Di giorno scompare, un racconto di Emanuela D’Amore

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Io ho ogni giorno un padre diverso. Ma solo di notte. Al mattino scompare.
Sento rumori nel letto, vedo ombre, dico chi è? Mia madre dice tuo padre.
Chi è? Tuo padre.
Mio padre ha i capelli neri, i ricci biondi, la barba rossa, la pelle gialla.
Ma poi di giorno scompare.
Io ho molti padri.

Chiè,mamma?tuopadre.
Mi giro dall’altra parte e riprendo a dormire.

La mattina mia madre mi porta a comprare susine. Andiamo al mercato. Tutti la salutano, tutti conoscono mia madre. Lei cammina avanti con la gonna a fiori corta che va su e giù tra le gambe lisce e sudate. Io le sto dietro con il mio cartoccio di susine e la faccia sporca. A volte mi prende per mano, solo un po’, poi si scoccia. Ma io piaccio a mia madre, lo so.


È da tanto che non piove. I mosconi si impigliano tra le ciglia con le ali azzurre come tutù e in giro c’è odore di carogne. Pure i pesci al fiume salgono a galla perché l’acqua bolle. Gli occhi tondi e liquidi.
Tonino mi è venuto a prendere con la bici. Si ferma davanti al cancello. Fa trillare di continuo il campanello attaccato al manubrio e mia madre si innervosisce. Mi lancia il telecomando in testa, mentre si mette lo smalto sulle unghie dei piedi, in poltrona, coi bigodini tra i capelli, e dice: “Esci, muoviti, ché a questo non lo sopporto più, non so quante volte glielo devo dire!”.
Mentre chiudo la porta, due donne in tivù si tirano i capelli a vicenda. Hanno le unghie laccate come quelle della mia mamma.
Mi siedo sul sedile di dietro della bici e mi aggrappo con una mano alla maglietta sudata di Tonino. Tonino pedala in piedi. Ha le crosticine del sonno sulle ciglia. Odora sempre di Vicks Vaporub, anche d’estate.
Il pomeriggio andiamo a caccia di vipere. Quando ci scocciamo, ci arrampichiamo sugli alberi e succhiamo limoni o ne mastichiamo le foglie. Tonino, mentre li addenta, strizza gli occhi perché sono aspri, e io rido. Certe volte sotto le foglie dei limoni si nascondono pidocchi piccolissimi. Sembrano i punti neri sul naso della maestra.
Se ammazziamo vipere e gliele portiamo, il vecchio che alleva polli dietro al mulino ci dà un uovo fresco. Uno a testa. Gli facciamo un buco e ce lo beviamo. Però, quando sulle uova ci sono incollate le piume del culo delle galline, mi fa schifo e do il mio uovo a Tonino. A Tonino non gli fa schifo niente.
Una volta io e Tonino abbiamo litigato, allora io ho pisciato sui suoi soldatini di carta.
Poi però mi sono sentita in colpa, pure perché lui non smetteva di piangere e se arrivava sua madre, mi cacciava via. Sua madre mi odia. Allora gli ho prestato la testa della mia Barbie preferita. Ce l’ho sempre con me. Ha i capelli tagliati corti. Ogni tanto metto una mano in tasca e infilo un dito nel buco alla base della testa di plastica. Mi rilassa. Tonino l’ha messa nella scatola che tiene sotto al letto, assieme alla plastilina indurita, alle figurine a doppioni, al pettinino di metallo per i pidocchi, alle caramelle d’orzo, ai pezzi di una matriosca, alle MicroMachines e a tutte le cose belle che troviamo in giro. Gli ho detto che di notte, se si sveglia per un incubo, la Barbie può dargli un bacio sulla bocca o sul pisello, tra le lenzuola. Funziona. L’ho visto fare a mia mamma con mio padre, quello biondo, una volta che mi sono svegliata. E lui, prima aveva una faccia accartocciata, come se volesse piangere, ma poi ha sorriso. Non aveva più paura. “Funziona? Pure se mi sogno IT?” ha smesso di piangere. Ho fatto segno di sì con la testa. “E quando te la devo ridare?”.
Ogni tanto se la porta a scuola, vedo il rigonfiamento nella tasca del grembiule.


Tonino fa i compiti in cucina. Sua madre lo controlla e non lo fa uscire se prima non ha finito.
Io sono più fortunata, mia mamma mi fa uscire quando voglio e non mi dà fastidio per i compiti. Però aspetto sempre che mi viene a chiamare lui, perché, se vado io a casa sua, la madre mi guarda con una faccia che mi fa sentire in imbarazzo e devo stare in cucina ad aspettare mentre Tonino, con le gambe ciondoloni, legge e ripete ad alta voce. Sua madre mi guarda male e mi fa mille domande, intanto che asciuga i piatti o frigge le uova con le mani che odorano di candeggina. Il rumore delle stoviglie mi pizzica la pelle.


Quando ero all’asilo mio padre era magro e alto, aveva solo una gamba, sussurrava e respirava tra i capelli di mia madre. Mi faceva il solletico soffiandomi piano sulla pelle. Era un ventilatore. Quando l’ho detto a scuola, per la festa del papà, tutti si sono messi a ridere.
L’anno dopo, mio padre era il segnavento. Era più alto, era cresciuto. Era sul tetto. Era allegro. Girava su se stesso con una risata metallica.
In seconda elementare, in un tema, era la pala eolica sulla collina. Elegante. Robusto. Si era fatto più serio. E se lo volevo abbracciare, le mie mani non si toccavano.
Mio padre si allontanava sempre più da casa mia, nel vento.
Poi si è sbriciolato in tanti coriandoli, spazzati via dal libeccio. È diventato le mani del salumiere, i baffi del bidello, le lenti spesse del maestro di matematica, i gesti affrettati del postino, il nome più lungo del calendario, la preoccupazione del padre di Tonino, quando andiamo al fiume a fare i tuffi.


Com’era bello, prima, quando giocavo nei giardinetti ed ero piccola. Avevo nove anni.
Adesso ho nove anni e un giorno.
Ancora non piove. La vecchia sta impazzendo. È la perpetua.
La perpetua è grassa.
Fa caldo. Il sole non si è ancora rotto e pesa sulla testa.
La perpetua è lenta. Ha le caviglie grosse e nodose. La perpetua è un albero. Dondola quando cammina. Ora si è fermata. Guarda un manifesto per i morti e il sudore le si impiglia tra le ciglia.
Io so leggere, perché ho nove anni e un giorno. Ieri no.
Accanto al manifesto per i morti, è appeso il volantino di un centro estetico e c’è un culo.
Io ho parlato tante volte con Gesù e lui mi ha sempre risposto. Al supermercato, mentre passava l’antiruggine lungo la cancellata di casa sua, quando gonfiava il materassino per il mare o si tagliava le unghie dei piedi in cortile; mentre dava da mangiare ai maiali.
Solo che prima non sapevo che era Gesù.
Gesù cattura gli uccelli con la colla per topi.
Gesù vende frattaglie.


Il parroco stava sgridando una vecchia perché recitava il rosario fuori tempo in chiesa e faceva confondere tutti i fedeli. Tonino era sull’altare. Fa il chierichetto e ogni tanto si mette le dita nel naso. Il rigonfiamento della testa della Barbie sporgeva da sotto la tunica.
Io stavo seduta sulla panca e aspettavo che la lezione del catechismo cominciasse. Avevo sonno.
Poi è entrato Gesù, solo che non lo sapevo ancora che era Gesù. Era solo il mio vicino.
La perpetua gli ha spiegato cosa doveva fare per la Processione del Venerdì Santo. Gli ha detto che, se voleva espiare, lo doveva fare per forza scalzo. Allora ho scoperto che era Gesù.
Le mani della perpetua sono screpolate e quando respira fa rumore.
Ha un’ombra di baffi sul labbro.

Durante la prima confessione, mi invento peccati mano a mano che li racconto. Il parroco strabuzza gli occhi.

Quando avevo la rosolia, sentivo passi girare in tondo oltre la porta. Sembrava che qualcuno stesse giocando alla Bella Lavanderina nel corridoio, davanti alla camera. Forse erano tutti i miei padri. Mia madre in mezzo. Attorno a lei: un occhio storto, un passo zoppo, una testa arruffata dalle lenzuola -bionda, rossa, nera -, la vertigine del girotondo. Da-i-un-ba-cio-a-chi-vuoi-tu.

Cerchiamo vipere dappertutto. Tra gli steccati, nei cespugli, in bocca a un gatto. Sotto le macchine e da un droghiere. Tra le uova di un nido sugli alberi e fra le pietre della ferrovia, controllandole una ad una.
Siamo passati davanti a un cortile e una madre stava tagliando i capelli a una bambina in piedi in una tinozza d’acqua. La bambina sorrideva senza denti e stringeva forte gli occhi. Con le dita afferrava le ciocche che cadevano e se le infilava in tasca. Mi è sembrato di vedere una vipera nel secchio d’acqua, ma era solo il riflesso del sole.
D’un tratto, dall’altro lato della strada, ho visto, ferma sul marciapiede, Maria Cicciobomba che ci fissava premendosi il monopattino contro la pancia.
Il suo sguardo vuoto e stupido ha schiacciato di colpo l’euforia del mio pomeriggio avventuroso. Maria Cicciobomba ci segue sempre da lontano. A volte in classe lecca la colla stick come se fosse un ghiacciolo. È stata lei a portare per prima i pidocchi a scuola. Ora la evitiamo tutti. Sento ancora l’odore di aceto e olio d’oliva sulla testa. Il pettinino di metallo a denti stretti che mi graffia il cuoio capelluto. Rabbrividisco e sposto lo sguardo.

A casa, mia madre con le mani nell’acquaio tasta il fondo del lavabo per cercare qualche posata. Il caffè sta salendo sul fuoco. Ha le calze smagliate.
Dentro la tivù Stanlio si scompiglia i cappelli, perplesso, mentre Ollio si calca sulla testa la bombetta piena di vernice. Mia mamma, di schiena, ride. Le sue spalle fanno su e giù.
Odora di shampoo e sigarette.
Quando piange, di segatura e cartoni umidi.

Al catechismo il prete ha detto che se ci rivolgiamo a Gesù, lui ci aiuta sempre.
Allora io e Tonino siamo andati a bussare alla sua porta. Lui ci ha aperto scalzo e in mutande. Forse si sta esercitando per la processione. Ha stretto gli occhi per metterci bene a fuoco, come se la luce gli desse fastidio. Aveva un brutto odore.
“Ci servirebbe del veleno per topi. Ce l’hai?”.
“A che vi serve?”.
Ho detto la verità, perché tanto Gesù sa e vede tutto.
“Dobbiamo avvelenare un gatto”.
“Mh”. È tornato con una boccetta di vetro e ci ha chiuso la porta in faccia.
Tonino non riusciva a guardarlo. Aveva gli occhi fissi a terra. Dice che si sente in soggezione. “Secondo te sa pure che spio mia cugina mentre si fa il bagno?”.

Maria Cicciobomba aveva un gatto. Io e Tonino gli abbiamo svuotato un flacone di medicine di mia madre e la boccetta del veleno per topi nella ciotola, mescolando tutto ai bocconcini di carne e gelatina. Durante la controra, quando in giro non c’è nessuno, perché vagano, sospesi nel sole cocente, demoni, janare, satiri, blatte giganti e creature soprannaturali. Tonino è uscito dalla finestra, di nascosto. Sua madre durante la controra non lo lascia uscire. Tonino aveva paura.
L’odore di cipolla dei pranzi da poco consumati scivolava dalle tapparelle abbassate per non far entrare il caldo e gli spettri nelle case.
Il gatto ha mangiato ingordo. Si è leccato i baffi e pure il bordo della ciotola. Ci ha guardato coi suoi occhi tondi e avidi. Ci ha fatto le fusa.
Quando il gatto è morto, Maria Cicciobomba non ha pianto. Se l’è portato in giro come se fosse un peluche per qualche giorno sul fondo dello zaino, tra libri, quaderni ad anelli, mozziconi di colori a cera, zollette di zucchero, carte di caramella e penne a sfera. Se n’è accorta la maestra per la puzza e quando ha aperto lo zaino in classe ha dato un urlo.
“Conce’. Concetta!”
Tonino mi ha chiamato sussurrando dal banco di dietro.
“Eh, che c’è?”.
“Secondo te mo andiamo all’inferno?”.
Questa cosa durante la prima confessione al prete non l’ho detta. Tanto Gesù la sa già.
Al catechismo ho scoperto che Gesù è come me. Pure suo padre è nel vento. Anche lui a casa ne ha un altro che dorme con sua madre, però uno solo e di giorno non scompare.


Oggi cerco le vipere da sola, perché Tonino è in punizione. Ha rubato le mutande di sua cugina, quando sono andati a pranzo dagli zii, domenica, e sua mamma le ha trovate sotto al suo cuscino. Tonino mi ha raccontato che una volta si è svegliato di notte per pisciare e ha sentito delle voci basse basse che venivano dalla cucina. Pensava fosse il munaciello, che gli nasconde sempre i calzini e gli soffia nelle orecchie mentre dorme. Si è affacciato per prenderlo con le mani nel sacco, pure se era un po’ spaventato, e invece ha visto sua madre che faceva il rosario nel buio, attaccata alla tv. L’alone bianco del televisore rendeva la sua faccia cadaverica. Dice che l’ha vista come sarà da morta e si è impressionato. Con il viso deforme e svuotato, simile a un nido di vespe che secca al sole. Sullo schermo TeleLourdes. Dopo non riusciva più a dormire.
Tonino dice che sua madre di notte prega per lui, per salvare la sua anima dall’incesto. Io non lo so cos’è l’incesto.
D’un tratto, mentre vago alla ricerca di vipere, dall’altra parte della strada vedo Maria Cicciobomba che sfreccia sul monopattino, respirando con la bocca aperta. All’angolo della via un commesso si ferma sul retro del supermercato con un carrello carico di carta igienica. Maria Cicciobomba mi fissa col suo sguardo spento e inquietante mentre svolta. Sta per andare a sbattere contro la montagna di carta. Io vorrei dirle di stare attenta. Forse perché mi sento in colpa per il suo gatto. Forse è solo perché non voglio andare all’inferno. Mi porto la mano alla bocca per urlare, ma l’angelo seduto sull’insegna della ferramenta mi indica col dito di stare zitta. Ha le penne delle galline sulle spalle.
Maria sbatte contro il carrello e cade facendo una spaccata in aria con la grazia di una ballerina di danza classica. Resta sospesa per un po’ prima di toccare terra, tra i rotoli di carta igienica svolazzante. È leggiadra e aggraziata. Atterra sulle punte. Raccoglie il monopattino. Mi sorride e vola via.

Quando torno a casa trovo mia madre con le mani ammollo nell’acqua fredda, come la Bella Lavanderina. Lava mutande e calze. I denti macchiati di rossetto. Le sue spalle fanno su e giù. Piange, poi si mette a ridere. Piange di nuovo e mi abbraccia, disperata, con le mani che sanno di sapone di Marsiglia sulla mia faccia. Mi butta i polpastrelli negli occhi, le dita tra i capelli.
“Concè, la vuoi una sorellina? La vuoi?”.
No, io voglio un padre.
Poi però ho pensato che la sorellina la potevo barattare, come con le figurine doppioni durante l’intervallo. A Dio piacciono i bambini…Penso alla storia di Isacco, penso a Erode.
Poi però ho pensato che se ci rivolgiamo a Gesù, lui ci aiuta sempre.
L’angelo fuori dalla finestra mi ha fatto l’occhiolino.

Prima che inizi la processione, davanti alla chiesa c’è un gran fermento. I bambini paffuti che fanno gli angeli si sistemano le ali di carta pesta. Salomè fa tintinnare i sonagli della sua gonna sui fianchi. Ha le labbra rosse. C’è vento. Le aureole volano via. San Giovannino le rincorre.
Io cerco Gesù, tra la folla in costume. Finalmente lo trovo. Sta fumando col centurione.
Mi avvicino. “Gesù, te la vuoi sposare a mia mamma?”.
Lui si mette a ridere e dice “Eh sì, Gesù che si sposa Maria Maddalena!”.
Il centurione ride insieme a lui, con una risata cattiva. “Concè, e poi tuo padre che dice? Quello è la turbina di una centrale eolica, poi è cazzo che ci lascia tutti senza corrente!” e schiaccia la sigaretta sotto al sandalo. Ridono.
Mi allontano tra le fiaccole con quegli sghignazzi nelle orecchie. Mi viene da piangere. Il vento si alza. Si sente odore di pioggia e verdure marce nell’aria.

La gente si inizia ad accalcare ai bordi della strada. La processione si muove. La perpetua guida il coro delle vedove piangenti.
Tonino mi corre incontro e mi dice “Tu qua stai? Non ti trovavo più!”.
Non gli rispondo. Dal marciapiede seguo Gesù. Spingo la gente che mi sta davanti. Dribblo le candele alla citronella. Tonino mi viene dietro. Mi chiama.
Quando il Giudeo frusta Gesù, io sorrido.
“Tonì, ce l’hai la Barbie? Dammela!”.
Prendo la Barbie e la tiro in testa al nazzareno. Rimbalza. Gesù si gira e mi guarda confuso. Appena si volta gli lancio un sasso, forte, tra i capelli.
Gesù grida e si porta la mano alla tempia. Gli cade la croce addosso. Il Cireneo lo aiuta. La Veronica con la pezza gli pulisce la tempia. Corro verso di lui e gli butto una vipera sui piedi. Scappo via, mentre tutti gridano nel vento.
Tuona. Inizia a piovere. Finalmente piove.

Quando andrò all’inferno, lo dirò che la vipera era già morta, e che a me bastava un padre, uno soltanto, pure se era falegname, pure se era vecchio, pure se non era il mio, ma che di giorno non scompare.
E li vedrò tutti -i miei padri, Gesù, la perpetua, Tonino, Maria Cicciobomba, il parroco, la mia mamma che ride e piange, l’angelo della ferramenta con la testa della Barbie su un dito, il gatto, la sorellina- fare il girotondo coi forconi attorno a me, mentre mi gratto per la rosolia:
Fai una giravolta
Falla un’altra volta
Guarda in su,
guarda in giù
Da-i-un-ba-cio-a-chi–vuoi-tu!


Emanuela D’Amore è nata nel 1986 in provincia di Salerno. Si è laureata in Archeologia e Storia dell’Arte, si è abilitata all’insegnamento della Storia dell’Arte per la scuola Secondaria di II grado e si è specializzata sul Sostegno. Attualmente lavora come insegnante a Belluno. Ha frequentato il corso di scrittura creativa Lalineascritta di Antonella Cilento.  Alcuni suoi racconti sono comparsi su Toilet, SalernoLetteratura, Il Roma