenta. Ha le caviglie grosse e nodose. La perpetua è un albero. Dondola quando cammina. Ora si è fermata. Guarda un manifesto per i morti e il sudore le si impiglia tra le ciglia.
Io so leggere, perché ho nove anni e un giorno. Ieri no.
Accanto al manifesto per i morti, è appeso il volantino di un centro estetico e c’è un culo.
Io ho parlato tante volte con Gesù e lui mi ha sempre risposto. Al supermercato, mentre passava l’antiruggine lungo la cancellata di casa sua, quando gonfiava il materassino per il mare o si tagliava le unghie dei piedi in cortile; mentre dava da mangiare ai maiali.
Solo che prima non sapevo che era Gesù.
Gesù cattura gli uccelli con la colla per topi.
Gesù vende frattaglie.


Il parroco stava sgridando una vecchia perché recitava il rosario fuori tempo in chiesa e faceva confondere tutti i fedeli. Tonino era sull’altare. Fa il chierichetto e ogni tanto si mette le dita nel naso. Il rigonfiamento della testa della Barbie sporgeva da sotto la tunica.
Io stavo seduta sulla panca e aspettavo che la lezione del catechismo cominciasse. Avevo sonno.
Poi è entrato Gesù, solo che non lo sapevo ancora che era Gesù. Era solo il mio vicino.
La perpetua gli ha spiegato cosa doveva fare per la Processione del Venerdì Santo. Gli ha detto che, se voleva espiare, lo doveva fare per forza scalzo. Allora ho scoperto che era Gesù.
Le mani della perpetua sono screpolate e quando respira fa rumore.
Ha un’ombra di baffi sul labbro.

Durante la prima confessione, mi invento peccati mano a mano che li racconto. Il parroco strabuzza gli occhi.

Quando avevo la rosolia, sentivo passi girare in tondo oltre la porta. Sembrava che qualcuno stesse giocando alla Bella Lavanderina nel corridoio, davanti alla camera. Forse erano tutti i miei padri. Mia madre in mezzo. Attorno a lei: un occhio storto, un passo zoppo, una testa arruffata dalle lenzuola -bionda, rossa, nera -, la vertigine del girotondo. Da-i-un-ba-cio-a-chi-vuoi-tu.

Cerchiamo vipere dappertutto. Tra gli steccati, nei cespugli, in bocca a un gatto. Sotto le macchine e da un droghiere. Tra le uova di un nido sugli alberi e fra le pietre della ferrovia, controllandole una ad una.
Siamo passati davanti a un cortile e una madre stava tagliando i capelli a una bambina in piedi in una tinozza d’acqua. La bambina sorrideva senza denti e stringeva forte gli occhi. Con le dita afferrava le ciocche che cadevano e se le infilava in tasca. Mi è sembrato di vedere una vipera nel secchio d’acqua, ma era solo il riflesso del sole.
D’un tratto, dall’altro lato della strada, ho visto, ferma sul marciapiede, Maria Cicciobomba che ci fissava premendosi il monopattino contro la pancia.
Il suo sguardo vuoto e stupido ha schiacciato di colpo l’euforia del mio pomeriggio avventuroso. Maria Cicciobomba ci segue sempre da lontano. A volte in classe lecca la colla stick come se fosse un ghiacciolo. È stata lei a portare per prima i pidocchi a scuola. Ora la evitiamo tutti. Sento ancora l’odore di aceto e olio d’oliva sulla testa. Il pettinino di metallo a denti stretti che mi graffia il cuoio capelluto. Rabbrividisco e sposto lo sguardo.

A casa, mia madre con le mani nell’acquaio tasta il fondo del lavabo per cercare qualche posata. Il caffè sta salendo sul fuoco. Ha le calze smagliate.
Dentro la tivù Stanlio si scompiglia i cappelli, perplesso, mentre Ollio si calca sulla testa la bombetta piena di vernice. Mia mamma, di schiena, ride. Le sue spalle fanno su e giù.
Odora di shampoo e sigarette.
Quando piange, di segatura e cartoni umidi.

Al catechismo il prete ha detto che se ci rivolgiamo a Gesù, lui ci aiuta sempre.
Allora io e Tonino siamo andati a bussare alla sua porta. Lui ci ha aperto scalzo e in mutande. Forse si sta esercitando per la processione. Ha stretto gli occhi per metterci bene a fuoco, come se la luce gli desse fastidio. Aveva un brutto odore.
“Ci servirebbe del veleno per topi. Ce l’hai?”.
“A che vi serve?”.
Ho detto la verità, perché tanto Gesù sa e vede tutto.
“Dobbiamo avvelenare un gatto”.
“Mh”. È tornato con una boccetta di vetro e ci ha chiuso la porta in faccia.
Tonino non riusciva a guardarlo. Aveva gli occhi fissi a terra. Dice che si sente in soggezione. “Secondo te sa pure che spio mia cugina mentre si fa il bagno?”.

Maria Cicciobomba aveva un gatto. Io e Tonino gli abbiamo svuotato un flacone di medicine di mia madre e la boccetta del veleno per topi nella ciotola, mescolando tutto ai bocconcini di carne e gelatina. Durante la controra, quando in giro non c’è nessuno, perché vagano, sospesi nel sole cocente, demoni, janare, satiri, blatte giganti e creature soprannaturali. Tonino è uscito dalla finestra, di nascosto. Sua madre durante la controra non lo lascia uscire. Tonino aveva paura.
L’odore di cipolla dei pranzi da poco consumati scivolava dalle tapparelle abbassate per non far entrare il caldo e gli spettri nelle case.
Il gatto ha mangiato ingordo. Si è leccato i baffi e pure il bordo della ciotola. Ci ha guardato coi suoi occhi tondi e avidi. Ci ha fatto le fusa.
Quando il gatto è morto, Maria Cicciobomba non ha pianto. Se l’è portato in giro come se fosse un peluche per qualche giorno sul fondo dello zaino, tra libri, quaderni ad anelli, mozziconi di colori a cera, zollette di zucchero, carte di caramella e penne a sfera. Se n’è accorta la maestra per la puzza e quando ha aperto lo zaino in classe ha dato un urlo.
“Conce’. Concetta!”
Tonino mi ha chiamato sussurrando dal banco di dietro.
“Eh, che c’è?”.
“Secondo te mo andiamo all’inferno?”.
Questa cosa durante la prima confessione al prete non l’ho detta. Tanto Gesù la sa già.
Al catechismo ho scoperto che Gesù è come me. Pure suo padre è nel vento. Anche lui a casa ne ha un altro che dorme con sua madre, però uno solo e di giorno non scompare.


Oggi cerco le vipere da sola, perché Tonino è in punizione. Ha rubato le mutande di sua cugina, quando sono andati a pranzo dagli zii, domenica, e sua mamma le ha trovate sotto al suo cuscino. Tonino mi ha raccontato che una volta si è svegliato di notte per pisciare e ha sentito delle voci basse basse che venivano dalla cucina. Pensava fosse il munaciello, che gli nasconde sempre i calzini e gli soffia nelle orecchie mentre dorme. Si è affacciato per prenderlo con le mani nel sacco, pure se era un po’ spaventato, e invece ha visto sua madre che faceva il rosario nel buio, attaccata alla tv. L’alone bianco del televisore rendeva la sua faccia cadaverica. Dice che l’ha vista come sarà da morta e si è impressionato. Con il viso deforme e svuotato, simile a un nido di vespe che secca al sole. Sullo schermo TeleLourdes. Dopo non riusciva più a dormire.
Tonino dice che sua madre di notte prega per lui, per salvare la sua anima dall’incesto. Io non lo so cos’è l’incesto.
D’un tratto, mentre vago alla ricerca di vipere, dall’altra parte della strada vedo Maria Cicciobomba che sfreccia sul monopattino, respirando con la bocca aperta. All’angolo della via un commesso si ferma sul retro del supermercato con un carrello carico di carta igienica. Maria Cicciobomba mi fissa col suo sguardo spento e inquietante mentre svolta. Sta per andare a sbattere contro la montagna di carta. Io vorrei dirle di stare attenta. Forse perché mi sento in colpa per il suo gatto. Forse è solo perché non voglio andare all’inferno. Mi porto la mano alla bocca per urlare, ma l’angelo seduto sull’insegna della ferramenta mi indica col dito di stare zitta. Ha le penne delle galline sulle spalle.
Maria sbatte contro il carrello e cade facendo una spaccata in aria con la grazia di una ballerina di danza classica. Resta sospesa per un po’ prima di toccare terra, tra i rotoli di carta igienica svolazzante. È leggiadra e aggraziata. Atterra sulle punte. Raccoglie il monopattino. Mi sorride e vola via.

Quando torno a casa trovo mia madre con le mani ammollo nell’acqua fredda, come la Bella Lavanderina. Lava mutande e calze. I denti macchiati di rossetto. Le sue spalle fanno su e giù. Piange, poi si mette a ridere. Piange di nuovo e mi abbraccia, disperata, con le mani che sanno di sapone di Marsiglia sulla mia faccia. Mi butta i polpastrelli negli occhi, le dita tra i capelli.
“Concè, la vuoi una sorellina? La vuoi?”.
No, io voglio un padre.
Poi però ho pensato che la sorellina la potevo barattare, come con le figurine doppioni durante l’intervallo. A Dio piacciono i bambini…Penso alla storia di Isacco, penso a Erode.
Poi però ho pensato che se ci rivolgiamo a Gesù, lui ci aiuta sempre.
L’angelo fuori dalla finestra mi ha fatto l’occhiolino.

Prima che inizi la processione, davanti alla chiesa c’è un gran fermento. I bambini paffuti che fanno gli angeli si sistemano le ali di carta pesta. Salomè fa tintinnare i sonagli della sua gonna sui fianchi. Ha le labbra rosse. C’è vento. Le aureole volano via. San Giovannino le rincorre.
Io cerco Gesù, tra la folla in costume. Finalmente lo trovo. Sta fumando col centurione.
Mi avvicino. “Gesù, te la vuoi sposare a mia mamma?”.
Lui si mette a ridere e dice “Eh sì, Gesù che si sposa Maria Maddalena!”.
Il centurione ride insieme a lui, con una risata cattiva. “Concè, e poi tuo padre che dice? Quello è la turbina di una centrale eolica, poi è cazzo che ci lascia tutti senza corrente!” e schiaccia la sigaretta sotto al sandalo. Ridono.
Mi allontano tra le fiaccole con quegli sghignazzi nelle orecchie. Mi viene da piangere. Il vento si alza. Si sente odore di pioggia e verdure marce nell’aria.

La gente si inizia ad accalcare ai bordi della strada. La processione si muove. La perpetua guida il coro delle vedove piangenti.
Tonino mi corre incontro e mi dice “Tu qua stai? Non ti trovavo più!”.
Non gli rispondo. Dal marciapiede seguo Gesù. Spingo la gente che mi sta davanti. Dribblo le candele alla citronella. Tonino mi viene dietro. Mi chiama.
Quando il Giudeo frusta Gesù, io sorrido.
“Tonì, ce l’hai la Barbie? Dammela!”.
Prendo la Barbie e la tiro in testa al nazzareno. Rimbalza. Gesù si gira e mi guarda confuso. Appena si volta gli lancio un sasso, forte, tra i capelli.
Gesù grida e si porta la mano alla tempia. Gli cade la croce addosso. Il Cireneo lo aiuta. La Veronica con la pezza gli pulisce la tempia. Corro verso di lui e gli butto una vipera sui piedi. Scappo via, mentre tutti gridano nel vento.
Tuona. Inizia a piovere. Finalmente piove.

Quando andrò all’inferno, lo dirò che la vipera era già morta, e che a me bastava un padre, uno soltanto, pure se era falegname, pure se era vecchio, pure se non era il mio, ma che di giorno non scompare.
E li vedrò tutti -i miei padri, Gesù, la perpetua, Tonino, Maria Cicciobomba, il parroco, la mia mamma che ride e piange, l’angelo della ferramenta con la testa della Barbie su un dito, il gatto, la sorellina- fare il girotondo coi forconi attorno a me, mentre mi gratto per la rosolia:
Fai una giravolta
Falla un’altra volta
Guarda in su,
guarda in giù
Da-i-un-ba-cio-a-chi–vuoi-tu!


Emanuela D’Amore è nata nel 1986 in provincia di Salerno. Si è laureata in Archeologia e Storia dell’Arte, si è abilitata all’insegnamento della Storia dell’Arte per la scuola Secondaria di II grado e si è specializzata sul Sostegno. Attualmente lavora come insegnante a Belluno. Ha frequentato il corso di scrittura creativa Lalineascritta di Antonella Cilento.  Alcuni suoi racconti sono comparsi su Toilet, SalernoLetteratura, Il Roma


 



Il racconto vincitore del contest OGNI DESIDERIO

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L’11 Maggio nell’ambito del Salone del libro di Torino, è stato decretato il vincitore del concorso ‘Ogni desiderio’ per racconti indetto dal Premio Italo Calvino, in collaborazione con Cattedrale, Book Pride e Salone del Libro.

Ottima la partecipazione per questa prima edizione, in cui i partecipanti sono stati 1065.

Il vincitore decretato è Claudio Lagomarsini con il racconto ‘In virtù di un cavillo’, che ha saputo coniugare il tema del concorso in modo attento, intenso e anche ironico, con una scrittura consapevole e compatta, che rinuncia all’esibizione, pur nella sua essenziale espressività ed efficacia.

*


In virtù di un cavillo

di Claudio Lagomarsini

 

In una cittadina industriale del Nord-Ovest, al secondo piano di un letto a castello, nella bolla di luce disegnata da una lampada buffa e minacciosa a forma di Amanita muscaria, Marcello Scolari, nove anni, sfidò Dio.
«Ora, se esisti davvero…»
Dando del tu all’Onnipotente cercava qualcosa di eclatante da chiedere. Non si stava rivolgendo, lo sapeva bene, a un ciarlatano qualsiasi. Non potendo tirare la corda, doveva avanzare un’unica richiesta e scegliere qualcosa che gli sarebbe servito per sempre. Per questo aveva escluso, tra le altre cose desiderabili, i videogame, dopo aver notato che stranamente i grandi tendono a non usarli più.
Ci aveva pensato a lungo ed era quasi deciso: avrebbe chiesto una bicicletta, una bici da corsa come quella di zio Gianluca. Suo padre aveva detto che per comprare una bici del genere ci volevano almeno due mesi di stipendio, ma facendo anche gli straordinari nel turno di notte.
E allora «se esisti davvero», avrebbe detto «ora mi fai comparire una bici come quella dello zio. La fai comparire qui, adesso, in camera mia e di Nico. Sta’ soltanto attento a non far rumore, però, altrimenti Nico poi si sveglia e quello è tremendo, lo sai, non si addormenta più. E attenzione anche alla mia ruspa di plastica, che si è già rotta due volte e il papà ha dovuto mettere il nastro adesivo tutto intorno al braccio».
Per essere valida la richiesta doveva essere preceduta da un solenne segno della croce. Marcello si sfiorò la fronte: «Nel nome del…», ma ci ripensò appena in tempo: che razza di scelta è una bicicletta? Non bisogna essere onnipotenti per portare una bici in una cameretta. Simone, un suo compagno di classe, aveva chiesto e ottenuto una bici da Babbo Natale. Un’altra sua compagna, Aminah, aveva chiesto al suo dio di far guarire la nonna dal cancro, ma la nonna era morta lo stesso. Prova che il dio di Aminah non esisteva affatto. Su questo punto, del resto, la catechista era stata molto chiara: esiste un unico dio, si chiama Dio e per fortuna è il nostro.
Indeciso e annoiato, Marcello si lasciò cadere sul cuscino. La calotta à pois della lampada proiettava sulla parete una galassia di dischetti bianchi che, salendo verso il soffitto, si sformavano e, diventando sempre più ovali, perdevano luminosità.
«Se esisti davvero», pensò Marcello «adesso mi fai comparire una fiamma sul pollice». Provò il gesto, ficcando il pollice sotto l’indice ed estraendolo con uno sfregamento, come si farebbe con un accendino. Gli parve una richiesta ragionevole da rivolgere all’unico vero Dio. Non era il caso, con Lui, di mostrarsi avidi e domandare qualcosa che si potrebbe comperare con i soldi. Soprattutto, per l’idea che se ne era fatta Marcello, era meglio evitare di chiedere qualcosa che avrebbe comportato una spiegazione: chi ti ha dato la bici? Dove l’hai presa?
La richiesta esaudita, inoltre, doveva rimanere un segreto. Oltretutto, se fosse comparsa la bicicletta, Marcello non avrebbe potuto usarla. Facendosi vedere in sella a una bici da due stipendi, infatti, avrebbe suscitato l’invidia dei compagni, e gli sembrava di ricordare che l’invidia rientrava tra quelli che la catechista chiamava «i peccati gravi-gravi». Meglio non coinvolgere Dio, allora, correndo il rischio di renderlo complice in una faccenda ambigua. 
«Se mi fai vedere che esisti, sarò buono per sempre». Marcello capì che per ottenere qualcosa di grande doveva offrire qualcosa di grande. Appena disse “buono per sempre”, si immaginò nei panni di un santo. Improvvisamente, l’idea che essere esaudito comportasse anche un’enorme responsabilità lo sprofondò nel turbamento. Il sintomo più concreto fu una tensione che partiva dall’ano e si irradiava nelle budella. Ma era deciso: non appena ottenuta la prova e averci dormito su, il mattino dopo si sarebbe rasato i capelli come quel fraticello nel dipinto buio e screpolato appeso di fianco al confessionale nella Chiesa Grossa. (C’erano due chiese, nella cittadina industriale: la Piccola, dove lo accompagnava sua madre, e la Grossa, un edificio monumentale che sembrava una scatola di sardine sott’olio, dove Marcello andava con nonna Irma, segretamente scandalizzata dal colore della pelle e dalla pronuncia barbarica di don Jean-Pierre, il prete haitiano dell’altra parrocchia.)
Forse, però, c’era un problema (quando se ne ricordò Marcello si morse il labbro e smise di trafficare con le dita-accendino): Enrico, suo padre, bestemmiava in continuazione. Bestemmiava specialmente di sera, quando tornava dalla fabbrica e iniziava a litigare con mamma per le ragioni più stupide. La catechista aveva parlato chiaro: peccato grave-grave, che poi sarebbe una specie di cartellino rosso; quando lo prendi, finisci quasi di sicuro all’inferno.
Una sera Marcello era entrato in cucina nel mezzo di una discussione che si faceva sempre più accesa. Il nome di Dio fu accostato a quello di due animali. Per la foga della bestemmia suo padre sputacchiò, facendo esplodere una nube di saliva contro la luce del lampadario.
«Papà, smettila! Chi bestemmia va all’inferno».
E il papà si era bloccato, inchiodato in una posa innaturale come certi calciatori quando vengono stregati dalla moviola; aveva abbassato gli occhi, le braccia gli erano cadute lungo i fianchi, con la mano destra si era pettinato i baffi e li aveva asciugati dalle goccioline che gli tempestavano la peluria castana e fitta.
«Andare all’inferno, io? Ma non lo vedi, non lo vedete che all’inferno ci sono già?» ed era sparito in camera, dove aveva continuato per un pezzo a parlare da solo.
Quello delle bestemmie, insomma, rischiava di essere un bel problema. Marcello fece un tentativo: in via del tutto informale avrebbe estratto il pollice dalla mano. Non si trattava, che fosse ben chiaro, di una vera richiesta, ma solo di una prova generale, una piccola richiesta esplorativa. Non era necessario far apparire la fiamma, bastava qualche scintilla per avere la ragionevole sicurezza che qualcuno si fosse messo in ascolto.
Si concentrò, infilò il pollice nel pugno stretto, lo estrasse velocemente grattando l’unghia contro la pelle dell’indice. Niente, nemmeno un bagliore.
Altro problema delle bestemmie di papà: anche soltanto averle sentite e, volente o nolente, essersele ripetute poteva inficiare tutto. Ma sarà mai possibile che un santo sia squalificato a causa di un padre peccatore? Sarebbe assurdo se funzionasse così. Quanto alle scintille mancate, Marcello ebbe la dimostrazione che non sono concesse prove generali: o si fa una richiesta – la richiesta – oppure niente. La fede c’è o non c’è. La catechista diceva che la fede non è una torta della nonna, da fare a fette e mangiarne quanta ne vogliamo.
L’una e cinque. La radiosveglia – un cubo a bande nere e azzurre con lo stemma dell’Inter stampato su un fianco – segnava un’ora proibita. In assenza della prova che ipso facto lo avrebbe trasformato in un santo, il mattino dopo Marcello si sarebbe dovuto alzare per andare a scuola. Se non si metteva subito a dormire rischiava di crollare sul banco, prendere una brutta nota e mettersi su una strada molto lontana dalla santità.
Respirò a fondo, socchiuse le palpebre, visualizzò il pollice che prendeva fuoco (si sarebbe bruciato la pelle? rischiava di incendiare le lenzuola?). Aprì gli occhi e si segnò con la croce. Non aveva mai creduto tanto intensamente come in quel momento. 
«Se esisti davvero, adesso…»
«Marcello… Marcello!»
Raggiunto dal sussurro, Marcello fece un balzo, si mise a sedere e si portò il dito-accendino contro il cuore.
«Marcè!»
Dalla porta apparve la sagoma di sua madre. Quando indossava le sue babbucce pelose, mamma aveva i poteri di un ninja giapponese, capace di spostarsi per casa senza essere vista o sentita da nessuno.
«Cos’è ’sta luce? Spegni un po’, dài! Ma lo sai che ore sono?»
Parlava sottovoce ma era come se gridasse: un altro dei suoi poteri. Si avvicinò al letto a castello e controllò Nico, che dormiva come un sasso. «Cos’hai? Stai male?» disse poi a Marcello.
«No, niente. Ho sentito un rumore e mi sono svegliato» (Bugia: peccato grave-non gravissimo.) «Ora dormo».
Sua madre slittò sulle babbucce e sparì dalla stanza. Subito dopo Marcello fu costretto a spegnere la lampada-fungo. Del resto non ce ne era alcun bisogno. Rimase in ascolto per qualche secondo, sentì sua madre entrare in bagno, riconobbe lo scroscio della pipì – così sottile, ben diverso dalla cascata di papà –; poi una pausa e un altro scroscio sommesso: mamma padroneggiava anche l’arte di tirare lo sciacquone in sordina.
Quando furono passati cento secondi, che Marcello contò in silenzio, ripresero le operazioni. Bisognava ripetere il segno della croce, invalidato dall’interruzione.
«Nel nome del Padre, del Figlio e dello…» Quello stupido di Nico, una volta, aveva detto «dello spigolo santo», facendo infuriare la catechista e guadagnandosi la più temuta delle punizioni: rimanere in oratorio mentre gli altri bambini giocano a pallone. Marcello continuava a perdere la concentrazione. Dov’eravamo rimasti? «Del Figlio e dello Spirito Santo, amen».
Per la terza volta cacciò il pollice nel pugno chiuso. Visualizzò ancora una volta la fiamma e, all’interno del fuoco, la propria immagine trasfigurata nel profilo di un fraticello in preghiera.
«Ti prometto che sarò sempre buono. Ma per essere buono per sempre devo sapere che esisti veramente. E se veramente esisti, adesso voglio che…»
Ma che idea imbecille! E come aveva fatto a non pensarci prima? La soluzione era sempre stata lì, letteralmente a portata di mano, sulla mensola dove stavano i libri di scuola, i giocattoli, i fumetti e i dvd. Tra questi c’era anche il dvd piratato di Aladdin che il papà si era fatto passare da un compagno della fabbrica. Lo avevano visto insieme una domenica pomeriggio, il papà, lui e Nico (la mamma stirava in un’altra stanza). Quando il genio aveva spiegato la faccenda dei tre desideri, Enrico – che frequentava il gruppo del sindacato fin da ragazzo ed era un mago dei cavilli – aveva fermato il video:
«Voi che cosa chiedereste?»
Senza pensarci su, Nico aveva chiesto tre giocattoli di cui, oltretutto, storpiava il nome rendendolo irriconoscibile. Marcello ci aveva riflettuto ma, sospettando un inghippo, era rimasto in silenzio.
«Dillo prima tu!»
Enrico aveva fatto un ghigno sotto i baffi: «Allora, io chiederei per prima cosa una Ferrari Enzo, che è la macchina più bella mai costruita. Poi chiederei…» (abbassò il tono della voce) «…di far tornare la mamma come il giorno che l’ho conosciuta. Poi chiederei…» fece una pausa, lasciò che il silenzio gonfiasse la curiosità dei suoi figli. «Come terzo desiderio chiederei il potere di ottenere desideri infiniti».
Nico era troppo piccolo per capire quella forzatura formale. Marcello ci mise qualche secondo ma alla fine afferrò il punto: riconobbe che era una soluzione magistrale.
Il ricordo di quella domenica lo illuminò. Era l’una e dieci. Il cuore gli batteva all’impazzata, al punto che poteva sentirlo nel buio. Respirò, ripeté il segno della croce, questa volta serissimo.
«Ti prometto che sarò per sempre buono. Domani stesso diventerò un santo. Ma se davvero esisti, ti prego ti prego ti prego: dammi il potere di desiderare ogni desiderio».
La lampada-fungo – che a dire il vero era un po’ difettosa – si accese di colpo e proiettò sulla parete i suoi cerchietti bianchi. Uno dei cerchietti illuminò la fronte di Marcello Scolari, nove anni, che quella notte osò sfidare Dio.


Claudio Lagomarsini (Carrara, 1984) insegna Filologia romanza all’Università di Siena. Nella sua attività di ricerca si occupa prevalentemente di narrativa francese medievale del secolo XIII e, al momento, sta traducendo la Storia del Santo Graal per i “Millenni” Einaudi. 
Negli ultimi anni ha pubblicato racconti su “Nuovi argomenti”, “Inutile”, “Colla”; è autore di articoli di approfondimento e longread per "Il Post”, “Minima & moralia”, “Le parole e le cose”. 


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Buonanotte fratello, un racconto di Ivan Ruccione

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«Tu mi stavi ammazzando
tu mi stavi ammazzando con amore
ed io dormivo dov'era più freddo
dentro il mio pozzo ormai senza pudore
con il mio cuore stranamente nudo
e mi dicevo adesso sì che sto crescendo
invece era soltanto una stazione».

 Buonanotte fratello, Francesco De Gregori.


 

Papà torna a casa dal lavoro e mamma gli racconta quello che hai fatto.
«Non è possibile», dice. «Ti sarai impressionata».
Si fa consegnare la chiave della mia camera, la inserisce nella serratura e apre la porta. A tentoni tocca il muro in cerca dell'interruttore; copro gli occhi col braccio un attimo prima che accenda la luce. Bisbiglio un saluto.
«È vero quello che ha combinato?», mi chiede.
Scopro gli occhi e sollevo la schiena in un lampo.
«Ma non li hai visti i lividi?»

 Stavi preparandoti per uscire.
Hai detto: «Mamma, lucidami gli anfibi».
«Certo», ti ha detto.
Che altro ti deve dire. Come sempre ha fatto quello che hai chiesto.
Li hai guardati e hai urlato:
«Cazzo, me li hai graffiati!»
«Ma no», ha detto mamma. «Non te li ho graffiati».
Hai cominciato a camminare per casa nervosamente. Mentre camminavi riflettevi. Mamma si augurava che una scintilla nella tua testa ti facesse rendere conto che non c'era ragione di arrabbiarsi. Che sei un uomo.
«Non li avrò puliti bene», ha detto mamma. «Fammi prendere lo straccio».
Io ero a letto. Ho chiuso il libro che stavo leggendo e sono volate via tutte le cose che mi tengono lontano da te, che mi conducono a una camera iperbarica.
«Ci risiamo», ho detto.
Mamma ha ripulito gli anfibi, ha cercato di togliere il graffio come se fosse una missione di vita.  «Vaffanculo!» hai urlato. «Non viene via un cazzo, me li hai rovinati!»
Ho avvolto il cuscino attorno alla testa, ho sentito il lezzo degli incubi assorbiti dalla federa.
Ho aperto la porta della mia stanza. Hai preso per il collo mamma e l'hai inchiodata al muro. Hai fatto dondolare l'anfibio davanti ai suoi occhi, poi l'hai buttato a terra. Hai serrato la sua gola con due mani e ho visto il volto avvampare. Le mie braccia immobili lungo i fianchi, paralizzate dai suoi occhi verdi, schizzati fuori dalle orbite sotto la tua pressione. L'hai spremuta fino a farle uscire le lacrime, fino a estrarre il succo del suo cuore marcescente.
Hanno suonato alla porta e hai mollato la presa. Sono corsa ad aprire.
«Che succede?» ha chiesto la vicina.
Mamma ha tossito e ha detto: «Niente».
«Devo chiamare qualcuno?»
«No, no, non ti preoccupare, non è successo niente».
Sempre “niente”, dice.  Anche se quel niente sei tu.

Papà si passa il dorso della mano sotto il naso, si liscia la barba attorno alla bocca, fino al mento. Si avvicina per sedersi sul bordo del letto. Poi arriva mamma.
«Adesso dov'è?» le chiede.
«È uscito».
«Mamma», dico. «Chiama quella cazzo di comunità e digli che ce lo riporti».
Infila le mani nelle tasche del grembiule, guarda il soffitto dopo aver tirato un grande sospiro.
«Non ce lo vogliono più», dice.
«Scapperà un'altra volta», prosegue papà. «Non dura due mesi. E poi ancora mi toccherà cercarlo per giorni e tirarlo fuori dai guai».
Mi distendo e copro di nuovo gli occhi col braccio.
«Salvati almeno tu», dice mamma. «Non lo meriti».
«Voi invece lo meritate, vero?»
«Non abbiamo scelta», dice papà.
«Ora chiamo la zia», dice mamma. «Puoi stare da lei».
«No», dico. «Non ci vado dalla zia».
«Finché non ti laurei», dice papà. «Manca poco, in fondo. E poi ne riparliamo».
«Sì», dice mamma. «Mi sembra una buona idea».
«No», dico solennemente.
«L'altro giorno è toccato a te», ribatte mamma.
«Ti prego», insiste papà. «È per il tuo bene».
«E al vostro non ci pensate?»
Papà si alza dal letto e cammina verso la porta. Sento il materasso che, liberato dal peso, riacquista la forma. Papà si  ferma a due passi da mamma, le mette una mano sulla spalla per guidarla in cucina.
«Ohi», gli rammento. «La porta».
«Buonanotte», dice. «Scrivimi, se hai bisogno».
Spegne la luce e mi chiude dentro.

Il giorno dopo mi alzo tardi perché la notte non ho chiuso occhio.
Tiro giù la valigia dal guardaroba, la getto sul letto. Una valigia nuova di zecca che mi ha regalato mamma al conseguimento del diploma. Una valigia mastodontica, a cui non ho mai trovato il senso della misura; il cui senso lo trovo ora che non mi serve per andare in vacanza.
Mamma mi aiuta a riempirla. In sottofondo c'è un disco dei Pearl Jam che stai ascoltando a tutto volume in camera tua. Mamma dice di mettere l'indispensabile, dice che il resto me lo porterà papà all'occorrenza.
«Mamma», le chiedo, «com'eri alla mia età?»
Prende una camicia dal guardaroba e toglie la gruccia. Si china verso il letto, la piega a modo e stira con le mani il colletto. La sistema nella valigia, risolleva la schiena mentre sposta i capelli biondi dietro le orecchie.
«Mi sembra passato un secolo».
«Mi dispiace», dico. E la abbraccio forte.

Papà parcheggia nei pressi della stazione. Scende dall'auto lasciando il motore acceso, mi aiuta con la valigia nel bagagliaio.
«Ti scoccia se non vengo fino al binario?» dice.
«Non ti preoccupare, pa'. Non ce n'è bisogno».
Guarda l'orologio e dice: «Be', siamo in anticipo. Puoi fare con calma».
«Sì», dico. «Stai tranquillo».
«Chiama la zia, quando stai per arrivare».
So che vorrebbe dirmi altro ma non riesce, il suo sguardo fugge altrove per la commozione.
Gli do un bacio e trascino dietro di me la valigia, attraverso la strada guardando le mie scarpe che calpestano l'asfalto. Uno stridio di pneumatici mi fa sobbalzare sul posto. Vedo un'auto a pochi passi da me, il conducente alza la mano in segno di scuse. Raggiungo l'ingresso della stazione, mi volto per salutare papà dall'altra parte della strada.
Do un occhio al tabellone delle partenze. In cima alla lista c'è un altro treno al terzo binario, così mi affretto per le scale del sottopassaggio, mi affanno di nuovo in superficie con la valigia che sembra voglia spingermi giù. Si ode il fischio del capotreno e monto in carrozza due secondi prima che le porte si chiudano. Mi siedo sul bagaglio per riprendere fiato.
Poi percorro i vagoni a rilento, dando il tempo ad alcuni passeggeri di sistemare le loro cose nella cappelliera, finché non raggiungo il capotreno.
«Mi scusi», gli dico, con ancora tracce del fiatone. «L'ho preso al volo e non sono riuscita a fare il biglietto».
Poggio la valigia a terra e lo zaino sulla valigia per cercare il portafoglio. Lui prende il pos.
«Dove deve andare?»
Alzo lo sguardo dallo zaino.
«Non lo so».
La visiera del suo berretto si solleva, spinta dalle pieghe della fronte, mentre mi fissa con perplessità dietro un paio di occhiali da lettura posati sulla punta del naso.
«Signorina», dice. «È necessario che lei lo sappia».
«Qual è il capolinea?» gli chiedo.
«Roma».
Ci rimugino su. Dico: «Sì. Va bene. Roma può andare».
«Si segga, intanto, che siamo prossimi a una fermata. Arrivo subito».
L'aria che entra dal finestrino sa di terra, un alito umido e perpetuo. Inserisco gli auricolari nel telefono e avvio la playlist con le mie canzoni preferite.
Allungo il collo sopra le testiere e poi nel corridoio, preoccupata dal non arrivo del capotreno.
Il telefono vibra per una chiamata anonima, penso che qualcuno voglia dirmi che stavolta li hai uccisi.
Mi agito irrequieta sul sedile, cercando di soffocare quest'idea. Il buio sta calando sulla campagna e sulla ferrovia. La valle è puntinata dalle luci di poche strade e abitazioni. Volevo essere così, un borgo antico e immobile. Invece mi hai reso una metropoli, caotica e invivibile.
Mi chiedo se il ragazzo seduto di fronte a me vede la tua ombra nei miei occhi, o se mi vede bella come un fiume che scorre docile verso il mare.

   


 Ivan Ruccione (1986) è nato e cresciuto a Vigevano. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Nazione Indiana, Grafemi, Altri Animali, Poetarum Silva e Pastrengo. Nel 2017 è uscito il romanzo A fuoco vivo, Miraggi edizioni. Fa il cuoco e smania per i libri di racconti.

 

Shanghai, un racconto di Andrea Herman

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Parcheggio lungo una carraia, di fianco al filare di abeti. Spengo motore e luci. Sento uno sbraito provenire dalla piazzetta, su dalla curva che gira l’angolo del bar K2. Dev’essere il Magro. A quest’ora finisce con i depuratori, i prelievi, o quello che è. Non c’ho mai capito. So che il suo lavoro ha a che fare con l’acqua. So che, se non ci sono interventi urgenti, a quest’ora finisce, si siede a banco con Perla, ordina un giro.
La strada per Ligonchio è chiusa, colpa di una frana. Dalle Vaglie non passa nessuno. Controllo comunque la via Centrale in cerca di passanti. C’è solo asfalto crepato, un paio di gatti randagi. Cinquecerri non è zona di transito, anche quando la terra non frana.     
Salgo con lo sguardo le villette sull’altro lato: un piccolo gruppo di case che in paese chiamano Shanghai. Scuri chiusi, erba alta, nessuno alle finestre.
Prendo la macchina fotografica dal sedile passeggero e porto l’occhio al mirino. Stringo l’inquadratura sulla casa nel mezzo, l’unica con gli scuri aperti. Vedo la tavola apparecchiata e il televisore acceso. La pentola a pressione è sul fuoco, pronta a fischiare da un momento all’altro.
Oggi è mercoledì. Domani sarà giovedì e via dicendo. I giorni hanno a che fare con il lavoro e io lavoro poco e male: brutte fotografie da ficcare su siti internet e pagine facebook, un matrimonio o due quando capita. Qualche ritratto a bambini tronfi o vecchie racchie che non accettano l’inevitabile.
Tengo l’obiettivo puntato sulla finestra, il dito sospeso sul pulsante di scatto. Si chiama fishing technique, tecnica della pesca. Prepari la scena e aspetti il soggetto da fotografare. È un gioco d’attesa. A volte ci vogliono ore. Come nella pesca, credo. Non ci sono mai andato. Il Magro mi voleva portare. Va spesso in un punto del Secchia che conosce solo lui.
Mercoledì, giovedì e via dicendo. Via le rughe, toglimi dieci anni. Tutto cambia a sto mondo, signora. Fammi sembrare giovane. Con Photoshop si può, giusto? 
Ricordo quando il Magro si è presentato al bar con cinque trote fario: i ventri giallo canarino e i fianchi chiazzati di macchie bruno-rossastre. Gli occhi fissi, lucidi, con dentro una luce ancestrale. Qualcosa che spiega l’origine della vita e della morte. Che poi in una c’è l’altra, e non solo al termine del viaggio.          
Tutto cambia a sto mondo. Rimangono poche certezze. La fine del gioco è inevitabile, poco importa se in una bara o una fossa comune. Poi il Magro, che a quest’ora entra al K2 sbraitando, si siede a banco con Perla. E il mercoledì in quella casa, per cena. Da che mondo è mondo, mercoledì è la sera del minestrone.
«Vieni a pescare e non stracciare i coglioni, dai che ci divertiamo».
Non so quanto è passato. Del tempo non m’importa più molto. Allora tanto vale restare seduto qui. Ogni tanto staccare l’occhio dal mirino, controllare ancora, nonostante la strada chiusa. Una formalità. Non ho nulla da temere, non mi vede nessuno.
La pentola a pressione fischia. Sara accorre a spegnere il fuoco. Indossa un vestito rosso e porta i capelli corti. Prende il ramaiolo dal cassetto, si volta e dice qualcosa. Le labbra disegnano un mezzo sorriso. Gli occhi restano socchiusi, guardano in basso. La luce scalda i torni rosei della sua pelle; crea una leggera ombra, la segna a metà. La bocca sottile e severa da una parte, che si accende come un accento sull’altra. Ripenso ai contrasti violenti di Sobol, ai toni più morbidi di Kertész. A una sera di molti anni fa, sdraiati sul divano. Le cingevo le spalle e Sara cercava le mie mani. I suoi capelli, allora lunghi, mi cadevano sul viso. Ogni tanto un bacio, nel paese bianco di neve.
Clickclickclickclick. Scatto in rapida sequenza, come nella fotografia sportiva. Vedo solo brevi momenti tra uno scatto e l’altro. Centesimi di secondo di un corpo, la vita di Sara che si muove. Quando la raffica finisce non c’è più la pentola, il ramaiolo. In televisione scorre la pubblicità di una partita. Fuori una pioggia che cade e non cade: sull’asfalto, le fronde, i campi,  l’abbondanza e la miseria. Del tempo non m’importa più molto e qui c’è troppo tempo.
Avvio motore e luci. Guido veloce, con lo stereo acceso. Sono poche centinaia di metri, ma ho una fretta improvvisa. Andare veloce e con lo stereo acceso.
Parcheggio nella piazzetta. Scosto le tendine di plastica, entro al K2.
«Chi non muore si rivede» fa il Magro.
«Come andiamo?» chiede Perla.
Ordina un giro alla barista cinese che prepara i bicchieri. Brindiamo e il Magro attacca a parlare di lavoro e di pesca. Lo fa in un unico discorso confuso: purezza dell’acqua, giorni che mancano alla pensione, lenze. Operai, pescatori, impiegati dell’INPS. Pescatori che sono anche operai e mai impiegati. Ordina un altro giro e spiega che il toscano non ha più lo stesso sapore da quando ha preso la legionellosi.
«Una malattia che ha a che fare con l’acqua. Proprio a me dio bestia. Da non crederci».
«Vien dal soldato» fa Perla, «quello lì di Roma. Il legionario».
Racconta di quand’era giovane e faceva il servizio militare. Naia, figa, ancora naia e ancora figa.
«Come la merda» dice il Magro.
«Sveglia presto, branda in ordine e pedalare. Mica tutte le balle che c’hanno adesso» fa Perla.
«Smetto mica di bere» dice il Magro.
«C’aveva ‘na figa tenera come un budello».
«Ma è come bere merda».
Rimango in silenzio e ascolto. Butto giù i miei giri, uno dopo l’altro. Osservo i sedimenti del toscano, rossi e lividi, come sangue raggrumato. Ogni tanto guardo la fotografia appesa alla parete, dietro il bancone. Uno scatto di Shanghai fatto da me tanti anni fa, quando era ancora un quartiere pieno di gente.
«Fotografi ancora?» Chiede il Magro.
«Poco e male. Non c’è più lavoro».
«Allora è il caso che te ne trovi uno vero» dice Perla.
Fa accendere il televisore alla barista. La partita sta per iniziare. Le formazioni scendono in campo e i giocatori si stringono la mano. Perla le chiede di alzare il volume e le indica la fotografia.
«Casa tua, visto?»
«Non capisco».
«Quella è casa tua, Shanghai».
«Io vengo dal Sichuan».
«E io cos’ho detto».
«Tu hai detto Shanghai».
«Appunto».
Prende il bicchiere e va a sedersi a un tavolino. Alza la testa verso lo schermo luminoso. La luce fredda gli cade sul viso come a un attore di teatro durante il monologo. La pelle butterata, livida. Il fegato cirrotico: se non ora, presto. La naia, poi una vita da operaio. Un soprannome, Perla, che non si sa bene da dove derivi. Più ombre che luci sul suo viso, sotto il televisore, al calcio d’inizio. Qualche anno ancora di lavoro, la pensione, per lui come per il Magro. Se tutto va bene. Se il governo, dio, o chi per lui. Poi continuare l’esilio su queste montagne, tra bicchieri e partite di calcio.
«Stasera vinciamo» dice Perla «non c’è n’è per nessuno. Stasera li massacriamo». 
Il Magro mi mette una mano sulla spalla, sente che tremo. Stringe più forte e in qualche modo mi rassicura.
«Ho saputo» dice.
«Cosa vuoi…» faccio io.
«La vita è un cameriere. Mette e poi leva».
«Almeno c’ho la salute».
«E il vino per te sa ancora di vino».
«E il vino per me sa ancora di vino».
«Di-vino!» Sbraita il Magro, alzando la balotta al cielo.
Paga e mi fa segno di seguirlo. Esce dal K2 e monta sulla jeep. M’invita a salire. Prima di farlo prendo la macchina fotografica, spengo lo stereo che avevo lasciato acceso. Sbatto la portiera cigolante mentre lui avvia a fatica il motore.
La pioggia s’è infittita. Il Magro aziona i tergicristalli e attacca l’aria per spannare i vetri. Si ferma prima degli abeti. Guarda verso la casa nel mezzo, poi verso di me.
«So io quel che ci vuole» dice. 
Svolta nella carraia. Sobbalziamo nella notte, con i fari bassi che mostrano solo quello che è a un palmo dal naso; il suono dei tergicristalli, la carrozzeria che scricchiola, il rumore secco di una grossa borsa che balla nel baule e picchia a ogni buca come un orologio. 
«Cos’hai intenzione di fare?» gli chiedo.
«Tutto a suo tempo» fa lui.
Infila una traversa poco battuta, dove la strada si restringe e sale ripida. I rami sbattono contro il cofano e i finestrini.
«Porta a un vecchio deposito abbandonato» dice.
«Ho sbagliato tutto» faccio io.
«Tieniti forte».
«Ho sbagliato tutto».
«Viviamo in un posto dimenticato da dio, ricordalo».
Infila le ridotte e il motore si mette a strillare. Oltre il cofano solo polvere, pioggia, fronde e stelle. Il Magro alza la voce per farsi sentire.
«Dove cazzo è la luna?» Dice. 
Riguardo gli scatti di Shanghai. Scorro le immagini sull’LCD.
«Riprendiamoci la luna!» Sbraita il Magro.
Per un attimo la jeep sembra impantanarsi ma poi riprende la sua corsa verso le Vaglie, e ancora più in là, dove non passa mai nessuno.
Come nella fotografia sportiva.
Sara, una buona esposizione, la finestra che fa da cornice a Shanghai. Framing, si dice. Purtroppo ha gli occhi chiusi. Li riapre quando da un angolo basso spunta un piatto.
Mio figlio compare sorridendo. Si è fatto grande. Un bel pinino. Va verso la pentola ma Sara lo rimprovera. Una scena comune, anni fa era lo stesso. È qualche centimetro più alto, si è fatto anche paffuto. O forse è solo il mio punto di vista a essere diverso.
Continuo a scorrere le fotografie. Spunta un naso, delle braccia robuste. Un uomo abbraccia Sara. Dev’essere il nuovo marito. Si sono sposati da poco.
Penso alla neve di quel giorno, i capelli sul mio viso. Cerco di ricordare il loro profumo. C’era un libro di Hopper aperto sul tavolino da caffè. Il fuoco bruciava nel camino. La legna scoppiettava  e si sentiva il rumore di una pala che sfregava l’asfalto.
Avvicinano le labbra, Sara e l’uomo. L’attimo prima del bacio. L’attimo dopo.
L’uomo accarezza i capelli di suo figlio. O forse solo un figlio. Una madre, due padri.
Scompaiono dalla composizione. Rimane Sara. Infila il ramaiolo nella pentola, porta in tavola. Nell’ultimo scatto il suo corpo senza volto, la schiena chinata, il vestito rosso, la televisione. 
«Ci siamo» dice il Magro. Prende una torcia dal cruscotto e scende dalla jeep. Punta il fascio di luce sul deposito che spunta a malapena da un groviglio di edere. Un castagno ha piantato le radici al suo interno e copre di fronde quello che una volta era il tetto. I ricci cadono sulle lamiere. In un angolo, tra cataste di eternit, c’è una targa arrugginita dell’Agac coperta di muschio.
«Il bosco si riprende ciò ch’è suo» dice il Magro.
Aspettiamo che il cielo si rassereni. Indossiamo stivali di gomma e luci frontali. Trasciniamo la borsa giù da un rivale. Camminiamo tra l’erba alta, nel niente profumato di pioggia. Dopo qualche minuto la temperatura s’abbassa, inizia a sentirsi uno scroscio d’acqua.
Sbuchiamo dal sottobosco e troviamo il Secchia che scorre veloce, circondato dagli Schiocchi. Grossi blocchi d’arenaria costeggiano il letto del fiume. Sia a monte che a valle, ci sono dei salti d’acqua di circa quattro metri. Ogni tanto un tonfo sordo di qualche sasso che rotola a valle, o il canto delle civette che riecheggia come uno spasimo dei monti.
Il Magro inizia ad armeggiare con la borsa. Ha il fiato corto, le braghe piene di fango. Un uomo tutto nervo e toscano. Si lamenta della pensione che non arriva, conta i giorni che mancano. Ma sappiamo tutti, lui per primo, che sono balle. Basta guardare cos’è successo con la legionellosi. Due settimane è andato avanti a lavorare. Due settimane tra febbre alta, sciolta, tosse e brividi. Un paio di operai lo hanno trovato svenuto nei pressi di un depuratore a Mancasale. Erano lì che tagliavano con il frullino. Erba, bocchi, sterpi, e in mezzo il corpo del Magro. Lo hanno ricoverato ma nemmeno questo è servito a fermarlo. Gli dicevano che era passato da un buco stretto e lui rispondeva che s’annoiava, a stare lì, in un letto d’ospedale. Perché per quelli come il Magro un uomo è uomo solo se porta il pane in casa. E io lavoro poco e male, non ho più una casa.
«Alla fine ce l’ho cavata a portarti a pescare, stracciacoglioni».
Prende dalla borsa un paio di canne da pesca e inizia a montarle. Subito dopo immerge i piedi nel fiume e getta la lenza nei pressi del salto più a monte, sotto l’acqua schiumosa che s’infrange sulle rocce. Mi mostra come tenere la canna ed eseguire il lancio. Parla di tocco, corone, esche, ma non ci capisco niente. Smetto d’ascoltarlo, m’allontano senza che se ne accorga.
Cammino in mezzo al Secchia, la canna appoggiata sulla spalla. Sento l’acqua gelida anche attraverso la gomma degli stivali. Il letto del fiume è scivoloso, la corrente aumenta man mano che mi avvicino al secondo salto verso valle. Osservo quei quattro metri di vuoto, nella notte. La serpe invisibile e limpida che nasce dall’Alpe e striscia al Po, attraversa la bassa e sfocia nell’Adriatico. Se non bastasse il salto ci sono la corrente, le rocce, l’acqua gelata. Resterebbe solo un corpo, da qualche parte, alla deriva. Gli occhi fissi, lucidi. Forse la stessa luce che accompagna la morte dei pesci.
Sara verrebbe a saperlo. Sarebbe tenuta a dirglielo: ricordi tuo padre? No, non lui. L’altro padre. Poco importa che ora si trovi tra braccia robuste. Gli anni non si possono cancellare.
Una trota si mette a nuotarmi tra i piedi. La sento anche se non riesco a vederla. Si muove tra le mie gambe come un gatto affamato che fa le fusa. Sguscia via a una bestemmia del Magro. L’osservo mentre getta ancora la lenza. Ma è una notte marcia, senza luna. Niente potrà mai abboccare.
«Finestre di notte».
«È vero…».
«Così si chiamava».
«Com’è che faceva?».
«Mi piaceva molto quel dipinto».
«È vero che dalle finestre… perché i poeti aprono sempre le finestre…».
«Mi stai ascoltando?».
«Senti mo’, non abbiamo pescato nemmeno un girino e c’ho sta canzone che non mi si leva dalla testa. Aiutami a capire cos’è e poi t’ascolto».
«Lolli».
«Claudio Lolli?».
«Sì».
«Quella degli zingari?».
«Da bon».
Svoltiamo sulla via Centrale. Le luci della cucina sono spente. Il Magro fischietta, anche se non ha preso niente. Ora che ricorda la canzone mi chiede delle finestre.
«È un dipinto di uno che si chiama Hopper».
«Conosco Edward Hopper. Son mica uno scemo».
Parcheggia la jeep nella piazzetta. Il K2 è ancora aperto.
«Quindi?».
«Quindi che?».
«’Ste finestre».
«Niente. Non ha importanza».
«Sembrava l’avesse».
«Per un attimo lo credevo anch’io».
«Meglio così» fa il Magro.
Mi tira una pacca sul petto.
«Andiamo a berci un bicchiere» dice.
Dentro c’è Perla con un gruppo di ragazzi. Sono venuti giù da Ligonchio, frana o non frana. La televisione è spenta, la partita è finita. Ci vedono entrare immerdati e scoppiano a ridere.
«Era bella l’avventura porcelli da ghianda?»
«Cosa siete, usciti fuori da un porcile?»
«Vi va bene una balotta o vi facciamo portare un trogolo?»
Ridiamo e li canzoniamo a nostra volta. Il Magro continua a fischiettare. Ogni tanto intona qualche parola.
«Zingari felici…».
«Abbiamo vinto?» Chiedo a Perla.
«Lascia stare, mai na gioia» fa lui, «vincono sempre quegli altri»
«Ho visto anche degli zingari felici» canta il Magro.
«Ma noi c’abbiamo la salute».
«E l’allegria».
Beviamo un giro e poi un altro. Anche la barista beve con noi. Si muove dietro banco con la sicurezza di chi sa il mestiere. Tiene le bottiglie e il marmo puliti. Parla con i clienti, sta al gioco, non se la prende. Ha un corpo minuto, un sorriso dolce. I capelli lunghi che ravvia dietro l’orecchio per ascoltare e scivolano sulle guance quando ride.
Le chiedo come si chiama.
«Xiu» dice.
«Parli bene l’italiano».
«Anche tu».
Si sporge dal banco e mi squadra da capo a piedi.
«Si può sapere dove siete stati?» Chiede.
«Dove finisce il mondo» biascico io.
«Allora potevate rimanere qui. Almeno restavate puliti».
Sara tra braccia robuste, più sicure. Un figlio che rivedrò quando sarà maggiorenne. Se vorrà vedermi, se sarò ancora vivo. Se dio, o quello che ne resta di lui su queste montagne.
Penso al Magro, al fiume. D’improvviso capisco quello che voleva mostrarmi.  
«No che non potevamo» dico, «non è la stessa cosa»
«Perché?» Fa Xiu.
«Non so spiegartelo»
«Prova».
«Hai presente quello che chiamano “attimo di lucidità?”»
Xiu non riesce a rispondere perché Perla supera il banco e l’abbraccia. Le dà un bacio sulla guancia. 
«Non ci dar tanta confidenza a sta qua» mi dice «che poi vien la Yakuza a farti la pelle».
«La Yakuza è giapponese» fa Xiu.
«E io cos’ho detto».
«Una cazzata».
Dà un bacio a sua volta a Perla e riempie i bicchieri.
«Questo giro lo offre la casa» dice.
Alziamo le balotte al cielo. Sputiamo in faccia all’esilio.
Ogni tanto gli occhi ci cadono sulla fotografia.
«Ma perché si chiama Shanghai?» Chiede qualcuno.
«Boh».
«Non so».
«Te lo sai?»
«No».
«E te?»
«Neanche me».
«Chiedi al Magro. Lui ne sa di ‘ste cose».
«Magro».
«Oh!»
«Perché si chiama Shanghai?»
Il Magro smette di cantare e tira un rutto. Si gratta via con le unghie un po’ di merda dalle braghe.
«Ma va a cagare» dice, «te e Shanghai».

 


 Mi chiamo Andrea Herman, ho trent'anni e vivo nell'appennino reggiano. Scrivo racconti brevi dall'inverno del 2016, dopo aver dedicato dieci anni alla fotografia. Ho pubblicato su Cadillac e Ammatula. Sono tra i selezionati del contest "al volo" di Effe. Collaboro con il collettivo Ansasà e con l'associazione Teatro Aperto.

Istrice, un racconto di Giuseppe Potestio

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Negli ultimi giorni era piovuto molto e il livello del fiume era salito fino al terzo segno. Aveva iniziato a intaccare gli argini e si vedevano nella massa scura dell’acqua i rami spezzati, la sporcizia e qualche tronco trascinato dalla corrente. Anche il rumore del fiume era diverso e si poteva sentire l’acqua urtare i sassi, nelle asperità, dove ancora non erano levigati. Dei pesci, invece, non c’era traccia. Non come d’estate, nei giorni di secca, quando li si poteva vedere immobili, come sospesi a mezz’aria. In quei giorni, era bello pescare, far danzare la preda davanti ai persici, fino a quando non gli restava che morderla, pur sapendo quello che li aspettava.
Andavo sul fiume con mio padre la mattina presto e se veniva l’ora di pranzo e se la pesca era buona, mio padre indugiava. Anche se avevo fame ero contenta di stare con lui e se mi lamentavo troppo mi faceva fare qualche tiro della sua sigaretta. «Questo non lo dire a nessuno», diceva. Quelle erano le prime sigarette che ho fumato, le stesse ho continuato a fumare, anche se mai, ricordo, hanno più avuto quel sapore. Ma adesso l’acqua scrosciava forte, mio padre era morto da anni e subito dopo anche la mamma. Era come se quei lutti fossero stati uno solo, come se tutto fosse stato già deciso nel momento in cui lui se n’era andato. Ricordo il letto grande di casa e il gioco di fiori ricamati sulla coperta. Gli incavi del materasso, come un quadro moderno, quando insieme a zia cambiai le lenzuola. Ricordo anche la faccia che avevano tutti, in chiesa. Ma non ricordo la mia. Pensare che per un bel pezzo mi sentivo in colpa per tutto, per le arrabbiature che gli avevo fatto prendere e per tutte le volte che li avevo visti litigare. E non ho più festeggiato il mio compleanno. Nemmeno adesso che ne avevo fatti quattordici. Non so come fanno certe persone, ad andare avanti come niente, come se gli sia morto il gatto o qualcosa del genere.
Fuori la chiesa, avevo la faccia sporca dei baci e solo uno l’avevo sentito carnale ed era quello di zia Marietta, che improvvisamente era fuggita con un’altra donna. Zio Mario le aveva trovate insieme nel letto, quando aveva visto che era con un’altra donna non si era arrabbiato. A quel tempo i fratelli già la ignoravano e anche mio padre era stato duro con lei. In un piccolo paese queste non sono cose che si riescono a nascondere. Si devono affrontare sotto gli occhi di tutti. L’acqua scrosciava forte ed era buio già da un po’ e non passava nessuno. Un vento freddo mi irrigidiva il collo. Da quel lato, il fiume andava a dividersi in tre tronconi. Lo fissavo scorrere, sporgendomi dal muretto, cercando di dimenticare. Era abbastanza alto per dimenticare? Magari mi sarei solo rotta una gamba, o peggio ancora, sarei finita su una carrozzella. Vidi una macchina spuntare da dietro la curva, rallentare e fermarsi. Poi abbassarsi il finestrino, piano. «Vuoi un passaggio?», disse la voce da dentro la macchina. Mi abbassai un poco, ed era ancora freddo, e vidi la barba, gli occhi buoni e il sorriso di zio Mario. Zio Mario faceva il meccanico.
Mi piacciono i meccanici perché sono come medici, oppure artisti, che studiano i meccanismi della natura. Lavora per sintesi, la natura. E naturalmente, accettai. Era partito lasciando l’odore del carburante non combusto e la scia dei fari che si allontanava. Passata la curva Mario voltò a destra, scalando, in una piccola discesa dove la strada asfaltata si faceva di terra e sassi. Dai finestrini abbassati entrò l’odore della polvere insieme al rumore del fiume. A destra, dietro un fitto di canne, c’era il piazzale del depuratore, pieno di spazzatura. «Ti sei fatta grande», disse zio Mario, mentre ci allontanavamo dalla strada provinciale ed entravamo nel buio. «Davvero? Non mi sembra», risposi. Ai lati della strada si intravedevano cancelli chiusi con grosse catene che impedivano l’accesso agli spiazzi antistanti le baracche di lamiera. A tratti si sentivano cani abbaiare affamati o saltare pesantemente contro le reti di ferro. «Ce l’hai il fidanzato?», domandò continuando a guardare avanti. «No, non ancora», dissi. Pensai a Marco. Non aveva avuto il coraggio di baciarmi, anche se si capiva che io lo avrei lasciato fare. Anche quel pomeriggio eravamo rimasti nel parcheggio dietro scuola a mangiare un gelato. Io lo avevo guardato fisso negli occhi e avevo sorriso, ma lui non mi aveva voluto baciare. Adesso la luna spandeva una luce tenue sui campi, illuminando i tralicci del telefono. Più avanti dopo la seconda curva alla fine della strada bianca, un’istrice era sbucata fuori dalla cunetta e aveva iniziato a ondeggiare la sua cresta di aculei nell’erba umida della cunetta. Arrivati alla curva, all’improvviso l’animale attraversò. Sentii un piccolo urto e lo vidi andare a nascondersi oltre la cunetta, dove si sentiva scorrere il fiume. Per un istante avevo intravisto illuminate dai fari le punte bianche e acuminate degli aculei e i suoi occhi spaventati brillare nel buio. Somigliavano ai miei. Arrivati a uno spiazzo vicino al bosco Mario spense la macchina. «Che fai?», chiesi. «Ieri qui ho visto un cinghiale, vediamo se ripassa». Aveva una voce velata, diversa da prima. In quel momento sentii la sua mano ruvida toccarmi il seno sinistro, poi spostarsi sul destro. Sentii una strana sensazione trasformarsi da una specie di piacere in paura. Mi ricordai di quando da bambina, nel lettone ricamato, giocavo con mio padre. Di come lui si divertisse a urlare: «Sono il mostro», ad immobilizzarmi per farmi le pernacchie sulla pancia. Quando mi alzavo dal letto avevo le guance rosse, ed ero stanca per la lotta. Guardai il cruscotto dove c’erano attaccati due magneti. L’immagine di una madonnina tra le cime innevate di due montagne e un frate barbuto con gli occhi al cielo. «Questo non lo dire a nessuno», disse Mario spostandosi sopra di me.


Giuseppe Potestio è nato nel 1980 da padre italiano e madre americana a Tuscania, paese di uccellacci e uccellini, dove vive e lavora. Ha scritto di cronaca giudiziaria e per un periodo ha coltivato un orto, ma l’hanno avuta vinta i cinghiali. Ha frequentato il primo e il secondo modulo del corso Trenta Cartelle. Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta. Istrice è contenuto nell’e-book Passaggi, otto racconti.

La serata giusta, un racconto di Emanuela Canepa

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Ho conosciuto Milena facendo la fila in banca.
Due diverse occasioni nel giro di un mese, sempre in attesa di fronte allo stesso sportello.
L’ultima volta eravamo dietro a una signora molto anziana che non la finiva più di parlare con il cassiere. Portava un assurdo cappotto viola a fiori stampati, e quel genere di copricapo che indossava anche mia nonna negli anni ‘70: a turbante, sfumatura ciclamino, come la borsetta, di quelle con i manici cortissimi che riesci a portare solo a mano perché non c’è verso di tenerle in spalla, specie d’inverno, quando indossi la giacca o il cappotto. Vista di profilo ricordava una regina egizia per la fronte altissima e scoperta, e la bocca sottile quasi senza labbra.
A un certo punto mi sono girata e ho visto che Milena era affascinata dalla donna quanto me. Anche lei si è accorta che la guardavo e allora ci siamo scambiate un sorriso. Poi per ingannare l’attesa abbiamo preso a chiacchierare, e alla fine siamo andate a bere un caffè.
Da quel momento non ci siamo più lasciate, e siamo sempre state presenti l’una per l’altra. Non perché ci sentiamo o ci incontriamo spesso ma perché abbiamo scelto consapevolmente di evitare i sotterfugi della socialità. Il tempo condiviso è poco ma denso. Non abbiamo bisogno di sciogliere il ghiaccio e non ne abbiamo mai avuto, nemmeno di fronte a quel primo caffè. E’ come se avessimo l’urgenza di comunicare solo sul piano della verità.
Parliamo anche di argomenti banali, ma non lo facciamo mai senza aggiungere qualcosa di intimo. L’ultima volta che ci siamo viste, per esempio, lei mi ha spiegato in che modo si prepara la pastiera, secondo un procedimento che a casa sua si tramandano di madre in figlia da generazioni, e in mezzo ha infilato l’epica minore della sua famiglia, e il resoconto di molte cose successe nella cucina in cui sua nonna impastava la frolla mettendola a riposare ventiquattr’ore in frigorifero. Una sola volta l’anno, come vuole la tradizione, all’inizio della primavera, quando cominciano le piogge e la ricotta assume l’esatta consistenza necessaria.
Mi ha elencato gli ingredienti prendendoli da una lista segreta che tiene nel portafoglio. Ho preso qualche appunto, ma non m’è mai passato per la testa di cucinarla davvero. Credo che non lo faccia neppure lei. Del resto la preparazione della pastiera è un processo lungo e piuttosto complesso. Ci vogliono due giorni interi di lavoro. Una cosa impensabile.
Anche adesso vedo una pastiera, però è molto diversa da quella della nonna di Milena. È appoggiata sul ripiano più basso della vetrina dei dolci, insieme a una dubbiosa crostata di visciole. Perfino dal nostro tavolo, che sarà almeno a dieci metri di distanza, si vede benissimo che sono secche, finte e stoppose.
A intrigarmi invece è il cameriere, che s’è avvicinato alla vetrina e l’ha aperta per tirare fuori qualcosa. Non gli vedo la faccia ma gli vedo il culo, ed è abbastanza per attirare la mia attenzione.
- E quello chi è?
Milena si gira con discrezione. Anche per lei non c’è alternativa alla visione del culo, perché il ragazzo non ha smesso di trafficare dentro la vetrina.
- Che ne so. Non gli vedo la faccia. Come fai a dire che non l’hai mai visto se non sai com’è? A parte il culo. Che è notevole, ma insomma non fino a questo punto.
Milena a volte è elusiva, specie quando è nervosa.
- Siamo venute qui almeno una decina di volte e finora non l’abbiamo mai incontrato.
Fa una smorfia. Mi rendo conto all’improvviso che per lei in questo momento prendere in considerazione un uomo - qualsiasi uomo - è un pensiero molesto. La sua sofferenza è così profonda che entra in risonanza con qualsiasi cosa.
Milena ha un modo tutto suo di soffrire, negando legittimità al suo dolore come se fosse un ubriaco che si presenta a una veglia funebre. Quando te ne parla sembra che si stia riferendo al malessere di un’altra, una non tanto intelligente, di cui ha l’aria di pensare che se le capitano sempre cose sgradevoli è perché fa qualcosa per meritarsele.
- Sicura? A me sembrava di averlo già notato un paio di volte. Magari mi confondo con un altro posto.
Ma non andiamo mai in nessun altro posto. Ci piace questa pizzeria, nell’unica stagione in cui si può frequentare, l’estate, perché dentro è piccolissimo e d‘inverno fanno solo pizza a taglio da mangiare in piedi.
Sul menu c’è margherita, marinara, capricciosa, napoli, quattro stagioni. Non è il genere di posto dove ti viene in mente di chiedere la mozzarella di bufala e i pachino. Quando non possiamo venire qui ce ne stiamo a casa e ci facciamo una carbonara.
- Mi sembri incazzata. Sempre tutto uguale? Le chiedo, lasciando cadere la questione del cameriere.
Milena sorride rigirando la forchetta sul piatto vuoto. Ecco che comincia ad allontanarsi da sé, la vedo prendere armi e bagagli dietro al sorriso da rosa mistica, e distanziare l’esperienza della vita interiore da ciò che è disposta a percepire. Se non mette in atto questa strategia non può parlare, quindi la lascio fare.
- Venerdì pomeriggio l’ascensore era rotto. Ho dovuto scendere le scale a piedi con la valigia. A ogni gradino pensavo: ma che ho messo qua dentro? Non mi sembrava di averla caricata tanto, invece pesava come un caravan. Poi in fondo alle scale mi sono resa conto che non era la valigia. Ero io, che resistevo a ogni gradino. E’ che non volevo andare da lui. Cioè volevo. Ma non avevo più allegria. Fa una pausa, alza gli occhi. - Macché. Cazzate. Mi sa che non volevo proprio partire.
In quel momento si avvicina il cameriere, e ci sorprende perché nessuna delle due l’ha sentito arrivare. Ma anche perché finalmente vediamo il viso, ed è quasi meglio del culo. Non è neanche troppo giovane per noi. E non ha la faccia da cameriere. Sembra uno che è uscito dal suo appartamento con un grembiule arrotolato in vita e poi è capitato lì per caso.
Ha anche un’altra virtù: è uno di quegli uomini che ti costringono a mettere a fuoco il fatto di essere donna. Che non è una cosa a cui pensi ventiquattr’ore al giorno, e non è nemmeno un dispositivo che si attiva di fronte a qualsiasi individuo di sesso maschile. E’ una reazione che certi uomini riescono a provocare. Entrano in relazione con la femmina che è in te.
Vedo che se n’è accorta anche Milena, ma a differenza di me questo la porta a prendere la via della fuga con più determinazione.
- Cosa prendete?
Con noi è facile. Due margherite. La Coca Cola è già sul tavolo, freschissima. Non ci serve altro. Lui si allontana contento. Si vede che sta bene dove sta, non gli manca niente. Mi viene da sorridere perché la sua leggerezza mette allegria.
- Sempre la stessa cosa? Distaccato, freddo? Chiedo scartando una confezione di grissini. Perché è questo il problema di Milena. Ama un uomo intelligente e complicato. Uno di quelli con cui si può parlare di tutto, e che non si sarebbe mai accontentato di una gallina palestrata. Uno che vuole una donna come Milena, perché ritiene di non meritarsi niente di meno.
Su quel che merita lei invece non si fa domande. Vive rinchiuso nel labirinto della sua vita emotiva che non condivide con nessuno, e la sua esasperata complessità si disarticola lì dove comincia lei. Milena si dà così com’è, senza esegesi.
- Certe volte mi avvicino perché ho l’impressione che abbia bisogno che sia io a prendere l’iniziativa. Mi dice. - E non parlo di sesso, parlo di vicinanza, di contatto. Non si tira indietro ma è come abbracciare il vuoto. L’unica cosa che sento è che vuole scappare. Mi stringe, ma è solo perché non lo guardi e perché non vuole vedermi.
Il cameriere si avvicina al nostro tavolo e appoggia un piatto con due supplì. Che non avevamo ordinato. Si ferma e ci osserva, sembra che aspetti un commento. Noi lo guardiamo dal basso verso l’alto. Lui forza un po’ il sorriso, senza timidezza ma senza nemmeno strafare.
- Allora? Chiede.
- Allora che? Non avevamo chiesto i supplì.
- Lo so. É per quello che aspetto. Quando porti una cosa che nessuno ha domandato il cliente fa un commento così: non ho ordinato i supplì.
- L’ho appena detto, infatti.
- E io aspettavo la battuta. Adesso che l’hai fatta ti posso rispondere: lo so che non avete ordinato i supplì. Ma avete le facce di due che con un supplì a testa starebbero meglio.
Resta fermo accanto al tavolo con le braccia conserte. Ha due fianchi che ti spingono a fare pensieri. Chissà perché immagino che ora finirà per dire qualcosa di prevedibile. Due belle signore come voi, cosa sono queste facce tristi? Quando uno comincia così, per qualche ragione ti aspetti sempre che debba precipitare a piombo nel cliché. Invece no, resta zitto. Gira sui tacchi e torna in cucina.
Prendo un supplì e gli do un morso - Insomma non ti scopa più. Sospiro - Anche quando sei tu a prendere l’iniziativa.
- Ma no. Scopiamo, certo. Però a volte parte senza che ci sia niente di minimamente erotico fra noi, niente di attivato. E altre volte sembra che il mio desiderio lo disturbi.
E poi Milana si spegne. Le ultime parole non le sento quasi più.
Il cameriere torna con le pizze. Il supplì di Milena è ancora nel piatto e io mi sento colpevole. Gli faccio un sorriso compiacente, ma lui non sembra infastidito. Appoggia le pizze, ritira il supplì, e si allontana con il suo culo perfetto come se tutto fosse andato proprio nel modo che aveva previsto.
- Non abbiamo mangiato il supplì.
Afferro coltello e forchetta. Milena sorride.
- Non mi pare grave.
- Non ho detto che è grave. Dico che non abbiamo mangiato il supplì, è stato carino a portarlo, no?
- Dipende.
- Da che?
- Dal conto. Se ce lo mette in conto non è carino, è furbo. Se non ce lo mette in conto allora è carino. Vediamo alla fine. In ogni caso, non mi andava. Che dovevo fare? Potevi mangiartelo tu, se ci tenevi tanto a non ferire i suoi sentimenti. Credo di fare una faccia strana, perché Milena si mette a ridere:
- Non mi dire che ti piace! E mi punta un indice accusatore a un centimetro dal naso.
- E perché a te no? Hai visto il culo?
Lei si appoggia alla spalliera della sedia.
- Ma figurati. Gli uomini non sono fatti di solo culo.
- Certo. Come il tuo, no? Nessuna passione volgare per i culi, ma che profondità! Intensissimo. Infatti la gioia ti si legge negli occhi.
Non mi risponde. Resta immobile per un po’ e poi con lentezza afferra le posate e comincia a tagliare la pizza premendo sul coltello seghettato.
Ci mettiamo a mangiare con diverse tabelle di marcia. La mia è normale. Mi godo la cena, che è buona. Milena invece compie solo un atto di fede nutrizionale. Bisogna che il sangue scorra nelle vene per aver voglia di godere del sapore del cibo. Milena è incatenata ai suoi pensieri che convergono tutti su quell’unico vortice, e non ha vita da dedicare ad altro.
Il cameriere ripassa un quarto d’ora dopo. Si ferma accanto al tavolo e resta zitto. Con gli altri clienti non fa così. Ce l’ha proprio con noi, che non siamo granché, e stasera neppure particolarmente in tiro.
Per un po’ proviamo a ignorarlo, a un certo punto però la situazione si fa imbarazzante e ci blocchiamo con le posate a mezz’aria, sembriamo due ragazzine alla mensa scolastica. Lo fissiamo. Quando si accorge di avere attirato la nostra attenzione si decide a parlare:
- Com’è?
- Buona. Risponde Milena con l’aria di sottintendere: te ne vai oppure no?
- Ah, ecco. Non ero convinto. Sono venuto per essere sicuro.
Milena fa una faccia da carogna. Quando è incazzata l’energia della rabbia le sblocca la tensione. Sembra una baccante. Scuote appena la testa e agita i capelli scuri sulle spalle. Le si accende negli occhi una luce di follia pericolosa.
Il cameriere capisce che non è gradito, e non si offende neanche stavolta. Non si stranisce neppure. Si asciuga le mani con il grembiule e se ne va.
- Perché sei così stronza? Le chiedo.
- Perché ci prendeva in giro.
- Ma che dici? Non è possibile che tu gli piaccia, o che gli piaccia io? Comunque che bisogno c’è di trattarlo così?
- Mi innervosisce. Sta sempre qua. Non riesco a mangiare se ce l’ho intorno.
- Non riesci a mangiare comunque. Io ho finito da un’ora e tu sei ancora a metà. Eri solo incazzata e te la dovevi prendere con qualcuno.
- Può essere. E allora? Non ho il diritto di essere incazzata?
- Quello che ti pare. Però la tua reazione è sproporzionata. C’erano altri modi per allontanarlo.
- Questo è stato efficace, no?
- Com’è che sei tanto brava quando si tratta di queste stronzate, e poi non sei capace di reagire con qualcuno che la vita te la rovina davvero?
Eccola di nuovo. La faccia da baccante. Stavolta la riserva a me. Milena è il tipo dalle furie riflessive. Certe volte si avvicina davvero molto all’insulto irreparabile, ma ne percepisce il carico e lo soppesa prima di tirarlo fuori. E’ uno di quei rari individui capaci di evitare il riflesso condizionato dell’esplosione di rabbia quando le pare di riconoscere qualcosa che somiglia alla verità. Ha ancora in bocca un pezzo di pizza che sta masticando da un’ora. Lo inghiotte e sussurra: - Stronza.
- Stronza perché ho torto, o stronza perché ho ragione?
- Stronza e basta.
- Ma se passo la vita ad ascoltarti! Credi sia facile sentirti raccontare delle ansie di quel coglione?
- Lo so. Infatti è finita.
La guardo scettica. Non è la prima volta che glielo sento dire. Però non gliel’ho mai visto fare. Le rispondo secca - Non ti credo.
Ma nel momento stesso in cui lo faccio comincio a pensare che stavolta sia vero. Perché sorride, e prima di oggi non ha mai sorriso dicendo: è finita. Prima di oggi ha solo cercato di convincermi. Mentre adesso è chiaro che la verità è implicita, e quindi non deve essere più dimostrata.
- Si può sapere perché non me l’hai detto prima?
- Perché è successo tre giorni fa e da allora non ci siamo viste. Aspettavo la serata giusta. Si gira a cercare con gli occhi il cameriere, poi di nuovo guarda verso di me. - Un annuncio così lo devi fare di fronte a un culo prestigioso.
Il ragazzo si accorge di lei, dell’insistenza del suo sguardo molto diverso da quello inferocito di prima, e ricambia il sorriso.
- Coglione… Sussurra Milena cominciando a ridere.
- Perché coglione? Le chiedo, e rido anch’io.
- Perché sono tutti uguali. Adesso crede che il potere del suo culo mi abbia schiantato. Pensa di avere un culo a lento rilascio seduttivo.
Ci prende una ridarella imbecille che ci fa piegare in due sul tavolo come fossimo sbronze. Il cameriere capisce che quello è il momento giusto per tornare da noi.
- Allora? Che c’è di tanto divertente? - E trasforma la sua espressione da amichevole a complice. Non arriva a prendere una sedia e ad appollaiarsi a cavalcioni, ma assume la stessa espressione sfrontata che avrebbe se si mettesse in testa di fare un gesto con quel carico di intimità.
- Niente -, risponde Milena - parlavamo di culi.
- Bene - replica lui - ne so un sacco di culi. Posso essere utile?
- No, grazie. Ma non ti allontanare troppo. Se ci viene un dubbio ti ricontattiamo.
- Resto in zona. Porto qualcos’altro?
A Milena i dolci non piacciono e io non ho più fame, per cui ci accordiamo sui caffè.
Ce li prepara lui, lanciandoci occhiate di tanto in tanto per assicurarsi che abbiamo notato che li sta facendo con le sue mani. Come se in una bettola di quel tipo la cosa costituisse una specie di evento eccezionale.
- Anche se in fondo è un talento piuttosto diffuso fra certi uomini, no? - Dice Milena - Fare una cazzata da quattro soldi e rivendertela per una procedura da ingegneria aerospaziale.
Adesso però ridiamo meno, perché stiamo entrando in un campo minato. Quello in cui si addentrano le donne deluse nei momenti di debolezza per poi accorgersi che uscirne è difficilissimo. I luoghi comuni che si coagulano intorno al biasimo per una categoria, i più consolatori ma anche i più vischiosi. Ti risparmiano lo sforzo dell’analisi. È facile dimenticarsi che quello che lui ti ha fatto coincide quasi sempre con ciò che tu gli hai lasciato fare.
Per cui la piantiamo. Di ridere, ma anche di generalizzare. Beviamo il caffè e ci mettiamo a chiacchierare di stronzate senza peso, piuttosto orgogliose di aver scelto di passare oltre.
Cominciamo ad essere stanche, domani si lavora. Cerchiamo di attirare l’attenzione del cameriere che però, con la stessa costanza con cui ci ha tampinato finora, adesso si mette d’impegno a evitarci.
Non guarda mai nella nostra direzione e se gli facciamo un segno finge di essere distratto altrove.
All’inizio sembra un caso, ma dopo qualche minuto diventa chiaro che lo sta facendo apposta. Crede di averci in pugno, e quindi abbiamo smesso di interessarlo.
A Milena sale sul viso un’espressione torva. – Che stronzo…
- Ma lascialo stare. - Le metto una mano sul braccio e le stringo il polso. Mi pare di avvertire la pulsazione appena accelerata.
- Andiamo a pagare alla cassa, dài.
Milena tentenna, alla fine mi fa cenno che va bene. Prendiamo tempo sistemando dettagli trascurabili che potrebbero essere risolti in un unico gesto - l’ultimo sorso di Coca per lasciare il bicchiere vuoto, la raccolta dei cellulari e delle sigarette sul tavolo, la borsa sulla spalla - ma è una scusa. Speriamo ancora che sia un caso, che il cameriere ci sorprenda e salti fuori a salutarci. Mi mette una certa malinconia l’idea di perdermi un’ultima occhiata prima di andare. Ma lui non esce, e comunque noi ci stanchiamo di aspettare.
Leggo negli occhi di Milena lo stesso pensiero che sto facendo io. Magari lo fa apposta. Ci guarda dalla cucina per vedere se stiamo traccheggiando. Si compiace delle nostre patetiche finte. E pensa che le femmine sono tutte uguali.
Ci ricaschiamo? Donne che pensano che gli uomini sono tutti uguali perché pensano che le donne sono tutte uguali?
Alla cassa c’è il gestore, un omone che pesa almeno centotrenta chili, e sta sempre incastrato in uno spazio minuscolo dietro al bancone. Tira fuori il foglietto delle nostre ordinazioni infilzato su un gancio, e batte il totale sul registratore. Ci porge lo scontrino. Milena me lo toglie di mano prima che riesca a leggere. Tira fuori il portafoglio:
- Pago io. Una specie di riscatto per l’infelicità.
- Capirai. Te la cavi con poco. Quant’è?
- Se offro io, tu non lo devi sapere.
Lascia due banconote sul portacenere e si avvia all’uscita. - Andiamo, non c’è resto.
Usciamo senza riuscire a rivedere il cameriere. Pazienza, sopravviveremo.
Fuori c’è un discreto viavai anche se è solo martedì. Tira un alito di vento tiepido, c’è un’umidità tollerabile. Al centro del cielo, perfettamente rotonda, si stacca una luna altissima e bianca. Si avverte un’energia sospesa, non stagnante, come una massa densa, dura da attraversare ma non impenetrabile.
- E comunque - dice Milena prendendomi sotto braccio e infilando l’uscita del vicolo - i supplì non ce li ha fatti pagare.

 


Emanuela Canepa è nata nel 1967 a Roma dove si è laureata in Storia Medievale. Vive a Padova dal 2000 e lavora per il Sistema Bibliotecario dell’Università. Nel 2017 ha vinto la XXX edizione del Premio Calvino. Il suo primo romanzo, L’Animale Femmina, uscirà ad aprile del 2018 per Einaudi Stile Libero.

 

La leggerezza, un racconto di Marco Brion

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1.

Quando suona la sveglia, il segreto è alzarsi e vestirsi veloci.

Erano le sei di mattina spaccate: Lucrezia sgusciò fuori dal letto cercando a tentoni jeans e maglietta, scalciando in giro per scovare le ciabatte, ostinandosi a scendere in cucina senza inforcare gli occhiali.
Fece colazione sotto il portico – caffettino freddo e due biscotti integrali -e notò che il buio iniziava già a raccogliersi intorno alle cose, e a prenderne le mosse. Così decise di darsi subito da fare: sbrigandosi con siepe ed aiuole, verso le dieci con l’orto sarebbe stata a buon punto, e poteva evitare di starsene fuori fino a mezzogiorno. 

Non che avesse problemi con l’abbronzatura, solo a una certa età uno deve preservarsi più di quanto gli venga naturale; tagliare l’erba in pendenza spezza la schiena, e a forza di zappare e strappare erbacce ti s’incriccano le braccia che poi stanno dritte inchiodate come quelle degli omini Lego.
Il punto è che dopo esser stata scaricata con la scusa del pensionamento anticipato, qualcosa doveva pur fare – anche perché da soli si sa, s’invecchia in fretta.

Innaffiare dopo tutto quello sfacchinare poi fu una goduria, ma badò bene di non bagnare le foglie, quasi ci fosse ancora Aldo a controllarla: con la canna dell’acqua in mano le pareva sempre di saperlo là, a far la vedetta dalla finestra della cucina, mentre prepara una pasta fredda, o un couscous di verdure insieme al loro figlio, Giacomo; e pensare che ai tempi le dava quasi fastidio fosse così bravo a cucinare, a lei il massimo che riusciva erano certe insalate condite male, come quella che stava spiluzzicando verso l’una, ancora con la salopette addosso, senza nemmeno un tovagliolo: solo forchetta, scodella e bicchiere.  Fuori, le campanelle inchiodate sul portico da lui e Giacomo, anni prima, mormoravano stanche nel vento.

Finito tutto, lavò i piatti e visto che c’era pulì delle pentole che non usava da un po’, e pure i fornelli. Iniziò a vagabondare per casa, lasciandosi dietro tutta una rivoluzione di dettagli: scambiò le campane di fiori in entrata con quelle in cucina; riorganizzò gli Zagor in camera di Giacomo per formato invece che per data di uscita; spostò le tovaglie nell’armadio in credenza e stirò tende ed asciugamani.
Pulendo le foto ricordo in salotto, aveva strofinato visi e sorrisi fino quasi a crepare il vetro, e nella foga poi una statuetta presa in vacanza, di quelle che compri così per comprarle, era finita per terra: allora si era messa a riaggiustarla in fretta, con dell’Attak, quasi i suoi due uomini fossero dovuti tornare lì-lì, da un momento all’altro.
Lei però sapeva non sarebbe arrivato nessuno.

Difatti passò il moccio con tutta calma, senza stare a preoccuparsi che qualcuno lasciasse zampate in giro. Solo che a ritrovarsi lì, col manico stretto in mano, com’era morto Aldo davanti l’aula di musica, un pomeriggio di gennaio, non le riuscì più di scansarlo dalla memoria: spalancò porte e finestre, arieggiò casa ma quello persisteva, come l’odore di vecchio che aveva iniziato a sentirsi addosso ultimamente.
Erano cinque anni che Lucrezia tentava inutilmente di sdrammatizzare la morte di Aldo, un po’ come lui aveva sempre fatto col suo male: appena conosciuti, lui le aveva spiegato di questa sua leggerezza del cuore; oggi ci sono, diceva, domani chissà.
Eppure per un qualche miracolo d’incoscienza, quella precarietà loro se l’erano scordata.
Aldo aveva montato scarpe ventitré anni, finché la fabbrica non era fallita; il medico ai tempi gli aveva consigliato di fermarsi, ma lavorare bisognava lavorare, così visto che in museo passava il sindaco, ogni tanto, lei era riuscita a trovargli un posto come bidello al Malipiero.  
Quello era stato il loro periodo più bello: il mattino presto salivano per il Foresto Vecchio, e il pomeriggio scendevano, chiacchierando tutto il tempo, come da ragazzi.

Aldo stando lì a scuola s’era preso anche una gran cotta per il pianoforte – d’ascoltarlo s’intende - ma lei non aveva più voluto sentirli i suoi CD; c’eran troppe serate, e viaggi – troppa roba loro, lì dentro.
Quest’inverno poi, nella disperazione piatta di una settimana di pioggia, aveva iniziato a smanettare col vecchio pc di Giacomo: Facebook se l’era fatto prima ancora di imparare ad usare la mail, raccontandosi che serviva a tenersi al passo con la vita di suo figlio, la verità è che certe sue amiche le avevano detto di poterci conoscere qualcuno, con un po’ di fortuna.
Ma la rivoluzione vera fu Spotify, tanto che iniziò ad ascoltare compilation di piano dalla mattina alla sera, pensando quanto sarebbero piaciute ad Aldo.

Capitò allora che un giorno, mentre stava riordinando in garage, dal pc sparato a palla al piano di sopra venne una sorta di ululato, cui seguirono due note limpide e una voce che non era più riuscita a togliersi dalla testa –– in francese le parve, che a lei era sempre piaciuto perché suona romantico, anche se non l’aveva mai studiato in vita sua, cosa che lo rendeva ancora più misterioso e affascinante. La sera stessa scandagliò a ritroso tutta la compilation, e saltò fuori che la canzone era l’intro dell’ultimo album di Yann Tiersen, che salvò subito fra i preferiti – tant’è che piano piano finì per ascoltarselo a tutte le ore del giorno: la malinconia di quelle melodie in qualche modo si trascinava via la sua, e i pensieri allora le si facevano leggeri.

Quel giorno però, era uno di quelli che non ci fai niente. Così verso le sei e mezza decise di uscire: fuori c’era un caldo fermo, umido, ma salendo verso il centro storico, all’ombra degli alberi, l’aria si fece via via più tenera, vivace. All’altezza della chiesa di San Gottardo prese per la Rocca, svoltando lungo la straduncola che costeggia le colline, e lì si fermò a scrutare la pianura assolata che sfumava nel blu pallido del mare appiattito all’orizzonte: linee di condensazione scarabocchiavano nel cielo laccato una scacchiera sgangherata, e la vista di quegli aerei diretti chissà dove le fece pensare a Giacomo –– alla distanza che s’era spalancata fra loro dopo la morte di Aldo, che lei non era riuscita a trovare il coraggio di colmare nemmeno il Natale scorso, quando lui era dovuto rimanere a Londra durante le vacanze a lavorare.

Per sfuggire al rimorso allora, Lucrezia prese un sentiero sassoso che s’inerpicava su, nel bosco, salendo fino in cima a Colle San Martino. Scrutando capannoni, case e palazzine immerse nel rosso vermiglio che incendiava le chiome delle spighe nei campi, si sforzò di pensare che quella era pur sempre casa: Aldo riposava lì, qualche chilometro più in basso, e Giacomo sarebbe dovuto pur tornare, prima o poi.

Giunse a casa solo molte ore dopo, pestando i piedi lungo la strada tinta dell’arancio dei lampioni, a testa bassa. La luna rischiarava appena i monti plumbei. Yann suonava ancora imperterrito, e tutto lì dentro le era parso ancora più insopportabile; così spense lui e pure le luci, preparò una bruschetta ed entrò su Facebook, scrollando chilometri di post di ex-compagni di scuola e colleghi in vacanza da qualche parte, passando un’ora ad aprire e chiudere la chat. Quando in bacheca allora le comparve un post con la foto di Yann.
E ci cliccò sopra, finendo nel suo sito, dove le chiesero di inserire i dati di una carta di credito per accaparrarsi uno degli ultimi biglietti rimasti per il suo concerto al Teatro La Fenice, giusto la settimana dopo.

E lì allora, Lucrezia fece la sua scelta.

Solo che il bancomat il sito non glielo prendeva, e altre carte non ne aveva; così pensò a Giacomo, che poteva chiedergliela a lui, e giustamente però si sentiva ‘na stronza: era da un mese che non lo chiamava, ed erano le dieci di sabato passate. All’inizio fece cinque o sei prove su un pezzetto di carta, poi, convintasi, trascrisse tutto su WhatsApp, rendendosi conto che lì le parole perdevano un qualche cosa.
Sicché alla fine, gli telefonò.

 “Pronto...?”

“Oi, ciao ma.”

“Ciao...Allora?”

“Bene, bene dai.”

“Lavoro?”

“Eh lavoro a xe dura, sto periodo ci stanno mettendo sotto...”

“Ma ferie alla fine ne fate o.…?”

“Si si, penso ci diranno a settembre, poi vedrò per il biglietto – per quando mi conviene tornare dico, comunque ti faccio sapere…Te come stai?”

“Ben dai, solo un po’ stracca...”

“Casa tutto a posto?”

“Si si, stamattina go fatto un bel po’ de’ mestieri...”

“Anca in camera mia...?”

“…Esclusa camera tua.”

“Ah, va ben…’Scolta adesso sto uscendo a ber ‘na roba –, te serviva qualcosa par caso o…?”

“No no in realtà era na stupidata...”

“Dai ‘ma...”

“È che ho trovato sta roba su Facebook, prima…”.

“Vara che a roba che posta i to amici xe tutte truffe o fake news...”

“Ma che fake news-e-fake news…Ho solo visto di ‘sto concerto qua...”

“…Che concerto?”

“di ‘sto Yann Tiersen...”

“...Ah benon…”

“...alla Fenice, il quattordici.”

“...si si, sto vedendo adesso dal telefono –, ci vanno anche delle mie ex-compagne di corso, pensa ti ah...”

“Pensa ti cosa?”

“Ch’è roba per…Vabbè assa stare...”

“…”

“Comunque qua dice che inizia alle otto.”

“Quindi?”

“Ciò mamma dopo non ghe xe ‘pi treni: l’ultimo è alle nove e cinquanta e il concerto finirà boh, alle dieci e passa...”

“…”

“Quindi devi andare là in macchina e parcheggiare a Mestre, e dopo prendere il tram per piazzale Roma e.…”

“…Va beh no sarà mia ‘na roba impossibie...”

“Si ma è luglio farà un caldo boia e xe pien di turisti, e la strada bisogna saperla, fidati dopo tre anni là a studiare...”

“…E no rieso col navigatore sul cellulare...?”

“…Mamma sarà anni che no te guidi a macchina del papà, dai per piacere…”

“ ‘Scolta Giacomo…”

“E comunque pal biglietto ghe voe a Poste Pay.”

“…infatti: ti chiamavo apposta.”

 

2.

Il lunedì Lucrezia alle nove spaccate si presenta in banca, capelli avvolti in una bandana ed occhiali da sole, gira un bonifico di centosessanta euro a Giacomo e sguscia fuori dal tornello neanche fosse un confessionale.

La settimana scarsa che manca al concerto poi, la passa a pianificare: che strada prendere per evitare le autostrade, a che ora partire per non trovare traffico, dove parcheggiare gratis, che linea del tram prendere; il meteo non segna una nuvola per tutta la settimana, eppure arriva a sera con tutto un tempestare di angosce in testa – che ha speso troppo, che andare da sola è un rischio…

Il giorno prima di partire va a stampare quattro copie del biglietto in pdf che le aveva inviato Giacomo, prepara due panini giganti con lo speck più due litri di tè al limone che schiaffa in una borsa frigo; da un’occhiata all’assicurazione della macchina e la porta dal meccanico a farla controllare, poi va a comprare la ventosa per il telefono e pure a prelevare duecento carte, per sicurezza. Infilatasi a letto verso le nove e mezza, prende sonno alle tre e si sveglia alle sette, per fare colazione, ma torna sotto le coperte fino alle due, vestita e tutto con lo zaino di fianco, cercando di preservare le energie. Alle quattro e mezza comunque, è già per strada: cellulare incollato al parabrezza, radio in muto, Google Maps col volume a spago, occhiali da vista sotto quelli da sole tenuti con lo scotch.

Persa per strade arrotondate e paesi circonvallati di cui riconosce solo i nomi, non può fare a meno di pensare alla guerra piantata con Aldo per quella Multipla: lui ai tempi l’aveva presa nuova in concessionaria, e lei per mesi le aveva tirate fuori tutte: ch’è ingombrante, e consuma troppo, ed è poco sicura; la verità è che di girare con quel catafalco si vergognava. Avrebbe preferito un’Audi o una Volvo, usata magari, ma più di classe.
Dopo qualche viaggio però, aveva scoperto ch’era spaziosa, comoda, e le dava pure un certo ché di sicurezza: nel senso anche sbatterla, più brutta di così.

Poi c’avrebbe giurato, sotto i tappetini doveva esserci ancora un pugno di sabbia da quell’ultima vacanza in Croazia: s’immaginava di vedere Giacomo nello specchietto a fare esercizi per i recuperi a settembre; di avvertire il profumo dei panini con salsa tonnata che preparava Aldo per il viaggio: se lo sentiva lì-lì di fianco, a borbottare che, fosse stato per lui, non ci sarebbe stato tanto da organizzarsi: secondo Aldo era tutto un prenderla come viene la vita; quella che succede mentre fai i piani, come le diceva sempre. Di quella giornata rivedeva le soste infinite negli autogrill, fatte così a casaccio, le multe e la musica troppo alta di Giacomo, e poi tutta quella litigata per trovare un parcheggio. La distanza di quei ricordi sembra sommarsi ai chilometri che si sta lasciando alle spalle, quasi la strada non stia tanto srotolandosi di fronte a lei, piuttosto che le si snodi dentro; allora si scopre ad accelerare ben oltre il limite, e inizia a sentire una specie di carnevale nella pancia.

Non che sia distratta poi: infila tutte le uscite dalle rotonde al primo colpo e riesce pure a divincolarsi in quel budello di sensi unici ch’è Mestre centro, quando perfino il navigatore del telefono getta la spugna. Nel momento in cui parcheggia sono le sei e mezza. Entrata nel primo tabacchino, compra subito il biglietto e una stecca di fondente; vincendo l’ansia poi salta due corse e si spazzola in velocità uno dei panini, per farsi forza, seduta sulla panchina della fermata.

Salita su, scrive a Giacomo e gli manda un selfie, tenendo sempre sotto controllo la posizione da Google Maps, assicurandosi che il tram rispetti la tratta. È l’ora di punta: le cabine si riempiono in un attimo e non resta mezzo palmo dove appoggiarsi o aggrapparsi. Schiacciata dalla gente contro il finestrino, a uno stop Lucrezia nota, sul marciapiede bollente, un anziano in canottiera, braghette e ciabatte scalcagnate, con un cocker decrepito al guinzaglio, sbavato e ansimante: non riesce a capire chi dei due è più vecchio, o chi sta trascinando chi, e d’improvviso tutta quella scena le punge il cuore in una fitta di compassione: quasi da quel finestrino stesse scrutando avanti una decina d’anni.
Allora guarda tutti quegli studenti, e i pendolari, perdendosi fra i loro discorsi, e prova la netta sensazione di non essere più all’altezza del mondo e della gente. Inizia a sudare, non trova respiro, il sole sopra le ciminiere di Marghera le sputa i suoi raggi dritti in faccia e ogni sguardo che le si schiaccia addosso per più di due secondi, pare surriscaldarla. Fra una fermata e l’altra, ci vuole più di mezz’ora al tram per arrivare in piazzale Roma.

Uscita dalla cabina incandescente, la vista dei ponti che si slanciano verso i palazzi, oltre gli alberi, le rinfresca un po’ i pensieri: sono passati tanti di quegli anni che a Venezia le pare di esserci di nuovo per la prima volta. Ma non c’è tempo di meravigliarsi troppo: data un’occhiata al cellulare, quello segna le sette e venti: è in ritardo.  
Così fa per impostare la destinazione, e la mappa però si sgrana, l’app non trova connessione, il telefono le vibra fra le mani: è un sms della Wind - dice che ha superato la soglia di traffico mensile.
Lucrezia rimane a fissare quel messaggio un minuto buono: il telefono stretto fra le dita sbiancate, come l’ultimo appiglio spezzato di chi precipiti nel vuoto.
Istintivamente fa una ventina di passi verso il tram di ritorno a Mestre, poi però si guarda un attimo intorno: indiani che lanciano trottole volanti, venditori ambulanti di capelli e ombrelli, polizia, militari, scolaresche in gita, vecchi e famiglie e adolescenti e innamorati e tutto un mare di gente e di vita.
E allora di nuovo, fa la sua scelta.

Si mette in ascolto, coglie la bestemmia di una signora seduta su una panchina, le si avvicina, chiede di un tabacchino e quella con tipica spocchia lagunare le accenna un gazebo assediato da una frotta di turisti; lei però non è che ha tempo da aspettare: mostra il telefono, spiega del concerto, sono in ritardo, le dice, e quella allora suggerisce di andare fino in piazza San Marco: bastava seguire i cartelli al primo piano dei palazzi; poi avrebbe dovuto chiedere, ma il teatro era lì in zona.

Superata la chiesa dei Tolentini, il rintocco argentino delle sette e mezza riverbera leggero fra tetti e campanili. Con lo sguardo rivolto all’insù, Lucrezia segue le frecce in un budello di calli che si apre, a tratti, in campielli da cui la luce si dilegua oltre i caseggiati nel cielo amaranto: la penombra inizia a fiaccarle la vista, il vestito lungo le accorcia il passo, ogni due vicoli deve imbucarsi a sistemarsi le mutande, e i piedi a furia di scalare ponti iniziano a pulsarle, costretti in quelle scarpette a mezzo tacco. Si trascina così per mezz’ora, accecata dallo sfavillio di negozi, bar e ristoranti, finché lungo una calle angusta l’alito del mare non le gonfia appena il vestito, sfiorandole il viso come una carezza inaspettata.

Seguendo quel profumo di salsedine si ritrova in una via più ampia, terminante in un portale orientale che ritaglia un brandello di Piazza San Marco, mascherata nel crepuscolo precoce dei palazzi. Rinfrancata dall’aria frizzante che spazza sotto i portici, Lucrezia si liscia il vestito con un che di felino, entra nel primo bar e chiede della Fenice: un cameriere l’accompagna fuori, e col menù sotto braccio indica l’altro capo della piazza: uscita di là, le dice, la seconda calle a sinistra, dieci minuti ed è arrivata. Lucrezia allora esce da sotto portici e si volta verso la Torre dell’Orologio: le sette e cinquantacinque.
Toltasi le scarpe allora, le caccia nello zainetto e attraversa la piazza correndo come non faceva da vent’anni, levando stormi di piccioni, coi polmoni che bruciano, lasciandosi dietro tutta una scia di sguardi dalle vetrine di caffè e negozi alla moda. Imboccata la svolta, s’infila in una calle che sfocia proprio nel campiello dominato dal teatro, austero e maestoso come un templio, e nell’istante stesso in cui varca le colonne dell’entrata, nel cielo sfavilla il suono plumbeo di una campana, da qualche parte.

Dentro poi, senza badare troppo all’etichetta, si mette a sventolare il biglietto dietro a uno degli inservienti in smoking: quello l’avverte che Yann è in ritardo; così lei ne approfitta per darsi una rinfrescata: è sudata fradicia, sgrondata fino alle calze, e tenta di asciugarsi il vestito sotto le ascelle col soffiatore del bagno, tamponandosi la schiena con della carta igienica, sperando nelle luci basse.
Il palco laterale, scopre, si trova proprio sopra il palcoscenico, vicinissimo. La prima fila però è già tutta occupata, così Lucrezia si mette a calcolare la distanza per potersi alzare a guardare, trascina avanti e indietro una sedia – e in quel momento Yann compare al pianoforte: senza fretta, nonostante il ritardo, un po’ arruffato, il ciuffo di capelli grigi sparato per aria.  Lucrezia se ne sta in piedi mezz’ora a guardarlo, seguendo le sue mani scivolare limpide lungo la tastiera, finché sfinita con le gambe che scricchiolano si accascia sulla sedia, e allora la stanchezza la investe tutta insieme, come un’onda tiepida e pastosa. Ascoltandolo e basta, perdendosi nella bellezza oscurata del soffitto baluginante di affreschi barocchi, Lucrezia durante un breve intermezzo chiude gli occhi giusto un attimo, e l’attimo dopo ecco gli applausi, e le luci.
Alzatesi per andarsene, le persone in prima fila se la trovano stravaccata senza scarpe, le calze rotte sulle punte dei piedi, la borsa in terra come un sacco, con un sorriso però di quelli che ne vedi solo uno ogni tanto…        

Uscita dal teatro ormai deserto, con gli inservienti che ridono e scherzano rilassati mentre chiudono i portoni d’ingresso, Lucrezia va a sedersi sulla scalinata di un vecchio palazzo.
Su uno dei gradoni stende la sua tovaglietta cerata a stampe di limoni, tira fuori la stecca di fondente ormai mezza sciolta, il panino che resta e un bicchierino per il tè.
Mangia senza fretta, osservando la gente che passeggia e chiacchiera per le calli: tutto pare esserle venuto fuori più buono, perfino il solito tè al limone in bustina; si gode in bocca ogni sorso, ogni singolo morso in modo diverso, pieno.
Si incammina sulla via del ritorno senza badare troppo alle indicazioni, mano a mano che infila una svolta dietro l’altra si scopre leggera, tanto da sentirla sua quella Venezia, prima così sconosciuta, di conoscerne ogni calle, ogni singola luce fra tutti quei palazzi.
Dopo tanto tempo, era di nuovo pronta per qualsiasi cosa potesse succedere.

Quando ormai inizia a riconoscere incroci già percorsi, di colpo, nel mezzo di un ponte, realizza di non aver fatto nemmeno una foto o un video del concerto da inviare a Giacomo. Niente che testimoniasse quella giornata incredibile. Così strada facendo, si convince di dovergliela raccontare, in qualche modo.

Giunta in Piazzale Roma, controlla gli orari dei tram per Mestre, e si mette a camminare, avanti e indietro; poi distratta alza lo sguardo, e allora nell’aria nera scorge lo scintillio di un aereo; e passa un minuto intero che a lei pare durare solamente un istante. Così torna sulla banchina deserta, da un’occhiata ai bus diretti all’aeroporto, si guarda intorno, sorride.
E di nuovo, fa la sua scelta.


Marco Brion è nato a Thiene il 25 Marzo 1991. Attualmente vive in Provincia di Treviso, dove svolge la professione di ghostwriter, copywriter e digital strategist freelance.

Il pegno, un racconto di Noemi De Lisi

La biglia cominciò a scivolare sull’asfalto in discesa. «Prendila!», disse Anna mentre già correvo da quando le era sfuggita di mano. «Ferma, fermati, ferma», ripetevo a denti stretti. La biglia si schiantò contro il muretto dell’aiuola, fece un piccolo balzo, si mosse ancora e si fermò. La raggiunsi trafelato. Mi chinai e la guardai: era trasparente e dentro aveva una fogliolina blu e gialla che a osservarla rotolare, diventava verde. «Che fai?», mi urlava Anna alle spalle. Mi voltai: si era alzata dalla panchina e restava ferma, a tentennare mordendosi il dorso della mano, ripetendo: «È lì, è là, l’hai presa?», balbettando alla fine sulla “p”. Allungai la mano e presi la biglia. La tenevo fra il pollice e l’indice, così avrebbe potuto cadere di nuovo, scivolare. E chissà allora cosa avrebbe detto Anna, e cosa avrei potuto dirle io? “Ce l’avevo proprio qui, la tenevo, ma mi è scappata…”. Mi alzai e tornai indietro. Tenevo la biglia chiusa nel pugno. Guardavo per terra mentre tornavo da Anna, e solo quando le fui di fronte rialzai lo sguardo. «S’è persa?», disse e si strofinò l’occhio con l’indice. Misi le braccia dietro la schiena e cominciai a recitare: «Ma dov’è la bella figlia? Ma dov’è la sua biglia? E la foglia che ha nel cuore è il segreto del suo grande amore…», poi stesi i pugni verso Anna. Lei spalancò gli occhi e arricciò il labbro, scoprendo gli incisivi storti.
Cominciò a scrutare i pugni: prima il destro, poi il sinistro. Aggrottò la fronte e si morse il dorso della mano:
«Dai, dimmi dov’è!»
«No. Lo devi indovinare.»
«E sei poi sbaglio?»
Anna mi guardò: aveva le ciglia bagnate come se avesse pianto. Mossi un po’ le dita della mano sinistra. Lei se ne accorse e subito la indicò: «Qui!». Capovolsi il pugno e aprii lentamente le dita: «Meno male…», disse Anna e sorrise. Prese la biglia dal mio palmo, la strinse e la portò al petto socchiudendo gli occhi.
«La mia biglia, è proprio la mia biglia.»
«Però non farla cadere più.»
«Sei stato tu a farla cadere!»
«Perché tu me l’hai data male.»
«Non è vero! Per una volta che te la volevo fare vedere bene… sei tu che hai le mani malate.»
Ci sedemmo nuovamente sulla panchina del giardinetto. Io e Anna avevamo 24 anni e non ci eravamo mai toccati. Solo una volta le avevo preso la mano, lei l’aveva subito lasciata e io allora avevo riso dicendole che era tutto uno scherzo.
«Insomma, Anna, che mi dovevi dire?»
«Niente. Ti volevo far vedere la biglia.»
«Già l’avevo vista.»
«Sì, ma magari non te la ricordavi più. E poi non te l’avevo mai data in mano.»
Presi il pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans, lo aprii, diedi un colpetto sul fondo, lo portai alla bocca: «Quindi non mi devi dire niente», dissi, afferrai una sigaretta con i denti, l’accesi, inspirai e soffiai via il fumo. Anna aveva quella canottiera grigia che aveva comprato al mercatino; quella con il teschio stampato sul davanti. Il mese scorso l’aveva persa. Aveva cercato nei cassetti, nell’armadio, sotto il letto. Mi aveva domandato se per caso l’avessi presa io. Le avevo risposto che non me ne facevo niente della sua canottiera, che era proprio una cretina a pensare che ce l’avessi io. Poi ero tornato a casa e avevo messo tutto sottosopra: avevo frugato tra i vestiti, avevo spostato i mobili, avevo cercato dappertutto. L’indomani, mi aveva detto di averla ritrovata, tutta sgualcita, dentro lo zaino per le gite. Mi aveva chiesto scusa ed ero rimasto deluso.
Anna tossì e scacciò via il fumo agitando una mano davanti al naso:
«Oggi proprio non lo so cos’hai. Quando fumi è perché sei nervoso.»
«Non è vero. Ma poi che devo avere?»
«Non lo so, qualcosa…»
«E grazie, tu stai qui e non mi dici niente. Prima mi dici di vederci e poi non parli.»
Anna mi guardò, le spuntarono due piccole rughe al centro della fronte: «Cosa ti devo dire? Domani parto, lo sai.»
«Parti, è vero.»
Anna aveva un neo vicino l’occhio destro. In estate metteva sempre gli occhiali da sole grandi col bordo bianco. Le stavano male, glielo dicevo quanto erano brutti ma lei non mi ascoltava e mi interrompeva facendo: “Bla bla bla!”. Per tutta l’estate non vedevo più il neo e quindi non la riconoscevo. Continuavo a salutarla e parlarle solo perché mi sembrava giusto così, perché sapevo che la dovevo sicuramente conoscere, anche se mi veniva difficile. Così, certe volte mi stancavo e mentre mi parlava le mettevo una mano in faccia, le afferravo quegli schifosi occhiali e iniziavo a correre mentre mi urlava parolacce. Poi mi fermavo, mi voltavo a guardarla, per riconoscerla, finalmente: stava in piedi, ferma a fissarmi, seria, e teneva una mano vicino l’occhio, con un dito sul neo.
«E dove vai? Dove parti?»
«Ma lo sai!»

Anna era stanca della nostra città, diceva sempre che si sarebbe ammalata a restarci. Era brava in inglese, molto più brava di me. Partiva per l’Inghilterra. Andava a fare la cameriera anche se odiava parlare con gli estranei. Anna aveva sempre quella biglia in tasca da quando aveva nove anni. Quando era nervosa la stringeva forte finché le nocche non gli diventavano bianche, e sussurrava: “Proteggimi, proteggimi…”. Altre volte se la infilava in bocca e la passava da guancia a guancia come una caramella, la risputava fuori, la strofinava sulla maglietta: “Adesso è pulita”, diceva e sorrideva.
Era l’ultimo pomeriggio che avrei visto Anna. Le avevo detto: “Facciamo questo gioco: parliamo come se domani non parti”. Lei mi aveva detto che ero un cretino, che al contrario, voleva dirmi tutto in modo diverso, parlare delle cose nuove che stavano capitando. Voleva raccontarmi delle sue valigie, di cosa aveva messo dentro e di come ci fosse dovuta saltare su con le ginocchia per chiuderle; degli avvertimenti che le aveva fatto sua madre sul non bere e sul non dimenticare di mangiare la frutta; di come non le sarebbe mancato per niente guidare la macchina; del numero di telefono che avrebbe dovuto cambiare. Poi era rimasta in silenzio, mi aveva guardato, aveva battuto una mano sulla coscia e aveva sorriso a bocca chiusa. Così, avevo cominciato a parlare come se lei non dovesse partire: «Domani ti va di andare in quella nuova gelateria che hanno aperto? Ah … non mi ricordo come si chiama, forse Gelatone, Gelatiere. Ci siamo passati davanti l’altro giorno, ti ricordi? Sì. Domani tu prendi pistacchio e io prendo nocciola. Se fanno buoni questi gusti, allora sono bravi a farli tutti. Domani a che ora ci vediamo? Domani possiamo andare anche al parco di pomeriggio, porto le racchette, ti va? Però dobbiamo stare attenti perché c’è rimasta solo una pallina. Non fare al solito tuo che ci metti troppa forza e poi la fai volare, e poi devo andare io a riprenderla perché tu non ti vuoi muovere, e poi grazie che alla fine sono io quello più sudato. Sempre se domani non fa brutto… ma domani ci sarà il sole, me lo sento. Guarda, il cielo è pulito. Domani farà bello». Anna ascoltava senza guardarmi, si mordeva il dorso della mano. Poi si era voltata verso di me, aveva riso e aveva gli occhi strani, il naso strano, la bocca strana, il mento strano. Sembrava già un’altra persona. «S’è fatto tardi», disse e si alzò dalla panchina. Mi alzai anche io, gettai la sigaretta per terra e la pestai. Anna mosse la mano verso di me: aveva il segno rosso dei denti sul dorso. Avvicinai la mano, la misi sotto la sua, lei ci lasciò cadere dentro la biglia: «Conservala tu», disse. «Ciao», aggiunse e fece il saluto militare tirando fuori la lingua, io lo ricambiai come facevamo sempre. Si girò e cominciò a camminare. Uscì dal cancello del giardinetto, risalì il viale fino alla fine della strada, poi prese a destra. Non si voltò per tutto quel tempo.


Noemi De Lisi (Palermo, 1988), laureata in Giornalismo per uffici stampa all’Università di Palermo. Nel 2009 alcune sue poesie sono pubblicate su “Nuovi Argomenti” N°45. Dal 2013 al 2014 frequenta da borsista il corso di scrittura “L’anno del romanzo” con Giulio Mozzi e Carola Susani, organizzato e promosso dal Centro Studi Narrativi Le città invisibili. Nello stesso periodo vince la XII edizione del concorso Subway-letteratura. Nel 2015 è inserita nell’antologia “Post ‘900. Lirici e narrativi” (Ladolfi) con una prefazione di Carlo Carabba. Nello stesso anno, il suo racconto “Carcassa” viene pubblicato sul blog letterario “Vibrisse – bollettino di letture e scritture” a cura di Giulio Mozzi. 

C'è vita su Marte, un racconto di Matteo De Chiara

Non ha un’aria qualunque, non l’ha mai avuta. Anche se ha solo sedici anni.
Anche se non ha nient’altro eccetto la sua età.
Mentre guida le sembra di essere qualcosa di più di una ragazza. È una sensazione che la riempie di vertigine ed euforia: sentirsi lanciati, liberi, fa questo effetto.
Sa che non si tratta di un gioco, non a questo punto. È sola, e nella sua solitudine avverte una specie di solennità che non ha provato prima. Ha la sensazione che questo momento avrà un peso nella sua vita. L’ha capito nell’istante in cui ha preso le chiavi dell’auto di suo padre ed è scesa in strada. Guardare il suo quartiere a quell’ora di mattina l’ha fatta sentire in collisione col mondo. Non c’entra solo suo padre, quello che si sono detti, ma tutto quello che le manca, che non ha mai avuto.
C’entra soprattutto lei.

Ha spinto l’acceleratore e ha sentito la macchina assecondare la sua voglia di allontanarsi. Non ha pensato a nient’altro. Si preoccupano delle conseguenze quelli che non hanno niente da cui fuggire. Quando suo padre si accorgerà di quello che ha fatto sarà tardi.  Ormai sta andando. Non sa ancora dove, conta solo che ci sia il mare. Ha passato l’ultimo inverno a immaginare l’acqua in movimento, l’orizzonte che si staglia indifferente sulla superficie increspata, torbida. La sensazione di apertura che trasmette. Anche se la vita non è una cartolina. Questo l’ha imparato bene.

Forse anche per questo sua madre ha voluto chiamarla Serena.  In origine voleva dire asciutto, secchezza. Un modo di ripulire il corpo, le idee da illusioni o tentazioni romantiche. Per lei Serena non ha mai significato altro. Niente che riguardi davvero la felicità, la limpidezza. È tutto quello che le ha lasciato prima di andarsene. C’è stata una specie di consegna in quel nome che l’ha aiutata a rispettare con la sua assenza. Per ritorsione Serena ha portato con sé dei vestiti dimenticati in fondo all’armadio, indizi della personalità di sua madre che lei non ha potuto trascinarsi dietro: foulard e camicie estive dalle tonalità accese che lei metteva anche d’inverno. Non ha mai sopportato i colori a tinta unita, aveva bisogno di abiti che suggerissero mondi inventati, che rimandassero alla sua voglia di essere altrove.
Dal finestrino aperto Serena lascia andare via qualcosa, un po’ alla volta: una canottiera nera, una gonna, dei pantaloncini succinti. Spesso ha tenuto quegli oggetti tra le mani, li ha annusati in cerca dell’odore di sua madre, delle tracce sprigionate dal suo corpo. Voleva impossessarsi della vita che circolava al suo interno, un’esistenza fatta di contrasti e anni vissuti in bilico. L’effetto di un’anima incrinata. Ora li abbandona in quel modo. Sono residui di lei che si mischiano all’erba, confondendosi  con le altre cose inutili di cui ci si libera.
“Cazzo, è davvero grande”.
È l’unica cosa che riesce a pensare, un pensiero ripetuto a voce alta che si riferisce a tutto e niente mentre accende la radio. Trasmettono una canzone di Bowie che le piace e la proietta indietro, dentro un altro momento.
Il modo in cui lui l’aveva fatto in fondole era piaciuto. Era stato brusco ma non c’era stato dolore, come le aveva promesso. Il dolore vero riguarda altre cose. Le avevachiesto solo di aprire di più le gambe, di farlo entrare senza sforzi. Serena aveva fatto così, mentre fissava le sue cosce scoperte spalancarsi nell’ombra. Osservare quella parte di sé tesa, proiettata nel vuoto, le era piaciuto più di ogni altra cosa. Aveva trovato irresistibile la simmetria dei muscoli e delle ossa, la loro lunghezza pallida che assecondava i movimenti di lui. Tutto il suo corpo stava rispondendo con facilità. Per aiutarla lui aveva acceso la radio. Davano quella stessa canzone.
Non era durato molto. Più che altro era stato un modo di rovinarsi insieme o di rovinare solo se stessa. Non può esserne sicura. Probabilmente non lo saprà mai. A casa, d’impulso, aveva svegliato suo padre. Certe esperienze dovrebbero confidarsi alla madre, se solo ce ne fosse una a cui raccontarle.

“Non sono più una ragazzina”.
La risposta di suo padre era consistita in uno schiaffo. Lei aveva avvertito il peso della mano, le nocche sporgenti contro lo zigomo e la guancia, come se qualcosa la stesse scavando di nuovo dentro. Il taglio aveva sanguinato subito. Per tamponarlo era bastata un po’ d’acqua. L’effetto l’aveva delusa, avrebbe voluto che almeno una parte di lei sanguinasse ancora per  un po’.  Da quel momento lei e suo padre si erano guardati in modo diverso. L’aria selvatica di Serena, da adolescente in preda a impulsi ormonali, si era inasprita. E anche quella precocemente invecchiata di suo padre. I loro sguardi entravano in collisione appena si incrociavano. La scomparsa di sua madre li ha uniti solo per poco. Un poco che non è bastato a tenerli insieme.
Non hanno neanche provato a cercarla. A che serve cercare qualcuno che decide di andarsene.

La sua immagine nello specchietto. Serena si accorge di essere spettinata, delle occhiaie viola si sono impossessate della sua espressione. Le conferiscono un’aria adulta, trascurata. Non ha fatto in tempo a guardarsi, prima. Ha messo solo qualcosa in una sacca. Non ha pensato ai soldi, ma allo spazio che le serviva e che si è presa. Non c’è nessun risvolto pratico nella sua fuga, solo l’esigenza di fare in fretta. Ripete le parole delle canzone, Life on Mars?, indirizzandole contro il mondo fuori dal finestrino. Il paesaggio non risponde. È ancora troppo vicina alle sue origini. Anche se non dovrebbe trovarsi lì, alla guida di un’auto. Non dovrebbe neanche saper guidare. Invece ha imparato da sola in un parcheggio abbandonato, tra carcasse di vecchie automobili che l’attiravano per via della loro aria inutile. Era riuscita a farne ripartire una. Avvolta dalla carrozzeria deformata aveva la sensazione che gli urti che le aveva lasciato la vita fossero visibili, mostrando quello che c’era dentro di lei. Le piaceva quell’idea di sentirsi come modellata nel metallo, una cosa che si ribellava all’idea di essere buttata via. È stata questa la spinta.
Ha pensato che guidare le sarebbe servito. Ha scopato pensando che, in qualche modo, le sarebbe servito. Era in cerca di un contatto fisico che le lasciasse un segno.
“Stringi più forte”.
Gliel’aveva detto sua madre, dopo che lei l’aveva abbracciata. Un altro genere di contatto,  da ragazzina, quando Serena si lasciava andare a quel tipo di slanci. Forse era davvero colpa sua, non era riuscita a trattenerla tra le sue braccia. Eppure non era stato quel momento a lasciarle un segno, ma quella frase che pesa ancora nella sua vita. Mentre glielo diceva sua madre sapeva già che se ne sarebbe andata. Con suo padre invece non ci sono mai stati dei veri contatti, niente di fisico, solo dei lunghi sguardi prima di quello schiaffo. È il massimo che si possa ricevere da uno come lui. Ha un bar, più che un lavoro rappresenta un modo di tenersi in equilibrio: trascorre il tempo con degli estranei servendo da bere e ascoltandoli (sempre in quest’ordine).  
Serena si affaccia dal finestrino per respirare. Apre la bocca in cerca d’aria. Si sforza di far uscire una quantità di rabbia che minaccia di contaminare i suoi organi interni.  La rigenerazione dei tessuti nel mondo vegetale è un processo naturale, l’ha letto nel suo libro di biologia, l’unica materia che ha sempre studiato con una certa passione. Si chiede se possa essere così per altre cose invisibili, come i sentimenti. Per un momento le sembra possibile. Un momento che coincide con un’idea di felicità che non dura a lungo: l’indicatore della benzina segna rosso. È obbligata a fermarsi, appena in tempo per raggiungere una stazione di servizio. Parcheggia male occupando più spazio di quello che le occorre. Non le importa, ovviamente, mentre resta seduta a osservare il passaggio dei viaggiatori. Il loro anonimato la tranquillizza, anche se non sa ancora come farà a trovare i soldi che le occorrono. 
“In un modo o nell’altro”.
Sua madre usava spesso quella frase, più che altro a sproposito, ma ora le sembra l’unica risposta che funzioni. L’unica che le dia la quantità di coraggio necessario per uscire.
In un modo o nell’altro.
Si scuote dalla felpa la forfora e i capelli. Si pettina con le mani, mordendosi il labbro. Non si piace, anche questo non è un fatto nuovo. È bella, eppure non vuole saperlo. Attraversa il parcheggio con la sua aria desolata, immatura. Le maniche della felpa nera le scivolano fino alla punta delle dita. Un’altra parte attraente che non sa di avere: sono dite lunghe, passionali, trascurate. Quella notte le ha fatte scivolare nei pantaloni di quell’uomo, perché di questo si trattava, mentre la stava riportando a casa. Un modo per sdebitarsi di quello che le aveva dato o le aveva tolto. Per lei era lo stesso.
All’ingresso della stazione di servizio un’attivista distribuisce volantini verdi con una scritta in nero: per i bambini il pericolo è ovunque! Mentre li tende soffia sulla sua frangia che sembra essere stata tagliata di netto, con un colpo di coltello più che di forbice, lasciando scoperti i suoi lineamenti e un livido sull’occhio che ha tentato di nascondere con del fard. Ha l’aria di chi è cresciuta in fretta. A volte si sfiora l’occhio come se volesse sentire ciò che resta di quel dolore, o ricordare a se stessa che c’è stato. Più che dalla frase Serena è colpita da quel punto esclamativo: ha un’aria così solenne, come per chiudere bruscamente ogni discorso. Raccoglie il volantino e lo schiaccia lentamente nel pugno, lo sente sfregare contro il palmo della sua mano prima di buttarlo via.
L’uomo di quella notte  aveva trent’anni, l’ha sedotta con poche parole e lei ha lasciato che facesse quello che voleva. Ha sentito il bisogno di buttarsi via. Dopo l’ha rivisto solo una volta, per strada. Lui l’ha guardata appena. Era con sua moglie, le teneva una mano su un braccio, impedendole di staccarsi da lui. La moglie aveva un’aria dimessa, di chi subisce senza protestare.
Forse è per questo che a Serena piace osservare le coppie, per immaginare un futuro che la sfugge. Ce n’è una a un tavolino, hanno due bambini piccoli, recalcitranti, che rifiutano il cibo come se si trattasse di una specie di penitenza. I genitori li portano via con un’aria esausta, lasciando bibite a metà e panini appena assaggiati. Si tratta di cose sprecate, avanzi di giovinezza che Serena consuma in fretta, masticando e bevendo con lunghi sorsi clandestini. Nessuno si accorge di quello che sta facendo, eccetto una donna matura con un soprabito grigio. La osserva con un’aria comprensiva, quella di qualcuno che può essere tutto: un’amica, una complice. È  una presenza che ha qualcosa di rassicurante. Serena le passa accanto; i loro sguardi si incontrano, sono quasi sul punto di toccarsi, ma non succede. Non c’è niente a eccezione di quella voglia reciproca, trattenuta,  di permettersi un gesto.
“Hai una sigaretta?”
Si è avvicinata a un ragazzo, almeno le sembra che lo sia per via dei lineamenti su cui si stagliano  lunghi capelli bianchi legati, che fanno risaltare degli occhi acquosi. È un ragazzo/uomo, uno di quelli che avranno sempre un’aria giovane e precocemente matura allo stesso tempo. Le ha acceso una sigaretta che Serena fuma con un’aria presuntuosa, estrema. Rifiata appena tra una boccata e l’altra, ha la sensazione che il fumo oltre a toglierle ossigeno, consumi un po’ della sua vita passata. Anche il ragazzo/uomo ne accende una, la stringe tra le labbra pallide, sottili, niente di più di una fessura al centro del suo volto.
“Sei di qui?”.
Serena fa cenno di no. Non è di lì, si può dire che non è più di nessuna parte.  Anche la sua età, i suoi progetti, sono in sospeso. In fondo le provoca un piacere amaro sapere di non essere legata a niente.
“Sei sola?”.
Serena si guarda intorno. Fa cenno di no, un’altra bugia che non le costa niente.
“Dove stai andando?”.
“Da nessuna parte”.
“È un posto dove mi piacerebbe andare”.
“Piacerebbe a tutti”.
Il ragazzo/uomo annuisce mentre rivolge lo sguardo in direzione del parcheggio. In un’auto in sosta una donna dall’aspetto contrariato sembra attendere solo che lui la cerchi.
“È tua moglie?”
“Una specie …”.
L’espressione si incupisce, drammatizzata  dai capelli bianchi che gli scivolano sulla fronte.
“Mi servono dei soldi, per ripartire”.
Il ragazzo reagisce con una smorfia.
“E andare da nessuna parte …”
“Già”.
“Con me caschi male, ha tutto quella lì”.
La donna nell’abitacolo dell’auto, seduta nel lato del passeggero come se fosse ammanettata.
“Mi lasci il tuo numero di telefono?”.
Serena si morde le labbra, sa già dove vuole arrivare.
“Perché, vuoi chiamarmi? Comunque non ho un cellulare”.
“Non hai telefono, né soldi. Allora cos’hai?”.
“Ho lei”.
Con un cenno indica la donna con il soprabito grigio. In quel momento è un’incarnazione di tutto quello che vorrebbe. Di tutto quello che le manca.
“Quella è mia madre”
Annuisce, per un momento è convinta che possa esserlo davvero.
“Mi lascia persino guidare”.
“Non sei giovane per guidare?”.
“E tu non sei giovane per una come quella?”.
Indica la donna nel parcheggio che sta ancora spettando. Il ragazzo dà un altro tiro alla sigaretta con un’aria sfuggente.
“Forse”.
A un tratto quei lineamenti che rimandano alla sua giovinezza sembrano svaniti. Al loro posto resta solo un pallore immaturo e i segni della barba rasata in fretta: la pelle scorticata, rossa ai lati del collo. Se ne va rigido, spettrale, senza un saluto. La donna fuori lo sta aspettando, lo abbraccia come per imprigionarlo. A nessuno dei due devono piacere le cose facili. In fondo neanche a Serena. Guarda il ragazzo mettersi alla guida dopo che sin sono baciati a lungo, con una violenza naturale. Deve essere uno di quelli imprudenti, che corrono per non annoiarsi o per non perdere tempo. Tutti e due devono avere delle esperienze rovinose alle spalle: persone lasciate in fretta, case abbandonate di notte trascinandosi dietro valigie scarne, senza effetti personali. Probabilmente hanno un destino in comune; chissà qual è.

Costringono Serena a pensare a sua madre. Dovunque sia, nessuno può raggiungerla. È cosi anche per lei. Le occorrono solo dei soldi per ripartire. In fondo la donna in grigio è ancora lì, seduta al suo posto, con un’aria assorta. Sembra aspettare che lei si decida. Le va incontro cercando di darsi un’aria adulta, motivata.
“Ho bisogno di soldi, capirà”.

Se lo ripete senza chiedersi perché un’estranea dovrebbe capire. Forse perché gli altri, suo padre, sua madre, quelli che ha considerato sempre vicini non l’hanno mai fatto. Capire è una questione di chimica, a volte l’effetto di una reazione epidermica. Sì, ti capisco … è tutto quello che ha sempre voluto sentirsi dire.
La donna ha un tazza di caffè tra le mani, la tocca con una leggerezza strana, personale. Ha l’aria di qualcuno a cui basta sfiorare le cose per impreziosirle. Tutto nel suo aspetto sembra spontaneo, anche i segni della sua età. La madre di Serena sarà così tra qualche anno, ma lei può solo provare a immaginarlo.
“Scusi …”.
Ha detto così. Avrebbe voluto iniziare in modo diverso, più vero, con un lei mi ricorda una persona, ma le parole non sono venute. Al loro posto è rimasta una strana consistenza in fondo alla bocca fatta di metallo e saliva, di cose rimaste in bilico. Irrecuperabili.
“Sì?”.
Non riesce ad andare avanti, si accorge che le trema una mano. Deve nasconderla in una tasca della felpa. Stringe il pugno. Si detesta, e non sa come smettere. Mentre la donna la guarda il suo mondo corre indietro, si confonde in una quantità di ricordi: è al mare mentre cerca di restare a galla agitando le braccia per non affondare. Poi una corsa furiosa lungo un prato e un ginocchio che sanguina per effetto della caduta. Allora le piaceva perdere l’equilibrio, ferirsi. Vedersi messa a nudo. L’effetto era sempre lo stesso: un’equivalenza di sbagli senza conseguenze, di giochi rotti e pianti passeggeri. 
“Sì?”.
“Niente”.

Serena indietreggia, riprende posto nel corridoio. Pensava di poterci riuscire, di essere in grado di chiedere dei soldi. Con qualunque altro estraneo ne sarebbe stata capace, magari inventando una storia strappalacrime, ma con quella donna … Con lei non ha voluto mostrarsi com’è in realtà: in fuga, solitaria. Forse allo sbando. Cerca il parcheggio, il flusso costante dei viaggiatori che si fermano e ripartono. Si proietta nella vita di ognuno di loro: mogli, fidanzate, donne in cerca di un approdo. Prova a captare qualcosa delle loro vite per riempire i buchi della sua. Quasi non si accorge della mano che le batte sulla spalla, spingendola a voltarsi. È una delle ragazze che lavorano lì,  ha un cappello con una visiera rossa. In un altro momento ne avrebbe voluto uno uguale a quello.
“Da parte di quella donna”.
Indica la fila dei tavolini mentre le tende un biglietto stropicciato da cinquanta. Si tratta solo di carta ma nella vita non conta molto di più. Serena annuisce, mentre all’interno è attraversata da un sussulto. È  felice di non vedere la sua espressione in quel momento: scoperta, infantile. Cerca la donna, ma non è più al tavolino. Si guarda intorno mentre  continua a sentirsi vulnerabile e euforica. Si sente parte del mondo.
La nota nella piazzola di sosta. Sta entrando in un’auto scura, la mano posata sullo sportello. In quel momento si volta. C’è un’altra intermittenza, un incrociarsi di sguardi come in certi film. La donna sorride, di rimando anche Serena. Un attimo dopo è già partita.
Non c’è l’ha fatta ad andare fuori. L’effetto poteva essere troppo immediato, pericoloso: avrebbe dovuto affidarsi alle parole, alla banalità di un ringraziamento. Si sorprende ad alzare la mano in direzione della macchina. La donna non può vederla, la carrozzeria è un’ombra sotto un cielo troppo azzurro, quasi insopportabile. Anche in momenti come questi si può avere paura.
Fuori, si concede un lungo respiro prima di  sedersi al volante e mettere in moto. È di nuovo un ingranaggio che funziona.
But her mother is yelling no
And her daddy has told her to go
But her friends is nowhere to be seen
Now she walks throught her suken dream
To the seat with the clearest wiew

Mormora le parole della canzone con la sensazione di trovarsi proiettata su uno schermo d’argento. La sua vita in questo momento non assomiglia affatto a un film noioso.
Suo padre, sua madre fanno parte dei suoi pensieri più lontani. Sono una parte di passato e di spazio: vivono in un universo freddo fatto di stelle opache.
Come si può pensare che lì possa esserci vita?


Matteo De Chiara, nato a Salerno,  è stato segnalato alla XXII ediz. del premio Calvino.  E’ autore del  romanzo ,Il corridoio delle voci, (La vita felice, Milano) recensito, tra gli altri, su: Radio 105 (bellissimo) e Bookblister(un grande esordio); L'indice dei libri di aprile 2013(l'estrema tensione che promana dalle pagine del romanzo[...] non può non far pensare al Simenon non maigrettiano). È rappresentato dall’Agenzia letteraria Kalama.

Festa, un racconto di Valentina Maini

In principio andavamo in piazza per l’acclamazione una volta alla settimana. Era per noi il giorno di festa. Vi dedicavamo gran parte delle nostre energie e delle nostre attese. Noi uomini indossavamo un completo elegante, appena stirato, scarpe lustre, talvolta una cravatta, noi donne ci preparavamo sin dal primo mattino, studiavamo ogni particolare per apparire luminose, lisce, desiderabili. In principio noi bambini restavamo a casa. In principio la festa non era per noi. Sapevamo che le cose sarebbero cambiate, che era in atto una rivoluzione. Ma aspettavamo in silenzio, potevamo solo immaginare. Noi adulti uscivamo di casa, a braccetto, o mano nella mano, e camminavamo come se splendesse sempre il sole, e se non c’era sole, lasciavamo che la pioggia ci bagnasse, sorridendo, come se si trattasse di un bagno purificatore. Arrivavamo che la piazza era già piena di molta gente come noi, e aspettavamo vicini, stretti, l’inizio della cerimonia. Il proiettore veniva acceso non appena calava il silenzio. Il telone bianco si colorava di una tinta leggermente più scura che i più attenti riuscivano a riconoscere, se non c’era troppa luce, se le condizioni atmosferiche erano favorevoli alla visione. Quel leggero incremento di ombra, quel distacco dal bianco iniziale, indicava che il rito era cominciato.
In principio venivano scelti. In principio erano pochi, pochissimi. Li guardavamo ammirati, talvolta invidiosi, eppure consci del nostro potere su di loro, del nostro assoluto potere su di loro. In qualche modo ci consolava della nostra piccolezza, avevamo l’impressione che ci facesse crescere. Avevamo l’impressione che ci rendesse migliori. Non potevamo sapere chi fossero, fino alla proiezione. A quel punto la loro immagine appariva e finalmente potevamo avere accesso ai loro occhi, alla forma dei loro occhi, al colore e alla grana della pelle, al loro modo di guardare, di guardarci. Soprattutto, potevamo avere accesso all’immagine che essi stessi volevano consegnare a noi, al modo che avevano scelto per presentarsi a noi. Questa era un’immagine immobile, immutabile: infinita. Una sola foto. Una sola foto per dirci chi erano e quale fosse la loro direzione, in che modo avevano scelto di condurre la loro esistenza e perché. Una sola foto per supplicare salvezza. Di fronte a noi si stagliavano sguardi puntati verso l’obiettivo, profili più o meno definiti, espressioni e luci che indicavano un carattere, un umore, un certo modo di osservare il mondo. Questa era la fase dell’esposizione. Nessuno guardava più gli uomini e le donne, minuscoli, sul palco: solo le loro foto esistevano, proiettate sullo schermo che noi fissavamo ipnotizzati, sedotti, come distrutti dalla fame. Non dovevamo fare altro che votare, scegliere a quale sguardo dare fiducia, a quale sguardo credere. A quale fotografia attribuire bellezza. In principio esistevano metri di giudizio, e ad essi dovevamo attenerci tutti. Questi potevano riguardare, per esempio, un certo equilibrio dell’immagine, l’uso proporzionato o originale dei colori, la morale o il messaggio implicito allo scatto, l’oggettiva bellezza o espressività del volto. Non potevamo sapere che presto, questi criteri, avrebbero fallito. Non potevamo immaginare niente. Tutto quello che sapevamo fare era giudicare in base ai principi che ci venivano forniti e che a noi dovevano sembrare eterni. A quel tempo era bello un volto nobile, simmetrico, dalla pelle chiara e dagli occhi a mandorla. A quel tempo era attraente una fotografia composta, dai colori caldi e accesi, in cui ogni contorno fosse definito, senza sfumature. A quel tempo avevamo solo idee certe, senza crepe. Eravamo tutti d’accordo. Non potevamo avere dubbi. La fotografia rimaneva proiettata per tre minuti. Una volta terminati, solo allora, toccava a noi.

In principio non eravamo consapevoli di quanto potessimo ferire. Ci limitavamo ad acclamare o a fischiare o a dare segni di totale indifferenza, cercando di seguire le direttive ufficiali. Forse non ce ne rendemmo mai conto. Le nostre reazioni erano, in ogni caso, civili, si muovevano all’interno di una stretta gamma di risposte possibili. Il nostro giudizio veniva misurato in qualche modo, anche se non ci venne mai spiegato con che strumentazione. Pensavamo si trattasse di un apparecchio sensibile al rumore, al crescere del rumore, all’intensità dei nostri applausi. Pensavamo esistesse un marchingegno capace di misurare quanto ogni suono distasse dal silenzio. Il silenzio era il risultato più temuto. Spesso loro raccontavano che, dal palco, il silenzio assumeva volti spaventosi, dicevano che avrebbero fatto qualsiasi cosa purché qualcuno parlasse, fischiasse, avrebbero preferito un insulto o un’oscenità. Allora pregavano. Pregavano per un applauso, un fischio, un insulto, un’oscenità. Dicevano che non potevamo nemmeno immaginare cosa volesse dire osservare il proprio volto, smisurato, immobile, stagliarsi su una piazza silente. Dicevano che era come una ghigliottina che non cade, che non si decide a cadere. Dicevano che era come vedere la propria testa spaccata, il sangue che esce a fiotti, e non riuscire a morire. Sì, molti di loro dicevano che era come non riuscire a morire. Eppure noi stavamo zitti. Se ci andava, stavamo zitti. Noi donne, e noi uomini, se una fotografia ci sembrava banale, un volto privo di interesse, ordinavamo a noi stessi il silenzio. In principio, infatti, non potevamo avere pietà.

Loro, i pochi, assistevano dal palco all’acclamazione. Una volta mostrate tutte le fotografie, una volta esposte alla piazza per i tre minuti consentiti, si comunicava il verdetto. Loro attendevano schierati, uno a fianco all’altro, la schiena rivolta alla platea. Non esistevano vincitori, ma esisteva un perdente, uno solo. L’addetto poneva la mano sulla spalla di chi era stato scartato. A quel punto la foto del suo volto veniva incollata nel registro bianco, segno che il rito era terminato. A partire da quel momento, di quell’uomo, di quella donna, non si sarebbe più saputo nulla.

Un giorno un uomo raccontò della volta in cui rischiò di essere espulso, la volta in cui per poco la sua foto non venne incollata nel registro bianco. Voleva essere ascoltato, ma noi fingemmo di non sentire. Si mise a sbraitare tra la folla, e noi continuammo a fingere di non ascoltarlo. Ma lo ascoltammo. Diceva che non avremmo mai più dovuto stare zitti. Diceva che il silenzio era la nostra colpa. Diceva che era il nostro silenzio a condannare gli esseri umani all’espulsione. Che anche in futuro, avremmo ucciso stando zitti. Poi il suo volto scomparve tra gli altri poco prima che il rito iniziasse. Noi non rispondemmo.

Col tempo qualcosa cambiava, ma in maniera impercettibile, per noi che vivevamo, che non potevamo fare altro che vivere. Se fosse esistito qualcuno fuori – fuori dalle regole, dalla piazza, dal mondo – se un morto, per esempio, avesse potuto guardarci, si sarebbe accorto di tutto, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto tutto. Forse, allora, avremmo potuto fermare il meccanismo, avremmo potuto per lo meno provarci. Invece noi continuavamo ad andare in piazza per l’acclamazione, continuavamo ad applaudire, rifiutare, decidere, mentre il rito, lentamente, si trasformava. All’inizio pensavamo fosse solo imprecisione. Come se le maglie si stessero allargando, come se qualcuno avesse smussato gli angoli di un procedimento che fino ad allora ci era parso infallibile. La cerimonia era semplicemente meno esatta, i minuti di esposizione variabili, l’ufficialità dei gesti meno conclamata. Tutto era uguale, nulla di sostanziale era mutato. Eppure, sotto i nostri occhi ignari, tutto cominciava a franare.

Fin quando ci dissero che avevamo la possibilità di dire qualunque cosa, che potevamo lasciarci andare. Il comunicato fu trasmesso un giorno di festa come un altro. La voce arrivava da chissà dove, ma parve a tutti noi vicina. Come una specie di passaparola che non giungeva dall’alto, ma intorno, come un consiglio sussurrato all’orecchio. Dimenticate. Dimenticate tutto quello che vi è stato detto. Ci dissero che avevamo molti diritti, e il dovere di esercitarli. Ci dissero di scordare i ritmi, le regole, che potevamo scegliere noi il tempo di esposizione della foto in piazza, che potevamo reagire come volevamo a qualsiasi immagine, ci dissero di abbandonare educazione, parametri di bellezza, che potevamo fare quasi tutto. Noi non ci credemmo. All’inizio continuammo a obbedire. Pensavamo fosse una prova, che ci stessero mettendo alla prova. Pensavamo che ne andasse della nostra vita.

Finché cominciammo a salire sul palco, a esporre le nostre foto. Un giorno qualcuno decise che era venuto il tempo di passare dall’altra parte, di vedere la piazza dal lato dei vincenti. Di assumersi dei rischi, il rischio di sparire, di entrare nel registro bianco e sparire. La prima volta, fu il gesto più straordinario cui avessimo mai assistito. La prima volta fu come l’unica volta, l’unica in cui ci sembrò di guardare una cosa viva. Uno dopo l’altro, quegli uomini e quelle donne salivano sul palco, aggiungendosi ai pochi. Quegli uomini eravamo noi. Quelle donne eravamo noi. Uno dopo l’altro, eravamo noi a salire, prendere il posto che fino ad allora ci era stato negato. Uno dopo l’altro, eravamo noi ad essere guardati.

I nostri volti erano immensi. Eppure tradivano. Le sopracciglia, gli occhi, la grana della pelle, i denti, tradivano. Ci vergognavamo, pregavamo. Affinché nessuno si accorgesse dei disequilibri, delle imperfezioni, di una qualche forma di pudore annidata tra i nostri lineamenti. Non appena la folla mostrava segni di approvazione, il nostro terrore svaniva, la nostra vergogna non era più vergogna, ma orgoglio. Ci sembrava di meritare tutto quell’amore. Se la folla non applaudiva, invece, se non urlava, provavamo a scendere dal palco, a scappare, mescolandoci a tutti gli altri. Era possibile, spesso riuscivamo a farlo. Nel registro bianco i nostri nomi venivano scritti, poi cancellati, modificati. Le nostre foto si staccavano, rimanevano tra le pagine come segnalibri senza importanza. Il registro passava di mano in mano, e ognuno poteva apportare le modifiche di cui aveva bisogno. Pensavamo di non correre più nessun rischio.

I giorni di festa cominciarono ad aumentare. Presto furono più frequenti dei giorni feriali. Non esisteva più una scansione ufficiale, semplicemente ci si recava in piazza in qualsiasi momento, e sempre qualcuno aspettava, e sempre qualcuno esponeva una sua foto. La piazza non era più piena come un tempo, ma lo era sempre. Alla minore densità, si sostituiva una maggiore frequenza, una perfetta distribuzione. Il tempo aveva in qualche moto diluito la cerimonia, trasformando il rito originale in una serie di copie sbiadite in cui i particolari non si riuscivano più a vedere, in cui la piazza era uno spazio dipinto con un colore sfumato, uniforme. Una sostanza perfettamente omogenea, senza grumi, senza ristagni di colore. Priva di qualsiasi ufficialità. L’ingranaggio cominciava a incrinarsi, la sua forza sembrava spegnersi giorno dopo giorno. Non esisteva più una vera e propria cerimonia, ma un insieme di regole approssimative che sembravano appartenere a un tempo lontano. Così, almeno, ci sembrava. Non sapevamo che tutto era illusione. Non sapevamo che proprio dentro a quel caos si celava la forza del rito. Che esso era nato proprio per disperdersi, a poco a poco. Che, seppure ignari, noi stavamo ancora obbedendo.

Il palco diventò presto un’abitudine. Smise quasi di fare paura. Noi bambini ci guadagnammo la possibilità di assistere alla cerimonia e in seguito, a patto che ci sentissimo pronti, di esporre la nostra fotografia. Ci dissero che questo significava crescere. Noi donne accompagnavamo i bambini fino alle scale che portavano verso il proiettore. Noi uomini li aspettavamo, una volta terminata l’esposizione. Noi bambini provavamo soprattutto rabbia. Nessuno dei nostri cuori impazziva, nessuna mano tremava. Cercavamo di sentire l’emozione, di stringere gli occhi e piangere di paura, ma provavamo solo rabbia. Non potevamo raccontarlo, se non con sguardi lanciati da un estremo all’altro della folla. Sapevamo di sentire tutti la stessa assenza, sapevamo di non provare niente, se non la rabbia di non provare niente. Ma col tempo ci abituammo. Capimmo che non potevamo fare nulla, che quello era il nostro destino. Noi bambini, infatti, non potevamo crescere.

Il numero dei proiettori era aumentato, ma ancora non bastava. Escogitammo modi alternativi di esporre le nostre foto. Non importava il tempo, non importava chi ci guardasse, se ci guardasse. Non c’era nemmeno più bisogno di scegliere un solo scatto che ci rappresentasse a pieno. Ormai ogni giorno era festa, e potevamo alternare diverse immagini che giudicavamo le migliori. Se non migliori, belle, se non belle, interessanti, se non interessanti, quanto meno indispensabili. La scelta accurata della nostra foto non ci importava più. Potevamo alternare primi piani a immagini a figura intera, o a fotografie sfocate in cui i nostri tratti potevano scorgersi appena. Eravamo liberi. Eravamo pieni di possibilità. Avevamo bisogno di vedere il nostro viso e di riconoscerci in esso. Avevamo bisogno di uno specchio che potesse restituirci un’immagine accettabile, l’immagine che noi stessi avevamo scelto, forse modificato, forse in parte oscurato. Avevamo bisogno che quell’immagine fosse immobile, che continuasse a guardarci immobile. Di ricordarcene in ogni momento, quando camminavamo, quando mangiavamo, quando cercavamo di addormentarci. Che il nostro volto fosse da qualche parte, sulla terra, ad aspettarci.

Infine fu il caos. Le strategie di esposizione presero il sopravvento e ci trovammo sommersi. La luce dei flash era costante, illuminava ogni cosa distruggendo la notte. Non esistevano più ombra, né buio. Le nostre foto trovavano qualsiasi mezzo per prosperare, qualsiasi strategia per esporsi agli altri, qualsiasi luogo, forma, dimensione. Erano proiettate, stampate, trasferite su materiali di varia natura, materiali preziosi, materiali di scarto, materiali di cui a mala pena conoscevamo il nome. Che fossero o meno adatti, non importava. Le nostre foto cominciarono a non rappresentare più nulla. Tutto quello di cui avevamo bisogno era solo quella misera riproduzione. Qualcuno che dirigesse l’obiettivo verso di noi, qualcuno che lo trasferisse nella realtà. Noi uomini ci occupammo del palco. Non bastava, avevamo bisogno di più spazio. Costruimmo nuovi palchi, vicini a quello principale, attaccati a quello principale, tanto che presto l’originale non si poté più distinguere dagli altri. Noi bambini restavamo bambini, anche se le fotografie sembravano provare il contrario. Noi donne pensavamo che fosse meglio così, che fosse meglio che noi bambini restassimo innocenti per sempre. Noi donne non sapevamo cosa fosse l’innocenza, ma speravamo che i nostri bambini ci avrebbero creduto. Il palco era immenso. Potevamo muoverci sulla sua superficie liberamente. Ci guardavamo, ci incontravamo, uscivamo insieme, allacciavamo delle relazioni, costruivamo case, avevamo altri figli. Per ognuna delle nostre attività, potevamo fornire una prova, la dimostrazione fotografica che quello sguardo, quell’incontro, quell’uscita, quella relazione, quella casa, quel figlio, erano davvero esistiti e sarebbero continuati a esistere per sempre. Al contrario, la nostra mente era vuota. La nostra memoria finita. Non ricordavamo più nulla. Non avevamo bisogno di ricordare più nulla. Se avessimo perso le nostre foto, allora saremmo stati soli al mondo, ma nessuno avrebbe mai potuto accorgersene, in mezzo a tutta quella luce.


Classe 1987, dottoranda in letterature comparate, vivo a Parigi. Ho pubblicato articoli scientifici e alcuni miei racconti sono comparsi su riviste come “Inutile”, “Atti Impuri”, “TerraNullius”, “effe”, “Verde”, la rassegna stampa di Oblique Studio. A giugno uscirà la mia prima raccolta di poesie per la casa editrice Arcipelago Itaca Edizioni, nella collana “Estuari: giovane e nuova poesia italiana” curata da Manuel Cohen. Da poco ho aperto un blog di scrittura e immagini (sillagesblog.wordpress.com).

Un'altra estate, un racconto di Milo Busanelli

Uscire la sera no, stare con gli amici la domenica neanche e il pomeriggio sempre in casa. Vallo a dire a mio padre, il motorino non voleva comprarmelo, una ragione particolare non c’era, se c’era non usciva dalla sua bocca e immaginarla non serviva a niente.
Quattordici anni. Altrove avrei trovato una soluzione, invece a Migliara potevo spostarmi solo in auto coi miei genitori, in corriera per andare a scuola o in sella a un altro motorino se qualcuno fosse stato tanto gentile da propormelo e se i miei non l’avessero saputo.
Pensare che gli altri avevano ricevuto il Fifty 50 appena compiuti gli anni, nulla di nuovo, già giocavano al Sega Mega Drive prima ancora che i miei mi regalassero, dopo tante insistenze, un Master System. Anche i loro genitori dovevano mantenere più figli, solo che sembravano più generosi o, come diceva mio padre, li viziavano.
L’unica alternativa era la bicicletta, una mountain bike a 18 marce che da quando avevo cambiato la Bmx e fino a pochi mesi prima era il nostro mezzo di spostamento. Il ritrovo era il campetto sportivo senza porte della chiesa, tutto zolle e rete metallica accasciata, una groviera di buche dove i cani grufolavano alla ricerca di talpe. Tranne d’inverno almeno funzionava la fontanella che usavamo per fare i gavettoni, ma solo se il prete non c’era, perché la bolletta la pagava la parrocchia.
Quando era bello prendevamo le bici in direzione Marola passando per Boastra e La Svolta, dove mi ero sbucciato un ginocchio più volte, a Casina giù per i tornanti per andare in edicola a comprare The Games Machine e le figurine dei calciatori - di solito loro perché io non avevo un soldo - a Beleo e a Roncroffio con ritorno lungo la Statale passando davanti a Campo dell’Oppio dove abitavano i miei nonni, oppure verso i laghi di Leguigno, anche se non sopportavamo la puzza sotto il naso dei leguignesi, come i nostri genitori dicevano e noi ripetevamo perché lo dicevano loro.
Il ritrovo era sempre lo stesso, e da lì partivano in sgommata impennando, il casco attaccato al manubrio; partivano loro, io rimanevo. Sempre la stessa domanda: cosa aspettavo a prendere un motorino? Dopo qualche settimana non mi feci più vedere.
Avevo smesso la bicicletta perché da solo non ci sarebbe stata la gara a chi arrivava primo in cima alla salita, niente soste a scambiare parole che restavano tra noi e grida in discesa. Spiegalo a mio padre. Spreco di soldi, diceva, e così si allontanava la possibilità che potesse comprarmi qualcos’altro, figurarsi un motorino.
Quello che rimaneva da fare, dal momento che non avevo voglia di studiare, era leggere. Mi chiudevo in camera, la schiena alla porta, davanti un libro di scuola a caso e sopra un classico tipo Hesse, Hemingway o Dostoevskij perché sembrava che solo le cose vecchie fossero importanti. Quando entrava qualcuno, e dico entrare, non bussare, invertivo la posizione, lo facevo appena sentivo qualche passo sospetto intorno alla porta, così che il movimento fosse completo prima che mia madre potesse accorgersi di nulla.
Se l’avessero saputo i miei compagni mi avrebbero dato del secchione e gli insegnanti si sarebbero chiesti come mai leggevo tanto e studiavo poco - una domanda senza risposta. Oppure sì: leggevo perché mi mancava la voglia di studiare, non avevo un motorino, niente ragazza, i giochi del Master System li avevo finiti tutti e nella speranza che il prossimo regalo fosse un Fifty avevo smesso di chiederne altri, così mi avevano regalato maglioni di una o due taglie in più per quando sarei cresciuto.
Meglio se fossero stati di lana e non di acrilico, ma allora mi mettevo quello che diceva mia madre e zitto, era pur sempre una concessione di persone che lavoravano e mantenevano due figli, di cui una, la più brava, all’università. Per questo ero finito a studiare ragioneria: non potevano permettersi un altro liceale che avrebbe iniziato a lavorare chissà quando.
Ci sarebbe stata una sola via di fuga dalle ore di lezione in cui fingevo di ascoltare, dallo zaino tarocco dell’Invicta sul punto di cedere che era stato di mia sorella e prima ancora di chissà chi, dai compiti a casa che eseguivo in fretta o copiavo la mattina dopo, dalle domande di mia madre cui davo le risposte che voleva sentirsi dire e sempre le stesse, dal telegiornale per cena che poteva commentare solo mio padre, dal film per il dopocena scelto sempre da mio padre e dalla buonanotte tra il primo e il secondo tempo perché la sveglia era alle sei e mezza. Si chiamava sabato sera, ma per me era un mondo sconosciuto perché non avevo il motorino e non conoscevo nessuno che avesse la patente, tranne mio padre che non aveva intenzione di farmi da autista perché suo padre non l’aveva mai fatto per lui.
Tra i compagni del sabato sera si creava una complicità diversa che di settimana in settimana divideva e rimescolava i gruppi, ma quando c’ero io si abbassavano le voci; ormai non facevo più domande, preferivo immaginare tutto.
Unico diversivo? La gita di fine anno.
Cercai di spiegare a mio padre che era un viaggio formativo; avremmo visitato musei e gli insegnanti ci tenevano ci fossimo tutti. Ma lui tagliò corto, se volevo formarmi potevo aiutarlo a raccogliere le patate, a fare la legna o a tagliare l’erba.
Quando arrivò l’estate, i miei compagni di classe che già parlavano di vacanze e venerdì sera, smisi di leggere perché c’era caldo, però presi a fare lunghe passeggiate per i campi invasi dalle cavallette. All’inizio aggiravo le nubi brulicanti, tutto stava nel prevederne spostamenti e capricci, avvicinarsi il più possibile e non farsi toccare, quindi tornavo a casa contento e lo ripetevo appena capitava, a volte ci riuscivo, altre volte rischiavo troppo e sentivo pizzicarmi una guancia, lo zampettio sui capelli, il corpo che cozzava contro i jeans.
Tutto sommato era più divertente così, allora pensai di buttarmici in mezzo, coprendomi la faccia e sentendo tutti quegli insetti che mi sbattevano contro, l’obiettivo era raggiungere il bosco in fondo, e quando ci riuscivo non mi sentivo meglio perché avevo fatto solo il mio dovere. Se ci pensavo la sera mi davo dello stupido, ma il giorno dopo, quando non aiutavo mio padre, lo rifacevo.
Era pur sempre meglio che trascinare un pezzo di tronco nel bosco, mio padre a dirmi che ero troppo lento, un fifone perché non avevo il coraggio di salire sul tetto per sistemare le tegole, un imbranato perché non riuscivo a trovare le tenaglie in garage, mi ero rincretinito se non sapevo cosa fosse un podaglio. Eppure mi chiamava sempre, tanto non avevo niente da fare e un giorno avrei dovuto arrangiarmi da solo.
Dopo qualche settimana, quando l’attraversamento mi era venuto a noia, presi a catturare le cavallette e a torturarle in garage, a cronometrare quanto potevano resistere con un chiodo che le passava da parte a parte o sotto la fiamma dell’accendino. Lo trovavo più divertente, la sera andavo a letto tranquillo e quasi non pensavo al motorino.
Poi venne il caldo torrido, ai telegiornali dicevano l’estate più calda degli ultimi vent’anni, ma in casa era vietato lamentarsi, se non riuscivo a dormire potevo sdraiarmi in cantina. Mi svegliavo stanco, non avevo voglia di far niente e nemmeno le cavallette m’interessavano più, ciondolavo agli ordini di mio padre perché ero costretto e una volta presi uno schiaffo perché non ascoltavo.
A metà luglio arrivarono due villeggianti, non capitava da qualche anno, chissà perché proprio a Migliara, per giunta molto carine - diceva mia madre. Ripresi la bicicletta per muovermi veloce e setacciai il paese: le solite curve a metà, i saliscendi, le buche che una volta coperte si riaprivano al primo freddo, le case abbandonate che perdevano pezzi in strada che nessuno raccoglieva, i cani che ringhiavano, facevano per correrti dietro e se capivano che avevi paura provavano a morderti, ma bastava battere i piedi per farli scappare. Mi chiedevo cosa sarebbe successo tra qualche anno, quando tutti questi vecchi sarebbero morti e i loro figli scappati. No, qualcuno sarebbe rimasto, avrebbe prolificato, tra cinquant’anni ci sarebbe stato un altro quattordicenne come me sulla bici del futuro. Ma dal momento che il futuro, qui, non arrivava mai, doveva per forza essere come la mia.
Quanto alle ragazze non chiesi in giro perché mi vergognavo, però ci riprovai il giorno dopo e quello dopo ancora. Le trovai sotto il portico della chiesa, erano loro perché non le avevo mai viste, sedute a gambe incrociate a parlottare, i capelli tinti e i vestiti nuovi come qui non si usava ancora e gli atteggiamenti di chi vuol sembrare grande, ma si capisce che non lo è davvero. Quando mi fermai sul selciato neanche si voltarono, allora finsi indifferenza anch’io, ma non avevo nessuno cui rivolgere la parola e nient’altro da fare, tranne voltare la bici.
Il giorno dopo tornai e loro non c’erano. Però nella strada verso casa ho sentito il rumore, i Fifty che passavano suonando il clacson e le villeggianti sedute dietro. Non aveva importanza perché l’indomani avrei ripreso a leggere.
Invece restai con mio padre dalle sette di mattina fino a sera, per pranzo un panino preparato da mia madre, tanto pane e qualche fetta di salame, tutto il giorno nel bosco per tagliare gli alberi e caricarli sul trattore. Ci fosse stato un cane l’avrei visto correre a caccia di leprotti, ci avrebbe seguiti scodinzolando, l’avrei chiamato se si fosse allontanato troppo, ma un cane andava nutrito e abbaiava, da piccolo ne avevo uno, finché si era mangiato un boccone avvelenato e tanti saluti.
In compenso da casa nostra passavano quelli degli altri, pisciavano contro le piante e via, poi c’erano i gatti selvatici dentro la stalla, ora deposito di assi, scatolame e ferraglia sotto cui si nascondevano e prolificavano, mio padre provava a catturarli, ma ci riusciva solo con i più piccoli, per accopparli usava la zappa e li buttava nel cassonetto, altrimenti ci avrebbero invaso.
Per questo i sopravvissuti ci odiavano tanto e scappavano ogni volta che ci vedevano, per quanto li sfamassi di nascosto con gli avanzi nulla da fare, allora presi a odiarli anch’io, però gli portavo da mangiare lo stesso perché erano così magri e spelacchiati che non avrebbero superato l’inverno. A ognuno di loro avevo dato un nome, finché mio padre disse che dovevo smettere, i gatti randagi non vanno chiamati perché non sono di nessuno.
Quell’estate morì mio nonno, mentre si chinava per raccogliere il portafoglio una vacca gli tirò un calcio. Cose che capitano, dicevano tutti; meglio così che in un letto d’ospedale. Nessuno che sapesse spiegarmi il comportamento dell’animale, eppure il nonno lo trattava come fosse di famiglia. Non feci domande e al funerale assunsi l’espressione seria che avevano i parenti stretti; al momento di chiudere la bara mia madre ebbe un cedimento e mio padre le ordinò di non piangere. Per il resto filò tutto liscio.
Era pacifico che la stalla e le bestie le avremmo vendute, ma era o non era il caso di prendere la nonna con noi? La decisione spettava a mio padre perché la madre era sua, ma avrebbe deciso lui anche se fosse stata la suocera. Non se ne fece niente, lei continuò a vivere per conto proprio perché era ancora in gamba e io ripresi a giocare al Master System che era sempre meglio di niente. Con la scusa del lutto niente vacanze al mare, che tanto erano una perdita di soldi. Passai la seconda metà d’agosto a sperare che la scuola iniziasse il prima possibile, però ero convinto che me ne sarei pentito appena fosse iniziata davvero.
Mai mi sarei aspettato, ai primi di settembre, che mio padre venisse a prendermi a fine giornata dicendo che c’era una sorpresa, sia perché mio padre non riservava sorprese che non fossero fregature, sia perché il tono con cui l’aveva detto e gli atteggiamenti facevano presumere una sorpresa vera, così lo seguii a piedi per le case del paese, fino a quella di Giannino, un vecchio che aveva combattuto la Grande Guerra e fino a dieci anni prima usava il motorino per andare al bar; ora non gli serviva più, e dal momento che mio padre gli aveva fatto qualche lavoretto, se volevamo e se partiva era nostro.
Lì per lì non lo provammo neanche, lo portammo a mano, anzi lo portai io per concessione del genitore, ché poi domani avremmo fatto tutto il possibile per rimetterlo in sesto. Speravo fosse andato, chissà da quanto era fermo, ci fosse stato un solo pezzo da cambiare ero salvo, ma finsi di essere contento e andai a letto presto.
La mattina dopo non ci volle molto, il motorino partì alla seconda pedalata in discesa e mi risolsi a fare un giro per accontentare mio padre, in fondo era pur sempre meglio di una bicicletta, anche se in salita si spegneva e la velocità non era quella di un Fifty. Passai il pomeriggio a lavarlo e alla fine dovetti ammettere che era un brutto arnese, ma meno peggio di quanto temessi.
Il giorno dopo pensai perché no, potevo passare dal campetto, era l’ora in cui s’incontravano, se c’erano bene, altrimenti faceva lo stesso. Loro sì, ma non le villeggianti, tornate in città da qualche giorno, e pure i miei amici stavano per partire, se volevo potevo seguirli, sperando che almeno mi avrebbero aspettato. Era andata bene, nessun commento sul catorcio che mi ritrovavo, così restai in coda per metà paese buono, finché sentimmo lo scoppio. No, non era la gomma, ma intanto si sentiva una puzza e il motorino non c’era verso di farlo ripartire. Gli altri rimasero quei cinque minuti di false speranze, poi si stancarono.
Per mio padre non era colpa del motorino, ero io che l’avevo forzato, che credevo di essere un pilota e guarda cos’avevo combinato, neanche un regalo mi si poteva fare, e aveva sentenziato che bisognava portarlo in discarica e basta, ma l’avrei fatto io, così imparavo.
Almeno mi consolava che l’estate era finita e le lezioni sarebbero riprese tra poco. Inutile chiedere uno zaino nuovo, l’importante era che non cedesse davanti a tutti, quanto al resto mi sarei arrangiato dimenticando i libri a casa o lasciandoli a scuola.
Dovevo andare avanti così e sperare per il meglio.


Milo Busanelli. Reggiano, classe 1981, addetto stampa. Ha realizzato alcuni cortometraggi e scritto tre sceneggiature per lungometraggio, finalista al Riff e al Sonar (dove ha ricevuto una borsa di studio). I suoi racconti sono stati selezionati al concorso 8x8 e pubblicati su inutile, #self, Zibaldoni, Squadernauti, L'Inquieto, Ellin Selae, la stampa di Oblique e Nazione Indiana.

Quali cubi?, un racconto di Elena Marinelli

Girai la chiave nel portone cinque o sei volte: scattava, ma non si apriva. Mentre premevo forte, sperando di riuscire a sbloccarla, evitare di rovistare nella borsa e incappare nei documenti freschi del divorzio, notai sotto la porta, ben incastrato, un numero vecchio di due settimane di Famiglia Cristiana con allegato il cedolino di rinnovo. Controllai il numero civico: era il 24, il mio. Mi piegai carponi, chiusi un occhio per prendere la mira e provai a infilare il tappo di una penna.
«Volete un coltello?», mi interruppe una voce stridula e un po’ rauca, graffiata sul fondo, come di chi non parla da ore. Una signora anziana, con le mani nelle tasche, mi guardava fisso, pulendosi la bocca da qualche briciola di pane. Aveva gli occhi chiari e i capelli bianchi e soffici, una piega sulla fronte nascondeva le rughe più alte. Ci mise qualche secondo per farmi un sorriso.
«È mia. Il postino è nuovo. Lo cambiano ogni sei mesi, ormai. Deve essere questo fatto dei giovani. Al giorno d’oggi li cambiano ogni sei mesi. Lo diceva la televisione. È arrivato prima dell’estate, ma non ha imparato ancora che Famiglia Cristiana è mia. Mi chiamo Teresa; voi, signorina, come vi chiamate?»
«Teresa anche io» dissi.
«E la Famiglia Cristiana non è vostra, vero?»
«No, no, assolutamente no» accorgendomi troppo tardi del mio tono seccato.
«Lo sapevo».
«Non so come fare a prenderla. Tra l’altro non posso entrare in casa perché si è ficcata sotto alla porta».
La signora Teresa non mi stava ascoltando, era fissa a guardare la copertina.
«Secondo voi la recuperiamo?»
«Beh, sì. Troverò il modo per entrare a casa, non si preoccupi. Ma è di due settimane fa».
«Sì, lo so, l’ultimo numero ce l’ho. Però c’è la storia della vita del nuovo Papa. Nell’ultimo numero è già sacerdote, mi manca una puntata. È brutto sapere come va a finire prima del tempo».
«Ma non finisce che diventa Papa?» sghignazzai.
La signora Teresa si accigliò. Tirò fuori le mani dalle tasche e si mise a braccia conserte, piedi giunti, con le caviglie sottili e coperte da collant spessi, l’espressione contrariata.
«Volevo dire che si può recuperare tutto, tanto insomma, la storia è quella. Si sa».
La sua espressione non mutava.
«Quindi si può leggere prima un pezzo e poi un altro».
Infine fece spallucce, sconsolata.
Avevo questa abitudine adolescenziale: fare umorismo sulle cose serie, per attivare la conversazione, per pormi subito come una persona simpatica. Avevo sempre avuto molto più terrore di apparire imbronciata che stupida. Ma questa volta non avevo fatto presa. Mi guardò come avrebbe fatto con una giovinastra puerile e io sentii il bisogno inusuale di rimediare: restituirle la rivista sarebbe diventato un mio preciso impegno.
«Adesso chiamo il padrone di casa e mi faccio dare una mano».
«Grazie. Sentite, signorina, non è che me la portate a casa la mia Famiglia Cristiana? Io tanto qua a fianco sto.»
«Sì, certo».
«Non è che ve lo dovete segnare su quella bell’agendina?»
«No, non c’è bisogno».
«Va bene. Allora arrivederci. Mi raccomando».
Si allontanò piano, passi piccoli e precisi, l’incedere più sicuro sulla sinistra. Si girò una volta sola e mi indicò il balcone accanto al mio. Sorrisi con tutta la credibilità di cui ero capace, ma non abboccò, perché fece di nuovo spallucce.

Quando le riportai la rivista, qualche ora più tardi, mi accolse con sorpresa; mi strappò quasi dalle mani la copia tanto che una mia unghia tagliò il cellofan.
La signora Teresa riceveva tutti in cima alle scale. Le rampe facevano una V; a un certo punto gli ospiti giravano l’angolo e alzavano lo sguardo trovandosela di fronte, con le mani piccole nelle tasche del maglione di lana con le trecce, le pantofole da visita e le calze meno spesse. Le pantofole da visita erano diverse da quelle da notte. Erano fastidiose, premevano sulle dita rattrappite dall’artrosi, le facevano percorrere il corridoio con una insolita fretta. Le ciabatte da notte, invece, stavano ai piedi del letto, erano il ricovero della solitudine; avevano il bordo bruciato dalle scintille del fuoco del camino, un buco su ciascun callo e le suole consumate sullo stesso lato, sull’esterno del piede, dove il peso poggiava.
La signora Teresa era quasi sorda da un orecchio e ci vedeva poco, ma riusciva a riconoscere i suoi ospiti dal modo di suonare il campanello e dal tempo che impiegavano a fare le scale. Suo figlio scampanellava a ripetizione furiosa, almeno cinque o sei volte, un unico verso, sempre lo stesso richiamo. Sua nuora suonava mai: aveva le chiavi, quindi entrava piano e iniziava a chiamarla fin dall’ingresso, vicino al portone, per non spaventarla. Sua nipote aveva imparato il verso del padre. La signora Teresa li avrebbe confusi, se non fosse che la ragazza saliva le scale a due a due e impiegava pochi secondi per balzarle dinnanzi. Io facevo due squilli.
Quando arrivò un postino più preciso, iniziai ad andare a trovarla con altre scuse, per sapere se avesse bisogno di qualcosa. Era sempre risoluta nel dirmi di no, ma a un certo punto cominciò a farmi trovare il caffè pronto sul tavolo della cucina, senza che io lo chiedessi; lo accettavo sempre, perché avevo bisogno di imparare i segreti della sua solitudine. Passavo cinque minuti al giorno con lei, mentre lei mi guardava sorridendo, in piedi, dall’altro lato del tavolo. Ogni volta che entravo in casa stava bevendo un fondo di tazzina di caffè o zuccherava la rimanenza per sua nuora. «A lei piace così», si giustificava quando la trovavo a girare il cucchiaino e a leccare l’ultima goccia, come se la cogliessi in fragrante.

Una sera, mentre mi porgeva la zuccheriera, mi disse con la schiettezza di una persona che non aveva più tempo da perdere: «Signorina, voi siete gentile, ma io non ho bisogno di niente. Avete bisogno voi di qualcosa? Siete sempre qua».
No, in effetti no, non avevo bisogno di niente, e non avevo la capacità di dirle tutto del mio ex marito, del mio ex lavoro, dei miei quasi ex figli, come probabilmente avrebbe fatto lei al mio posto.
«Non conosco ancora nessuno, veramente» abbozzai.
Non passai più da lei per diversi giorni, mi imbarazzava la mia invadenza, ma lei continuava a incuriosirmi e la trovavo alla finestra ogni volta che volevo. Quando desideravo incrociarla, alzavo lo sguardo e Teresa c’era, con lo sfondo del ripiano di una credenza, pieno di libri dalle coste rotte, e un numero di tagliacarte niente affatto esiguo. Ce n’erano alcuni piccoli, altri più grandi, ma tutti con un manico verde sbiadito. Cosa ci faceva con tutti quei tagliacarte alla sua età? Per un attimo, pensai addirittura di andare a chiedergliene in prestito uno, ma ci ripensai.
Una sera, mentre rientravo dall’ufficio, si affacciò di fretta e mi chiamò dal balcone, sporgendosi oltremisura.
«Potete venire a trovarmi, sapete? Dicevo solo che non ho bisogno di niente, ma se vi fa piacere passate pure».
Rimasi con le chiavi in mano per qualche minuto e poi vidi il portone aprirsi, lasciare uno spiraglio grande il giusto per una ciabatta numero 37, non di più. Mi avvicinai.
«Allora salite? Vi faccio il caffè. Ah, poi: secondo me vi è arrivata di nuovo la mia Famiglia Cristiana.»
«Vado a controllare.»
Ricominciai ad andare a trovarla. Mi rendevo conto di quanto le cose che mi diceva fossero tragiche, eppure la massima concessione che si faceva era riempirle di malinconia. Al suo posto io non ne sarei stata capace.
Io non avevo nulla da dirle. Non avevo quel coraggio.
Mi ritrovavo da sola in un paese talmente piccolo da riuscire a sentirmi costantemente osservata, l’unico momento della giornata in cui mi trovavo a mio agio era il tempo che trascorrevo a casa di una donna semisconosciuta, che non aveva la paura di raccontare i suoi dolori. La invidiavo. Finì che non riuscii a fare a meno di andare a trovarla, le facevo raccontare ogni sera qualcosa di diverso. E più mi divertivo, più ridevo, più lei incalzava il racconto, infilava particolari su particolari come in un rosario. Mi rasserenava. Avevo imparato a riconoscere quando era più irritabile o stanca, a seconda della storia.

Nell’ultimo periodo la trovavo spesso accigliata, davanti al camino acceso a fissare le scintille, perché Mariella, l’altra vicina, la incolpava di una perdita in cantina. La signora Teresa sosteneva che era colpa dell’asfalto del marciapiede che non drenava e del Comune che non aggiustava mai niente; l’altra, invece, diceva che perdeva qualcosa in casa. A volte capitava che le sentissi litigare anche io.
«È vecchia, sono vecchi i tubi! Chiamate l’idraulico!»
«Quali cubi?»
«I tubi! I tubi! Chiamate un idraulico, signora Teresa, lo vedete come ve lo dico? Sennò lo chiamo io e lo pagate voi! Sono due mesi che vi dico che c’è la muffa in casa mia, signora Teresa! E voi niente!»
La signora Teresa rientrava in casa sussurrando «Quali cubi?» e stava zitta per qualche minuto, mortificata.
«Cosa c’entrano i cubi secondo voi?» mi chiese una sera, tutta agitata.
«I cubi?»
«Sì. I cubi».
«No, signora, i tubi. I tu-bi».
«I tubi dell’acqua? Perché, perdono i tubi? E da quando? Non ha mai perso un tubo in questa casa. Abbiamo fatto il bagno prima di tutti noi, abbiamo un bagno che mio marito aveva fatto arrivare apposta! E a quei tempi il bagno ce lo avevamo solo noi! Ve l’ho mai detta la storia del bagno?»
«No, signora. Mai».
Mi raccontò per la prima volta di suo marito, senza dire niente del bagno, lo nominò solo di striscio per il tempo necessario a farle accapponare la pelle. Mi disse di come si erano scritti in guerra e di come si erano incontrati in paese. E di come morì in sei mesi. E di come rimase da sola. Un giorno andava a prendere sua nipote davanti a scuola, quello dopo era a letto con una flebo, e quello dopo ancora iniziava le trasfusioni; dopo sei mesi esatti inaugurarono la cappella di famiglia al cimitero. Dopo poco, fu la volta di sua cognata: la trovarono faccia nel latte della colazione, con mezza tapparella della cucina alzata e i biscotti pronti da inzuppare. Per terzo toccò a suo fratello, quello più piccolo e lontano, investito da un motorino davanti a tutti: le arrivarono condoglianze da chiunque, non c’era stato bisogno nemmeno dei manifesti. E infine a sua figlia, a cui la signora Teresa fu costretta a regalare il suo loculo nella cappella.
Ci interruppe il telefono. Sentii solo i suoi «Sì, va bene», e poi «Va bene, domani».
L’apparecchio era vicino al divano del vecchio studio da geometra di suo marito. Quando riattaccava, la signora Teresa si sedeva per almeno due minuti e guardava la scrivania. Ogni volta. Si stendeva sullo schienale, accarezzando il posto accanto, prima piano, poi con le unghie; si ritrovava, dopo qualche minuto, a colpire la pelle come se invitasse qualcuno a sedersi.
Mi affacciai alla porta.
«Ah, scusate! Era mio figlio al telefono. Domani viene l’idraulico». Poi aggiunse: «Vi ho mai raccontato di Mariella?», mentre si rattrappì nello scialle, con le ossa ricurve, come se aspettasse un abbraccio.
«No, signora. Mai».
«Quando litigammo la prima volta è stato per suo figlio piccolo, scostumato come il padre. Una volta lo sgridai io e lei non me lo perdonò per un bel po’. Mi aveva rotto una finestra della camera con il pallone e passammo tre giorni al freddo, io e mio marito. Dopo qualche mese, arrivò zitta zitta e salì in casa con in mano una cesta di fichi appena colti. Piangeva. Poi il marito la lasciò e lei iniziò a venirmi a trovare tutte le sere. Si sedeva accanto al camino, su una sediolina piccola, faceva la calza. Voi ce l’avete un’amica con cui potete non dire niente?»
«No.»
«Dovreste. Io e Mariella siamo diventate amiche senza dire una parola per mesi. Stava lì come fosse a casa sua. Si grattava la gamba, contava le maglie e non tirava mai su lo sguardo. Poi, dopo un paio d’ore, guardava l’orologio alla parete, e andava via. Ma non era contenta, si vedeva. Così le offrivo qualcosa per farla rimanere un altro po’».
«E poi?»
«È arrivato il secondo marito, ma non si sono sposati. Un altro bel soggetto. Le dissi che gli uomini erano un problema grosso per lei e si offese. E di nuovo non mi parlò più. Quello lì, se possibile, era peggio di quello di prima: mi svegliavo con le bestemmie! Ma è stata Mariella a lasciarlo e io ne fui contenta, non lo meritava un marito senza grazia di Dio. Dopo questo fatto, ricominciò a venire da me solo un paio di volte a settimana. Mi faceva compagnia, mentre guardavo la televisione o leggevo. Lei fissava il fuoco, lo attizzava, poi andava via».
«E poi?»
«Non so. Forse sono diventata vecchia».
Lo disse quasi sottovoce: la doppia c le aveva inarcato le labbra verso il basso e la a le si strozzò in gola, sperando di rintracciare la benevolenza e la generosità di una volta.
«Mi ha urlato contro: “Siete una testarda, signora Teresa. La vostra casa è vecchia! Vecchia!” Ha detto proprio così. E poi “Vecchia! Vecchia che non siete altro!” Era arrabbiata con me. Ma io che le ho fatto?»
Fece un’altra pausa, si riempì il bicchiere d’acqua e mi guardò per qualche minuto. Stava pensando a qualcosa da dirmi, stava decidendo se tenerla per sé ancora per un po’, mentre si girava il bicchiere nella mano e guardava sulla mensola di fronte dove c’era una sola foto, piccola e dal contorno seghettato, di una bambina con le trecce.
«Chi è?»
«Mia figlia.»
«E adesso dov’è?»
Sospirò. Scolò il bicchiere. Non rispose.
«E così quello domani mi viene a rompere il bagno».
Le presi la mano; aveva le dita fini e rugose, ma il dorso liscio. Le luccicavano gli occhi. Le feci una carezza.
«Può succedere che si rompa qualcosa, non è niente».
«Non sempre, sapete?»
Le tremavano le labbra, prese il fazzoletto dalla manica e si asciugò gli occhi. Non aggiunse altro, io non chiesi più.
«Domani non lavoro. Vuole che stia qui con lei mentre c’è l’idraulico?»
«Dovrebbe venire mio figlio. Ma deve prendere un permesso. Voi potete alle nove?»

L’indomani arrivai mentre gli apriva la porta. Rimase qualche secondo a guardare tutto così com’era e io un passo indietro, per non disturbare: le piastrelle color crema, le ceramiche del lavandino e della doccia, ancora bianche quasi come il primo giorno, poi il bidet, su cui si sedette per un minuto, mentre accarezzava il bordo. L’idraulico si accovacciò con gli attrezzi, toccò piano il perimetro della mattonella vicino allo scarico della doccia, e cominciò a martellare dolcemente, ogni tanto un colpo più secco. Al terzo la signora Teresa si alzò e mi venne vicino, più veloce del solito. Nelle sue intenzioni, stava scappando. Mi avvicinai e la presi per un braccio. L’idraulico iniziò a crepare la ceramica, uno spigolo alla volta, i nostri battiti seguivano quelli dello scalpello. La signora Teresa mi rivolgeva lo sguardo e io la ricambiavo sorridendo, ma non funzionava. Non avevo mai visto i suoi occhi così tristi e pieni. Era un racconto, quello, che portava un’eredità logora, e io potevo solo coglierne le sfumature. Mi sentivo il piccolo spettatore di una confessione a cui non sapevo dare un nome, ma di cui sentivo l’oppressione. Socchiuse la bocca, come per espirare, come per dire la prima parola, e io l’attesi per un tempo che mi parve lunghissimo, ma poi si arrese: chiuse gli occhi e si appoggiò al mio braccio.
«Signora Teresa, tutto a posto?», le sussurrai sulla testa.
«Andiamo di là e vi faccio il caffè», mi disse veloce, asciugandosi gli occhi con il solito fazzoletto ricamato, tirato fuori dalla manica del maglione. «Vi devo raccontare la storia di questo bagno».



Ho trentatré anni, sono nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da qualche anno abito a Milano. Sono sempre informatissima sui percorsi delle autolinee urbane.
Di solito, dormo nel posto più vicino alla porta.
Ho scritto di tennis per L'Ultimo Uomo, di cinema e serie tv per Gli 88 folli e sono stata ospite diAbbiamo le prove. A ottobre 2015 esce Il terzo incomodo per Baldini&Castoldi.

elenamarinelli.it

Perielio, un racconto di Lorenzo Pedrazzi

Mia sorella Giorgia era tornata a casa da un paio di settimane quando la Cometa Hale-Bopp raggiunse il perielio, nella primavera del '97. I telegiornali dicevano che il perielio era la distanza minima di un corpo celeste dal Sole, e poi mostravano fotografie della cometa scattate attraverso i telescopi, seguite immancabilmente da rozze animazioni elettroniche della sua traiettoria spaziale. Sembrava che all'improvviso tutti avessero scoperto le gioie dell'osservazione astronomica.
Io la vidi per la prima volta all'imbrunire, mentre tornavo a casa con mia madre dopo aver fatto la spesa, percorrendo via Altamura. Era una specie di proiettile argenteo che feriva il manto bluastro del cielo, ma con i contorni sfumati e una piccola coda evanescente. La indicai a mia madre che alzò lo sguardo, strinse un poco gli occhi e annuì con l'aria assente di chi ha ben altri pensieri per la testa. È probabile che quei pensieri fossero rivolti a mia sorella, alla sua espressione sempre accigliata e al velo sottilissimo di lacrime che aveva sugli occhi, o al fatto che trascorresse tutto il suo tempo a letto, in silenzio, spesso con la faccia premuta sul cuscino. Era così da quando aveva lasciato l'università. Mamma diceva che non stava bene, e che dovevamo avere pazienza. Eppure, non era facile abituarsi al senso di vuoto che Giorgia si trascinava dietro in ogni stanza, risucchiandone ogni minimo suono non appena vi metteva piede. Io e mia madre ci zittivamo all’improvviso, come se qualcuno avesse spento un interruttore. Aspettavamo semplicemente che se ne andasse. Così, tutti i pranzi e tutte le cene erano gravati da un silenzio spaventoso, turbato soltanto dal gelido stridore delle posate sui piatti.
Svoltando a destra in via Abbiati, dove abitavamo, Hale-Bopp rimase alle nostre spalle, e ci seguì finché non entrammo nel cancello del nostro condominio: una palazzina popolare con l'intonaco cadente, come la buccia di un frutto troppo maturo. Il cortile era lungo e stretto, suddiviso in tre aiuole circondate da vialetti in cemento grigio, e la cometa faticava a farsi strada tra le fronde degli alberi e il riverbero dei lampioni. Nel cielo che andava incupendosi sembrava persino più pallida. Dalla finestra di casa (abitavamo al pianterreno) non la si vedeva nemmeno più.

Giorgia era raggomitolata sul divano, quando rientrammo. I capelli raccolti sul capo le ricadevano in filamenti sottili davanti al viso, mentre nelle orecchie aveva un paio di auricolari che le pompavano in testa una musica indecifrabile, ma abbastanza alta da risuonare all'esterno come il ronzio stridulo di un insetto. Indossava una felpa Walls troppo larga, grigia, sormontata da un cappuccio dello stesso colore, da cui pendevano due cordicelle di cotone che terminavano in un nodo compatto; la cordicella destra disegnava una curva ripida verso l'alto fino a sparire tra le sue labbra, e lei ne mordeva l'estremità con spasmi frenetici della mandibola. Si raddrizzò, la fronte increspata, e mi sfiorò con quei suoi occhi caliginosi. Io accennai un saluto che mi uscì dalla bocca senza troppa convinzione, accompagnato da un gesto della mano talmente repentino da apparire casuale. Lei mi rispose con una specie di grugnito, poi si alzò e andò a rifugiarsi in camera sua, le mani affondate nelle tasche della felpa, da cui emergeva il rigonfiamento grottesco del walkman. La mamma, che cercava di non starle troppo addosso, si limitò a seguirla con lo sguardo mentre ciondolava verso la sua stanza, strascicando le ciabatte sul pavimento.
A cena, Giorgia mangiò con gli occhi incollati al piatto, lentamente, mentre io tenevo sulle ginocchia un libro di astronomia pieno d'illustrazioni delle galassie e del moto dei pianeti attorno al Sole: me lo aveva regalato lei per il mio decimo compleanno, e sulla prima pagina, con quella grafia da ragazzina che l'avrebbe accompagnata fino all'età adulta, aveva scritto che quel libro era la mia navicella spaziale per esplorare le stelle.
«Stai attento a non sporcarlo» mi disse la mamma. Giorgia, con una specie di riflesso pavloviano, lanciò un'occhiatina alla pagina che stavo sfogliando, socchiudendo lievemente le palpebre come per focalizzarla meglio. La pagina era tutta dedicata alla Cometa di Halley, che aveva solcato i nostri cieli quand'ero ancora molto piccolo.
«Dopo posso uscire a vedere la cometa?» chiesi alla mamma.  Lei inarcò le sopracciglia, come faceva sempre quando le balenava in testa qualcosa, e poi trasse un lungo sospiro, accennando con il mento a mia sorella: «Va bene» disse, «ma non da solo. Fatti accompagnare da Giorgia.»
Se il silenzio avesse avuto una manifestazione fisica percepibile, delimitata da contorni precisi, sarebbe stato un velo che si posa gradualmente dall'alto, ondeggiando nell'aria, e le nostre teste ne sarebbero state ricoperte come da un sudario.
Giorgia non rispose, non sollevò nemmeno gli occhi dal piatto; solo, la sua fronte divenne ancora più rigida e corrucciata, e i capelli le scivolarono sugli occhi come i lembi di una tenda.
«Fa niente» mormorai dopo qualche secondo. «La guardo dalla finestra.» Mentii perché dal pianterreno non si vedeva un accidente.
Da quel momento in poi, nessuno aprì bocca, se non per mangiare: gli unici suoni furono il tintinnio delle forchette e il fruscio discreto del mio libro. Però, di tanto in tanto, coglievo Giorgia che sbirciava tra le pagine, e ogni volta le piccole rughe attorno agli occhi parevano rilassarsi per un istante, tratteggiandole sul viso un'espressione che non potevo certo definire serena, ma aveva comunque una parvenza di normalità.
Dopo cena, invece di sparire in camera sua come al solito, rimase a gironzolare in soggiorno, mentre io aiutavo mia madre a sparecchiare la tavola. Nascondeva sempre le mani nella tasche della felpa, e continuava a masticare la cordicella del cappuccio. A vederla così inquieta, perennemente fuori posto, con gli occhi che vagavano dal pavimento alla televisione senza una logica apparente, sembrava fosse in attesa del momento giusto per fare o dire qualcosa, e che si crogiolasse nella ricerca delle parole o dei gesti più adatti. Quando andai alla finestra e mi sporsi sul davanzale per scorgere almeno il bagliore periferico della cometa, lei mi sfiorò una spalla con la mano, e io mi girai a guardarla con la bocca semiaperta e gli occhi spalancati per la sorpresa: era difficile che cercasse un contatto fisico con me o con nostra madre.
«Dai» mi disse a fior di labbra, ritirando la mano nella tasca. «Usciamo.»

In cortile non c'era traccia di alcuna presenza umana. I gatti randagi correvano silenziosi tra i cespugli, trovando rifugio nelle ombre della sera. Alcune finestre, sparse qui e là come le caselle di un cruciverba, emanavano le radiazioni azzurrognole degli schermi televisivi, vibrando al ritmo sincopato delle loro immagini. Io trotterellavo davanti a Giorgia, in cerca di un angolino dove piazzarmi con il mio telescopio. In realtà, quello che chiamavo telescopio era soltanto un piccolo cannocchiale rosso con un ridicolo treppiedi di plastica, sottile come le zampe di un ragno. I limiti tecnici del mio equipaggiamento non m'impedivano, però, di trarne alcune piacevoli soddisfazioni, come quando lo puntai per la prima volta contro la Luna, e potei osservare il bordo frastagliato dei suoi crateri.
Stretta nella felpa, la cordicella sempre in bocca, Giorgia mi seguiva con discrezione, ma credo che ogni passo le costasse una fatica sovrumana. La luce impietosa dei lampioni le deformava il viso in una maschera di chiaroscuri, facendo brillare lo strato di umidità che le ricopriva gli occhi. «Si vede poco» dissi con lo sguardo rivolto al cielo, e lei alzò la testa nella stessa direzione.
La cometa era una macchia biancastra diluita nel riverbero delle luci artificiali, sfigurata dai rami degli alberi, e circondata da poche stelle che pulsavano appena. «C'è troppa luce» conclusi. «Troppi alberi.»
Giorgia annuì, poi abbassò gli occhi e prese a scrutare le punte delle sue scarpe da tennis, che scavavano piccole buche nella ghiaia del cortile.
«Andiamo sul retro?» proposi.
Lei scrollò le spalle.
Sul retro del nostro palazzo c'era un altro cortile simile a quello principale, ma privo di lampioni e completamente ricoperto di asfalto, con solo un paio di alberi al centro. Era brutto a vedersi, ma ci si poteva giocare a pallone senza che il custode si lamentasse, e poi di notte era abbastanza buio da mettere in risalto la luce delle stelle. Io e Giorgia camminammo fino a raggiungere il fianco destro dell'edificio, girammo l'angolo e oltrepassammo il cancelletto che divideva i due cortili, preannunciato da un piccolo santuario con una Madonnina di ceramica. Era incorniciata da un neon blu talmente luminoso da indurre visioni mariane anche nel più combattivo dei miscredenti.
Ci chiudemmo il cancelletto alle spalle, e il cortile sul retro ci apparve come una grande massa scura, interrotta dalle luci che provenivano dalle finestre del condominio. «Mettiamoci al centro» dissi, indicando un punto indefinito nel buio. Con cautela, misurando ogni passo, mi spostai in mezzo al cortile, e sentii che Giorgia mi seguiva trascinando le scarpe sull'asfalto. «Non... non si vede niente» sussurrò, ma senza fermarsi.
«Meglio.»
Mi fermai, alzai lo sguardo verso il cielo e glielo indicai, anche se il mio dito era soltanto una sagoma dai contorni confusi. «Visto che roba?»
Era come osservare le stelle dal fondo di un pozzo. Il buio attorno a noi le aveva corteggiate, riaccese, moltiplicate, e la cometa non era mai stata così sfavillante. Potevo anche fare a meno del telescopio, preferivo guardarle a occhio nudo. Così mi sdraiai sull'asfalto perché mi stava venendo il torcicollo.
«Vieni anche tu» dissi.
«Ti farai male» fece lei.
«Lo sai fra quanto tempo tornerà da noi?»
«Cosa, la cometa?»
«2.400 anni. È un sacco di tempo.»
«Ah. Non lo sapevo.»
«Dai, vieni anche tu.»
Giorgia sospirò in modo strano, come se l'estremità tondeggiante del cordino le fosse riaffiorata tra le labbra e avesse ostacolato l'emissione dell'aria; poi, lentamente, si adagiò per terra, di fianco a me, e potei scorgere il suo profilo: somigliava a una catena montuosa nell'orizzonte notturno. Il rigonfiamento della felpa, all'altezza del ventre, si alzava e abbassava con affanno.
«Però, duemilaquattrocento anni...» disse.
Pronunciò la cifra scandendo ogni singola lettera, appesantendone il suono. Sul momento non ci feci caso, ma ora credo che si sentisse in soggezione davanti all'immensità di quell'arco temporale, come se tutti i suoi problemi, in confronto, non fossero nient'altro che una scheggia microscopica conficcata nel piede di un titano. Io le dissi che per quell'epoca probabilmente avremo abbandonato la Terra, e avremo trovato il modo di viaggiare da una stella all'altra. Poi le raccontai che la coda delle comete appare solo quando si avvicinano al Sole, perché il suo calore ne fa evaporare in una scia gli strati di ghiaccio più superficiali, e le dissi che tutte quelle cose le avevo imparate dal libro che mi aveva regalato lei. Sentii che tirò su col naso, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Ruotai la testa verso di lei, saggiando la durezza dell'asfalto sulla nuca, e restai così per qualche istante, a guardarla.
Dopo un po’, incoraggiato dal buio, le domandai con un filo di voce: «Perché sei sempre triste?»
Lei emise un altro sospiro, più ruvido e breve, che le si arrampicò sulla superficie della gola per poi emergere con fatica tra la stretta fessura delle labbra. Non disse nulla per almeno un minuto, durante il quale io ripresi a osservare la cometa, un po' a disagio, come se la mia domanda fosse rimasta lì, nell'aria sopra le nostre teste, simile a uno spettro che ci spiasse dall'alto. Infine, con uno sforzo che mi parve disperato, mormorò: «Non lo so. Non riesco a essere qualcosa di diverso. Non riesco… »
S'interruppe. La sua mandibola ebbe uno spasmo improvviso, e ricominciò a torturare il cordino. Il respiro divenne ancora più affannoso, quasi frenetico. In quel momento, mi ricordai di una cosa che mia madre faceva sempre quando ero agitato per un'interrogazione, o perché dovevo fare un esame del sangue, o perché dovevo esibirmi nella recita scolastica di fine anno. Aveva sempre funzionato.
Allungai una mano per prendere quella di Giorgia, pescandola dalla tasca destra della sua felpa. Gliela strinsi, l'appoggiai sulla mia pancia. Le feci sentire il ritmo del mio respiro, tranquillo, regolare, cadenzato. Le dettai il tempo come un direttore d'orchestra. La sua mano era poco più grande della mia, e non avevo difficoltà a mantenere la presa, anche perché lei me la stringeva a sua volta. Le nostre mani bianche, immobili, pulsanti del sangue che scorreva, a dispetto di tutto, sotto la pelle.
Duemilaquattrocento anni di attesa, e avanti così, fino al collasso del Sole.
Io e Giorgia cominciammo a respirare insieme, mentre il brusio di un televisore risuonava da lontano, il terreno s'inumidiva nel fresco della sera, e la luce della cometa dialogava con il bagliore lattescente delle stelle.


Mi chiamo Lorenzo Pedrazzi, ho 30 anni e sono nato a Milano. Ho studiato Scienze dei Beni Culturali e Scienze dello Spettacolo all’Università degli Studi, e lavoro nel campo del giornalismo cinematografico: dopo quattro anni come caporedattore di Spaziofilm, sono passato a Screenweek, dove scrivo soprattutto di cinema e serie tv; collaboro inoltre con Filmidee e altre riviste on-line. Durante l’università ho frequentato un seminario di scrittura creativa, muovendo i primi passi nei concorsi letterari. Ho pubblicato il mio primo racconto nel 2006, all’interno della raccolta Nuovi Autori Science-Fiction, mentre altri miei testi sono apparsi in ulteriori antologie o riviste letterarie, tra cui due edizioni di Giallomilanese e il libro 2007-2027: Come siamo, come saremo?, uscito insieme al film I figli degli uomini.

Senza sangue, un racconto di Fabio Gaccioli

Giulia dice che le sembra di non aver mai fumato cosi tanto come in questo periodo. Dice che il vizio del fumo non l'ha mai percepito in modo così violento come in questo periodo. Un vizio schifoso. La cosa peggiore è che le sembra di avere perso la capacità di distinguere gli odori o i gusti. Sta tentando di spiegargli che, per come la vede lei, avere olfatto e gusto anestetizzati è un po’ come ritrovarsi in balia degli eventi.

"Perché se io non sono nemmeno libera di sentire gli odori che mi stanno intorno, ad esempio, come faccio a sapere se vivo nello sporco o no?"

Lui guarda la sveglia sul comodino. La mezzanotte è passata da un po’ e gli è salito un gran sonno. Vorrebbe riuscire una volta tanto ad addormentarsi prima delle tre di notte. Sa che tra poco comincerà a salirgli la chimica, e a quel punto gli toccherà alzarsi e andare in cucina per tentare di mettere insieme qualcosa preso tra frigorifero e dispensa. Tra l'altro non sa nemmeno cosa possa essere avanzato. Hanno campato per una settimana facendosi fuori la roba che sono riusciti a portarsi via dalla casa dei genitori di Giulia. Ma a occhio e croce, ormai, dovrebbe essere finita anche quella. 

 

Si sta mordicchiando una pellicina dalle mani. Si lamenta di non avere mai avuto mani cosi brutte come da quando ha cominciato a lavorare al ricovero per anziani. Ci va tre volte a settimana. Il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Dalle cinque del pomeriggio alle dieci di sera. Sono i giorni del cambio biancheria. Arriva un camion dal modenese che porta via la roba sporca. Lei è incaricata di raccoglierla prima che arrivi e prepararla per il trasporto. Poi quando il camion è ripartito deve passare per i piani con il carrello delle pulizie e lavare i pavimenti dei corridoi, i bagni, le stanze degli ospiti.

Lui non sta lavorando. E sono passati ormai quattro mesi dal loro trasferimento. Le prime settimane usciva regolarmente per dei colloqui. Era metodico. Andava all'edicola e comprava il giornale di annunci. In casa, la mattina, mentre Giulia dormiva, seduto al tavolo della cucina sottolineava con una matita quelli che potevano interessargli. Poi prendeva il telefono e fissava gli appuntamenti. Trovò lavoro per qualche settimana con un'agenzia di catering. Servì a tavola a un matrimonio e a un battesimo. Dovette anticipare un quarto della paga per comprarsi l'uniforme: pantaloni neri, camicia bianca, scarpe comode. Adesso quegli indumenti stanno inguantati in una busta di plastica appesi a una gruccia dentro l'armadio.

"E poi non ho capito. Parli delle sigarette, oppure dell'erba?"

"Le sigarette" dice lei, guardandosi il palmo della mano destra. "Sai quanto potremmo risparmiare se smettessimo di fumare tutti e due?"

"No, quanto?"

"Tanto."

"Allora credo proprio che dovresti farlo."

Giulia distende il braccio per intero contro la luce del lampadario. Si osserva la mano. Apre e richiude le dita. Poi l’avvicina e si mette a guardare qualcosa in quei centimetri di pelle tra indice e medio. "Mi si stanno spaccando", geme. Schiocca la lingua e lascia ricadere la mano sulle lenzuola. "Mia madre aveva delle mani bruttissime. Le si rompevano ogni inverno, col freddo, in mezzo alle dita. Dei taglietti senza sangue che la facevano impazzire. I detersivi. Mica si usavano i guanti di gomma all'epoca."

"Le tue mani sono bellissime", prova a rassicurarla lui.

"Non lo so" fa lei. "Non mi viene sonno. Pensavo..." dice.  "Tu li hai sentiti, la notte scorsa?"

"Cosa?"

"I rumori."

"Quali rumori?"

"I soliti rumori."

"I soliti rumori?"

"Sì, dai... quelli che fanno loro."

"Io non ho sentito nulla."

"Bella fatica, tu non senti mai niente."

"Sei tu che senti sempre rumori che non ci sono."

"Ci sono eccome, i rumori."

"E con questo?"

"Che domanda del cazzo."

Gli si toglie di dosso con uno scatto. Si mette sdraiata nella sua parte di letto. Poi si libera dalle coperte con un colpo lasciando ricadere le gambe nude sul copriletto.

"Mi sono perso un passaggio." Dice lui, sollevandosi a sua volta a sedere. "Mi spieghi perché ci siamo messi a litigare?"

"Io non sto litigando". 

"A me sembra esattamente il contrario."

"A te sembrano un sacco di cose che a me non sembrano proprio, ok?"

"Senti" dice lui. Ma non riesce a trovare un seguito ragionevole. Si volta su un fianco. Spegne la sua lampada. Si avvicina al bordo del materasso il più possibile. Così, da questa posizione, percepisce il corpo di Giulia alle sue spalle. Preme sul materasso, inclinandolo leggermente. Immagina i suoi occhi attraverso la lana dei capelli che lo fissano. Dopo qualche attimo la sente muoversi. Sa esattamente quale posizione sta per assumere. Sente una leggera corrente d'aria sotto le coperte e le lenzuola che cominciano a tendersi mentre Giulia s’imbozzola il più possibile, infilando un braccio piegato a V sotto il cuscino. Giulia è capace di restarsene immobile in quella posizione anche per tutta la notte. Immobile. Come un sasso. O un tronco d'albero. Ci sono state notti, ultimamente, in cui al buio è rimasto a guardare quel bozzo: una macchia più scura dell'ombra. Il suono del suo respiro, appena un raschio, si alza da quel fagotto rigido ed è l'unica cosa udibile in tutta la stanza. L'unico suono vivo, se si escludono le auto che passano sulla strada. Certe volte gli viene voglia di strattonarla via da quella posizione, anche con la forza.

Comincia a sentire le palpebre pesanti. Ma è più l'effetto dell'erba che hanno fumato per tutto il pomeriggio che per la stanchezza. Stringe gli occhi e vede palline luminose. Deve essere qualcosa che ha a che fare col sangue. Più stringe più vede queste palline di luce. È come avere un cosmo dietro le palpebre. Il buio non esiste, si dice. È una gran vigliaccata quella che ti raccontano. Il buio non esiste, e il sonno è appena un'intenzione. Serve volontà anche per dormire.

Poi la sente irrigidirsi sotto le lenzuola. Dice, a voce bassa: "Erri, dormi?"

"Sì" risponde lui.

"Lo hai sentito?"

"Cosa?"

"Quella specie di colpo."

"Dormi Giulia, su..."

"Ma lo hai sentito o no?"

"Cosa?"

"Quel colpo. Cazzo, io l'ho sentito. L'ho sentito proprio chiaramente. Una specie di colpo, qua sotto al letto. Cioè, non proprio sotto al letto... giù di sotto, hai capito?"

"Sì, ho capito."

"Ma stai dormendo?"

Si solleva a sedere sistemandosi il cuscino dietro la testa. Accende la lampada dalla sua parte.

Lui resta sdraiato, immobile, con le mani sugli occhi a fare da schermo. Ma sa che è tutto inutile. Sa che ormai hanno perso il sonno.

"Sei troppo nervosa."

"Può darsi" dice lei. Si allunga verso il comodino per accendersi una Kim. Segue con gli occhi la traiettoria del fumo che si dirada. "Devono essere degli zingari."

"Ma chi?"

"Quelli che stanno qua sotto."

"Degli zingari?"

"Esattamente" dice. "Degli zingari. O una cosa così." Dice: "Lo sai che per poco ieri non mi rompo l'osso del collo? Per colpa di questi qua sotto per poco non mi ammazzo..."

Lui si passa lentamente le mani sulla faccia. Si stava abituando all'ombra della stanza, e adesso tutta questa luce gli fa bruciare gli occhi. "Ma di che parli?"

Lo sa benissimo di che sta parlando. Ma non gli sembra il caso di pensarci adesso. Prima o poi si sistemerà anche questa faccenda. Non c'è nessun bisogno di lasciarsi prendere dall'isteria. E poi ha sonno. O almeno, vorrebbe aver sonno. Vorrebbe poter dormire liberamente. Chiudere gli occhi. Chiudere tutto. Dormire.

"È tutto quell'unto sui gradini" continua Giulia, che non ha la minima intenzione di lasciar cadere il discorso. "Sono scivolata mentre salivo le scale. Proprio su uno di quei gradini che usano loro. Era tutto sporco di unto. Per quello sono scivolata. A testa indietro. Per poco non me la spacco, la testa. Hai capito? Mi senti?" E aggiunge: "Che razza di casa è quella dove devo sempre fare attenzione a dove metto i piedi?"

Accende la luce in cucina, apre lo sportello del frigorifero e si piega per guardare all'interno. Gli scomparti sono vuoti, ad eccezione di un pezzo di grana e una busta di plastica con del prosciutto. Ci sono anche due limoni, ma hanno l'aria abbastanza rinsecchita. E poi non saprebbe che farsene di un paio di limoni. Prende il formaggio e il prosciutto e li sistema sul tavolo. Poi da una delle dispense afferra del pane e ne affetta un po’. Affetta anche il prosciutto cercando di mantenere un taglio il più sottile possibile, perché a Giulia piace così, e dispone tutto su due piatti diversi. Delle posate,  qualche tovagliolo di carta; richiude il frigorifero.

Prima di spegnere la luce decide di dare un'occhiata fuori dalla finestra. È una notte umida e la nebbia, bassa, sosta a banchi sotto la luce dei lampioni sulla strada. Da lì può vedere l'incrocio deserto su cui lampeggia la luce arancione del semaforo, l'edicola con le serrande abbassate, il palazzo di fronte con le mura incrostate dai gas di scarico e le finestre mute, la fila di alberi sul marciapiede opposto, la cabina del telefono e, dietro, la vetrina del bar. Apre la finestra e annusa l'aria fredda della notte. Sente sulla faccia la pioggerellina inconsistente di cui è gravida la nebbia. Sopra la sua testa, da qualche parte, dovrebbero esserci delle stelle e una luna.

Barboni che occupano le cantine del suo palazzo. Barboni che a notte fonda entrano ed escono da casa sua. Roba da pazzi. Deve essere successo la settimana in cui il portone è rimasto rotto perché i condomini (e lui tra loro, ovviamente) non hanno pagato la quota.

Barboni che entrano ed escono da casa sua come se niente fosse.

"È normale di questi tempi". Gli è stato detto da qualcuno. "Bisogna portare pazienza. Prima o poi il comune troverà una soluzione".

Richiude la finestra senza decidersi a tornarsene a letto. L'immagine della strada gli ha fatto tornare in mente un sogno che lo perseguita da un po’ di tempo, più o meno da quando si sono trasferiti nella nuova casa.

Si trova su una strada deserta, si sente braccato, e corre. Arrivato a un certo punto della corsa comincia a sentirsi leggero, così leggero da staccarsi dal suolo. Ma proprio quando gli sembra di potersi mettere a volare un uomo senza faccia alle sue spalle allunga il braccio e lo afferra per una caviglia.

L'ultima volta si è svegliato bagnato dal sudore e gli è sembrato di riconoscere un'altra ombra nella stanza, appena più densa del buio e quasi umana. Allora si è voltato verso Giulia che dormiva al suo fianco per scuoterla, avvertirla di qualcosa. Ma si è sentito come paralizzato e alla fine non è riuscito a fare altro che restarsene lì ad ascoltare quel raschio che è il suo respiro da addormentata, incapace di muoversi.             

"Tutto qui?" Giulia abbassa le coperte in un risvolto sulle ginocchia. Ci sistema sopra il piatto e con la forchetta smuove una scaglia di formaggio. Lui si siede sul lato opposto del letto, da dove può guardarla in faccia.

"Domani chiamo l'amministratore del palazzo" fa lui.

"E cosa gli dici?"

"Che abbiamo un problema con quella gente di sotto. Un problema che non ci fa dormire la notte".

"Digli anche dell'unto sui gradini" dice Giulia. "La vuoi sapere la cosa più impressionante? È che non li ho mai nemmeno visti in faccia. Però so che ci sono. Sono là sotto. Magari fanno le stesse cose che facciamo noi, in mezzo a tutti quei topi. Useranno dei materassi per dormire. E poi c'è sempre questa puzza di fritto. Secondo me per cucinare usano le bombole del gas. Ma ti rendi conto? Corriamo il rischio di saltare per aria per colpa loro. Questo glielo devi dire. Devi dirglielo all'amministratore del palazzo che corriamo il rischio di saltare per aria". Poi lascia passare un momento, e gli dice: "Te l'immagini mai?"

"Cosa?"

"Come sia vivere in quelle condizioni." 

"Mai."

"Io sì, invece. Io lo immagino di continuo."

"Non serve a niente”. Spazza via le briciole di pane che gli si sono staccate dalle labbra, e si rende conto di non essere riuscito per niente a colmare quel vuoto che gli si spalanca alla bocca della stomaco verso quest'ora di notte. Avrebbe bisogno di mangiare ancora. E ancora. Fino a scoppiare. Spinge il piatto vuoto sopra le coperte fino al bordo del letto, poi lo cala sul pavimento reggendolo con la punta delle due dita. Si distende completamente. Si volta di schiena e in quella posizione allarga le braccia fino a toccare una gamba di Giulia.

 

 

Risale lungo le coperte tenendole una mano sulla pancia, al di sopra delle lenzuola, fino a sistemarsi con la testa sul suo petto. Può sentire il suo respiro che viene catturato e rilasciato; Giulia solleva e abbassa i suoi seni morbidi, solleticandolo dietro un orecchio. Lui chiude per un attimo gli occhi e si ricorda di quando da bambino si lasciava cullare al suono del phon che una delle sue sorelle usava per asciugarsi i capelli nella stanza da bagno; ripensa al vapore che avvertiva quando passava davanti alla porta - a quell'odore di bagnoschiuma e corpi femminili che esalano il tiepido.

Fa scivolare la mano su uno dei seni di Giulia, sotto la camicia da notte, fino a sentire il capezzolo che gli sfrega il palmo. Guarda nella luce fioca e sfilacciata delle lampade il poster di un gruppo musicale che le piace attaccato sul muro di fronte: raffigura un cavallo dorato dall'ampia criniera sopra un filo teso nel vuoto, con un'asta da equilibrista stretta in bocca. Con l'orecchio appoggiato sul suo petto si sente come scivolare in una specie di apnea. Ascolta la voce di lei articolare frasi di senso compiuto, ma tutto quello che gli arriva è il suono delle parole attutite nel respiro, come se tenesse la testa nel fondo di una vasca da bagno, e ascoltasse il mondo da laggiù. Percorre il cavo tra le cosce e sente sulla mano il ruvido delle mutandine. Apre la mano e la tiene sul suo sesso, per capire se sia umido o no. Lei si volta su un fianco rendendogli impossibile ogni altra manovra. Gli pianta gli occhi negli occhi. Parla. Ma lui non sente. Ha smesso di ascoltare. Rifiuta di ascoltare ancora. Si volta supino. Intreccia le mani sul petto.

Stringe gli occhi fino a farseli lacrimare.


Mi chiamo Fabio Gaccioli. Ho trentotto anni. Vivo in appennino, provincia di Reggio Emilia. Ho compiuto studi teatrali in Danimarca (dove ho vissuto per due anni) e in Italia. Ho lavorato quindici anni come attore in diverse compagnie. Dal 2005 al 2012 mi sono occupato di teatro/ragazzi scrivendo quasi una ventina di testi teatrali e conducendo laboratori nelle scuole. Nel 2012 ho scritto il mio primo spettacolo per adulti dal titolo “In virtù dell’orso” pubblicato dalla rivista “perlascena non-periodico per una drammaturgia dell’oggi”. Nel 2013 ho pubblicato il mio primo libro per i tipi di Aabao Aqu: “Nell’ombra della casa senza luce elettrica” che comprende tre brevi racconti. Lavoro in collaborazione con Collettivo Ansasà (ansasa.jimdo.com) in qualità di drammaturgo, attore e regista.

Ciclopi, un racconto di Manuela Piemonte

Era il primo inverno in cui lavorava nella discoteca, un inverno di venerdì e sabato notte in piedi fino alle sette del mattino, le ore trascorse nel guardaroba senza riscaldamento, a tenere d’occhio centinaia di cappotti e borse battendo i denti, una sciarpa girata dieci volte intorno al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, mentre da sotto saliva l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida, così ogni venerdì e sabato, ormai da due mesi, e quando tutti se ne andavano e ritiravano anche l’ultimo cappotto c’era la gara a far presto, c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina, e pulendoli lei pensava che da lì in poi avrebbe potuto fare tutto, che una volta che pulisci ogni venerdì e ogni sabato un cesso con i segni neri delle impronte delle scarpe sulle mattonelle bianche del pavimento sporco di piscio di decine di sconosciuti, allora non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, e da lì sarà soltanto una salita in alto in alto fino alla luna, e dopo i bagni si passava alla pista da ballo, una pista fatta di assi di legno da cui occorreva staccare lo sporco passando il sapone per decine di metri quadri, prima, e l’acqua, poi, e infine la cera, ché lucidasse, come se la gente di sera in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Era il primo inverno in cui doveva vivere e studiare e laurearsi in una città estranea senza la borsa di studio, senza il lavoro da babysitter, senza alcun sostegno, andando avanti di settimana in settimana con una manciata di soldi da cui accantonare l’affitto, le bollette, la benzina, le spese, e quando poi si riprendeva e recuperava il sonno arretrato, quando il martedì di nuovo usciva di casa all’ora del mattino in cui nel fine settimana era andata a dormire, con in tasca i soldi rimasti andando al mercato si ripeteva come un mantra “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura”, e per necessità mangiava soltanto roba in offerta o sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, fino a quando, tornando il venerdì sera, aveva scoperto che alle cinque e mezzo del mattino un trasportatore lasciava la fornitura di frutta e verdura al supermercato sotto casa, proprio di fronte all’ingresso, dove non c’erano né telecamere né altri apparecchi, e così avevano iniziato, lei e le sue compagne d’appartamento, a tirarsi appresso qualche pezzo di frutta e di verdura, un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata, e nel rubarle avevano comunque l’accortezza di non portarsi via le primizie, a eccezione del giorno in cui ne morivano dalla voglia e si erano prese anche le fragole, e nel portare via quattro pezzi di frutta e verdura semplici, i più comuni, si sentivano ladre sì, ma soltanto al cinquanta per cento.
Era il primo inverno in cui si risvegliava a pomeriggio inoltrato, con l’orologio che segnava le cinque, facendo un calcolo si rendeva conto di aver dormito nove o dieci ore, e sentiva i muscoli tesi dentro le braccia, nei punti forzati per passare il sapone l’acqua il lucidante, e con i muscoli tesi si metteva a preparare un pasto in cui unire colazione pranzo e cena, e quando poi aveva ancora fame, verso le dieci, prima di uscire per tornare alla discoteca, si teneva l’appetito per uno di quei tramezzini che portavano i colleghi, e che da quel momento in poi in un misto di sottilette e maionese, pomodoro e mozzarella, non sarebbe mai più riuscita a mangiare senza sentire uno strano senso di disagio allargarsi dalla bocca alle braccia, come se il corpo reagisse in automatico, ricordando meglio di lei quell’inverno lontano.
Era il primo inverno in cui portava i capelli corti e i pantaloni larghi con le magliette attillate, sempre gli stessi abiti, un trucco invisibile, decisa a ridurre ogni esigenza allo stretto necessario, una verdura e una frutta, una maglia e un pantalone, una coperta e un lenzuolo, un’amica e nessun amante, un pasto al giorno e un caffè la notte, per farsi bella una matita per gli occhi e nient’altro. Così un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro sonno fame, aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda abbassata e i punti socchiusi da cui filtrava la luce del giorno, e se riusciva a vederli tanto bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel loro piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, si preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano anche le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro, un’esondazione. Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate, fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico, chiese l’infermiera all’accettazione e poi da lì come in un lampo ecco si ritrova seduta davanti a un medico che le dice che ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, e se ne dovrà stare per settimane con l’occhio completamente bendato, un po’ pirata un po’ Lady Oscar, mettendo una crema apposita che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare il danno.
Metteva gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non indossarli più. Un paio di occhiali dalla montatura verde, di una marca d’alta moda, pagati grazie al lavoro in un call center dell’estate prima. Occhiali verdi, capelli corti, occhio bendato, e l’altro occhio a compensare coperto da una quantità di trucco, un miscuglio di azzurro e verde, steso fino a ricreare il colore del mare incontaminato, e con l’occhio coperto era costretta a uscire, in un mondo appiattito alla vista, e doveva entrare in università e recarsi a lezione e salutare come se niente fosse quel tipo carino, con i capelli mossi e gli occhi scuri, che già fino a quel momento a lei non si era mai interessato molto e così, con l’occhio da Lady Oscar, arrivò a interessarsi ancora meno.
Tre volte al giorno applicare il disinfettante.
Stendere la pomata sull’occhio.
Riporre la garza e il lungo cerotto tutto attorno per tenerla ben salda.
Ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci per lei che risultava, agli occhi dello Stato, ancora a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così doveva andare con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze eleganti e bellissime, belle come dive, al suo occhio, e riuscì almeno a ottenere di non pulire più il bagno né il pavimento, perché era evidente che nella sua condizione non poteva metterli in ordine a dovere, e non le veniva mai in mente, in quelle lunghe notti immobile al freddo da sola, appoggiata a un vecchio banco rubato da una scuola del quartiere, in bilico su una vecchia sedia traballante, anch’essa rubata dalla scuola del quartiere… ecco immersa lì dentro, con un occhio cieco e la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento, non riusciva nemmeno a immaginarsi un’esistenza diversa né un mondo nuovo, c’erano solo il buio e il silenzio e i conti da far quadrare. Era il primo inverno in cui ha dovuto continuare a vivere con un occhio solo, una vita lunga e felice, tutta intera.


Manuela Piemonte è nata a Milano nel 1978. Lavora come redattrice e traduttrice per l’editoria cartacea e digitale, e scrive per editoria, cinema e teatro. Laureata in Lingue e Letterature Ispanoamericane all’Università La Sapienza di Roma e diplomata in Sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema di Milano, è alumna di Biennale College Teatro e del TorinoFilmLab. I suoi racconti sono stati finalisti e/o vincitori in numerosi premi letterari, e sono apparsi su riviste e in raccolta: Linus, Giallo Mondadori, Subway Edizioni, Subway Tabloid, la serie “Toscana tra Crimini e Misteri” de La Nazione, la rivista letteraria Storie. Garden, il suo primo romanzo, è stato pubblicato in Italia (Mondadori, 2013) e in Spagna (Anaya, 2014) con lo pseudonimo Emma Romero.