Girai la chiave nel portone cinque o sei volte: scattava, ma non si apriva. Mentre premevo forte, sperando di riuscire a sbloccarla, evitare di rovistare nella borsa e incappare nei documenti freschi del divorzio, notai sotto la porta, ben incastrato, un numero vecchio di due settimane di Famiglia Cristiana con allegato il cedolino di rinnovo. Controllai il numero civico: era il 24, il mio. Mi piegai carponi, chiusi un occhio per prendere la mira e provai a infilare il tappo di una penna.
«Volete un coltello?», mi interruppe una voce stridula e un po’ rauca, graffiata sul fondo, come di chi non parla da ore. Una signora anziana, con le mani nelle tasche, mi guardava fisso, pulendosi la bocca da qualche briciola di pane. Aveva gli occhi chiari e i capelli bianchi e soffici, una piega sulla fronte nascondeva le rughe più alte. Ci mise qualche secondo per farmi un sorriso.
«È mia. Il postino è nuovo. Lo cambiano ogni sei mesi, ormai. Deve essere questo fatto dei giovani. Al giorno d’oggi li cambiano ogni sei mesi. Lo diceva la televisione. È arrivato prima dell’estate, ma non ha imparato ancora che Famiglia Cristiana è mia. Mi chiamo Teresa; voi, signorina, come vi chiamate?»
«Teresa anche io» dissi.
«E la Famiglia Cristiana non è vostra, vero?»
«No, no, assolutamente no» accorgendomi troppo tardi del mio tono seccato.
«Lo sapevo».
«Non so come fare a prenderla. Tra l’altro non posso entrare in casa perché si è ficcata sotto alla porta».
La signora Teresa non mi stava ascoltando, era fissa a guardare la copertina.
«Secondo voi la recuperiamo?»
«Beh, sì. Troverò il modo per entrare a casa, non si preoccupi. Ma è di due settimane fa».
«Sì, lo so, l’ultimo numero ce l’ho. Però c’è la storia della vita del nuovo Papa. Nell’ultimo numero è già sacerdote, mi manca una puntata. È brutto sapere come va a finire prima del tempo».
«Ma non finisce che diventa Papa?» sghignazzai.
La signora Teresa si accigliò. Tirò fuori le mani dalle tasche e si mise a braccia conserte, piedi giunti, con le caviglie sottili e coperte da collant spessi, l’espressione contrariata.
«Volevo dire che si può recuperare tutto, tanto insomma, la storia è quella. Si sa».
La sua espressione non mutava.
«Quindi si può leggere prima un pezzo e poi un altro».
Infine fece spallucce, sconsolata.
Avevo questa abitudine adolescenziale: fare umorismo sulle cose serie, per attivare la conversazione, per pormi subito come una persona simpatica. Avevo sempre avuto molto più terrore di apparire imbronciata che stupida. Ma questa volta non avevo fatto presa. Mi guardò come avrebbe fatto con una giovinastra puerile e io sentii il bisogno inusuale di rimediare: restituirle la rivista sarebbe diventato un mio preciso impegno.
«Adesso chiamo il padrone di casa e mi faccio dare una mano».
«Grazie. Sentite, signorina, non è che me la portate a casa la mia Famiglia Cristiana? Io tanto qua a fianco sto.»
«Sì, certo».
«Non è che ve lo dovete segnare su quella bell’agendina?»
«No, non c’è bisogno».
«Va bene. Allora arrivederci. Mi raccomando».
Si allontanò piano, passi piccoli e precisi, l’incedere più sicuro sulla sinistra. Si girò una volta sola e mi indicò il balcone accanto al mio. Sorrisi con tutta la credibilità di cui ero capace, ma non abboccò, perché fece di nuovo spallucce.
Quando le riportai la rivista, qualche ora più tardi, mi accolse con sorpresa; mi strappò quasi dalle mani la copia tanto che una mia unghia tagliò il cellofan.
La signora Teresa riceveva tutti in cima alle scale. Le rampe facevano una V; a un certo punto gli ospiti giravano l’angolo e alzavano lo sguardo trovandosela di fronte, con le mani piccole nelle tasche del maglione di lana con le trecce, le pantofole da visita e le calze meno spesse. Le pantofole da visita erano diverse da quelle da notte. Erano fastidiose, premevano sulle dita rattrappite dall’artrosi, le facevano percorrere il corridoio con una insolita fretta. Le ciabatte da notte, invece, stavano ai piedi del letto, erano il ricovero della solitudine; avevano il bordo bruciato dalle scintille del fuoco del camino, un buco su ciascun callo e le suole consumate sullo stesso lato, sull’esterno del piede, dove il peso poggiava.
La signora Teresa era quasi sorda da un orecchio e ci vedeva poco, ma riusciva a riconoscere i suoi ospiti dal modo di suonare il campanello e dal tempo che impiegavano a fare le scale. Suo figlio scampanellava a ripetizione furiosa, almeno cinque o sei volte, un unico verso, sempre lo stesso richiamo. Sua nuora suonava mai: aveva le chiavi, quindi entrava piano e iniziava a chiamarla fin dall’ingresso, vicino al portone, per non spaventarla. Sua nipote aveva imparato il verso del padre. La signora Teresa li avrebbe confusi, se non fosse che la ragazza saliva le scale a due a due e impiegava pochi secondi per balzarle dinnanzi. Io facevo due squilli.
Quando arrivò un postino più preciso, iniziai ad andare a trovarla con altre scuse, per sapere se avesse bisogno di qualcosa. Era sempre risoluta nel dirmi di no, ma a un certo punto cominciò a farmi trovare il caffè pronto sul tavolo della cucina, senza che io lo chiedessi; lo accettavo sempre, perché avevo bisogno di imparare i segreti della sua solitudine. Passavo cinque minuti al giorno con lei, mentre lei mi guardava sorridendo, in piedi, dall’altro lato del tavolo. Ogni volta che entravo in casa stava bevendo un fondo di tazzina di caffè o zuccherava la rimanenza per sua nuora. «A lei piace così», si giustificava quando la trovavo a girare il cucchiaino e a leccare l’ultima goccia, come se la cogliessi in fragrante.
Una sera, mentre mi porgeva la zuccheriera, mi disse con la schiettezza di una persona che non aveva più tempo da perdere: «Signorina, voi siete gentile, ma io non ho bisogno di niente. Avete bisogno voi di qualcosa? Siete sempre qua».
No, in effetti no, non avevo bisogno di niente, e non avevo la capacità di dirle tutto del mio ex marito, del mio ex lavoro, dei miei quasi ex figli, come probabilmente avrebbe fatto lei al mio posto.
«Non conosco ancora nessuno, veramente» abbozzai.
Non passai più da lei per diversi giorni, mi imbarazzava la mia invadenza, ma lei continuava a incuriosirmi e la trovavo alla finestra ogni volta che volevo. Quando desideravo incrociarla, alzavo lo sguardo e Teresa c’era, con lo sfondo del ripiano di una credenza, pieno di libri dalle coste rotte, e un numero di tagliacarte niente affatto esiguo. Ce n’erano alcuni piccoli, altri più grandi, ma tutti con un manico verde sbiadito. Cosa ci faceva con tutti quei tagliacarte alla sua età? Per un attimo, pensai addirittura di andare a chiedergliene in prestito uno, ma ci ripensai.
Una sera, mentre rientravo dall’ufficio, si affacciò di fretta e mi chiamò dal balcone, sporgendosi oltremisura.
«Potete venire a trovarmi, sapete? Dicevo solo che non ho bisogno di niente, ma se vi fa piacere passate pure».
Rimasi con le chiavi in mano per qualche minuto e poi vidi il portone aprirsi, lasciare uno spiraglio grande il giusto per una ciabatta numero 37, non di più. Mi avvicinai.
«Allora salite? Vi faccio il caffè. Ah, poi: secondo me vi è arrivata di nuovo la mia Famiglia Cristiana.»
«Vado a controllare.»
Ricominciai ad andare a trovarla. Mi rendevo conto di quanto le cose che mi diceva fossero tragiche, eppure la massima concessione che si faceva era riempirle di malinconia. Al suo posto io non ne sarei stata capace.
Io non avevo nulla da dirle. Non avevo quel coraggio.
Mi ritrovavo da sola in un paese talmente piccolo da riuscire a sentirmi costantemente osservata, l’unico momento della giornata in cui mi trovavo a mio agio era il tempo che trascorrevo a casa di una donna semisconosciuta, che non aveva la paura di raccontare i suoi dolori. La invidiavo. Finì che non riuscii a fare a meno di andare a trovarla, le facevo raccontare ogni sera qualcosa di diverso. E più mi divertivo, più ridevo, più lei incalzava il racconto, infilava particolari su particolari come in un rosario. Mi rasserenava. Avevo imparato a riconoscere quando era più irritabile o stanca, a seconda della storia.
Nell’ultimo periodo la trovavo spesso accigliata, davanti al camino acceso a fissare le scintille, perché Mariella, l’altra vicina, la incolpava di una perdita in cantina. La signora Teresa sosteneva che era colpa dell’asfalto del marciapiede che non drenava e del Comune che non aggiustava mai niente; l’altra, invece, diceva che perdeva qualcosa in casa. A volte capitava che le sentissi litigare anche io.
«È vecchia, sono vecchi i tubi! Chiamate l’idraulico!»
«Quali cubi?»
«I tubi! I tubi! Chiamate un idraulico, signora Teresa, lo vedete come ve lo dico? Sennò lo chiamo io e lo pagate voi! Sono due mesi che vi dico che c’è la muffa in casa mia, signora Teresa! E voi niente!»
La signora Teresa rientrava in casa sussurrando «Quali cubi?» e stava zitta per qualche minuto, mortificata.
«Cosa c’entrano i cubi secondo voi?» mi chiese una sera, tutta agitata.
«I cubi?»
«Sì. I cubi».
«No, signora, i tubi. I tu-bi».
«I tubi dell’acqua? Perché, perdono i tubi? E da quando? Non ha mai perso un tubo in questa casa. Abbiamo fatto il bagno prima di tutti noi, abbiamo un bagno che mio marito aveva fatto arrivare apposta! E a quei tempi il bagno ce lo avevamo solo noi! Ve l’ho mai detta la storia del bagno?»
«No, signora. Mai».
Mi raccontò per la prima volta di suo marito, senza dire niente del bagno, lo nominò solo di striscio per il tempo necessario a farle accapponare la pelle. Mi disse di come si erano scritti in guerra e di come si erano incontrati in paese. E di come morì in sei mesi. E di come rimase da sola. Un giorno andava a prendere sua nipote davanti a scuola, quello dopo era a letto con una flebo, e quello dopo ancora iniziava le trasfusioni; dopo sei mesi esatti inaugurarono la cappella di famiglia al cimitero. Dopo poco, fu la volta di sua cognata: la trovarono faccia nel latte della colazione, con mezza tapparella della cucina alzata e i biscotti pronti da inzuppare. Per terzo toccò a suo fratello, quello più piccolo e lontano, investito da un motorino davanti a tutti: le arrivarono condoglianze da chiunque, non c’era stato bisogno nemmeno dei manifesti. E infine a sua figlia, a cui la signora Teresa fu costretta a regalare il suo loculo nella cappella.
Ci interruppe il telefono. Sentii solo i suoi «Sì, va bene», e poi «Va bene, domani».
L’apparecchio era vicino al divano del vecchio studio da geometra di suo marito. Quando riattaccava, la signora Teresa si sedeva per almeno due minuti e guardava la scrivania. Ogni volta. Si stendeva sullo schienale, accarezzando il posto accanto, prima piano, poi con le unghie; si ritrovava, dopo qualche minuto, a colpire la pelle come se invitasse qualcuno a sedersi.
Mi affacciai alla porta.
«Ah, scusate! Era mio figlio al telefono. Domani viene l’idraulico». Poi aggiunse: «Vi ho mai raccontato di Mariella?», mentre si rattrappì nello scialle, con le ossa ricurve, come se aspettasse un abbraccio.
«No, signora. Mai».
«Quando litigammo la prima volta è stato per suo figlio piccolo, scostumato come il padre. Una volta lo sgridai io e lei non me lo perdonò per un bel po’. Mi aveva rotto una finestra della camera con il pallone e passammo tre giorni al freddo, io e mio marito. Dopo qualche mese, arrivò zitta zitta e salì in casa con in mano una cesta di fichi appena colti. Piangeva. Poi il marito la lasciò e lei iniziò a venirmi a trovare tutte le sere. Si sedeva accanto al camino, su una sediolina piccola, faceva la calza. Voi ce l’avete un’amica con cui potete non dire niente?»
«No.»
«Dovreste. Io e Mariella siamo diventate amiche senza dire una parola per mesi. Stava lì come fosse a casa sua. Si grattava la gamba, contava le maglie e non tirava mai su lo sguardo. Poi, dopo un paio d’ore, guardava l’orologio alla parete, e andava via. Ma non era contenta, si vedeva. Così le offrivo qualcosa per farla rimanere un altro po’».
«E poi?»
«È arrivato il secondo marito, ma non si sono sposati. Un altro bel soggetto. Le dissi che gli uomini erano un problema grosso per lei e si offese. E di nuovo non mi parlò più. Quello lì, se possibile, era peggio di quello di prima: mi svegliavo con le bestemmie! Ma è stata Mariella a lasciarlo e io ne fui contenta, non lo meritava un marito senza grazia di Dio. Dopo questo fatto, ricominciò a venire da me solo un paio di volte a settimana. Mi faceva compagnia, mentre guardavo la televisione o leggevo. Lei fissava il fuoco, lo attizzava, poi andava via».
«E poi?»
«Non so. Forse sono diventata vecchia».
Lo disse quasi sottovoce: la doppia c le aveva inarcato le labbra verso il basso e la a le si strozzò in gola, sperando di rintracciare la benevolenza e la generosità di una volta.
«Mi ha urlato contro: “Siete una testarda, signora Teresa. La vostra casa è vecchia! Vecchia!” Ha detto proprio così. E poi “Vecchia! Vecchia che non siete altro!” Era arrabbiata con me. Ma io che le ho fatto?»
Fece un’altra pausa, si riempì il bicchiere d’acqua e mi guardò per qualche minuto. Stava pensando a qualcosa da dirmi, stava decidendo se tenerla per sé ancora per un po’, mentre si girava il bicchiere nella mano e guardava sulla mensola di fronte dove c’era una sola foto, piccola e dal contorno seghettato, di una bambina con le trecce.
«Chi è?»
«Mia figlia.»
«E adesso dov’è?»
Sospirò. Scolò il bicchiere. Non rispose.
«E così quello domani mi viene a rompere il bagno».
Le presi la mano; aveva le dita fini e rugose, ma il dorso liscio. Le luccicavano gli occhi. Le feci una carezza.
«Può succedere che si rompa qualcosa, non è niente».
«Non sempre, sapete?»
Le tremavano le labbra, prese il fazzoletto dalla manica e si asciugò gli occhi. Non aggiunse altro, io non chiesi più.
«Domani non lavoro. Vuole che stia qui con lei mentre c’è l’idraulico?»
«Dovrebbe venire mio figlio. Ma deve prendere un permesso. Voi potete alle nove?»
L’indomani arrivai mentre gli apriva la porta. Rimase qualche secondo a guardare tutto così com’era e io un passo indietro, per non disturbare: le piastrelle color crema, le ceramiche del lavandino e della doccia, ancora bianche quasi come il primo giorno, poi il bidet, su cui si sedette per un minuto, mentre accarezzava il bordo. L’idraulico si accovacciò con gli attrezzi, toccò piano il perimetro della mattonella vicino allo scarico della doccia, e cominciò a martellare dolcemente, ogni tanto un colpo più secco. Al terzo la signora Teresa si alzò e mi venne vicino, più veloce del solito. Nelle sue intenzioni, stava scappando. Mi avvicinai e la presi per un braccio. L’idraulico iniziò a crepare la ceramica, uno spigolo alla volta, i nostri battiti seguivano quelli dello scalpello. La signora Teresa mi rivolgeva lo sguardo e io la ricambiavo sorridendo, ma non funzionava. Non avevo mai visto i suoi occhi così tristi e pieni. Era un racconto, quello, che portava un’eredità logora, e io potevo solo coglierne le sfumature. Mi sentivo il piccolo spettatore di una confessione a cui non sapevo dare un nome, ma di cui sentivo l’oppressione. Socchiuse la bocca, come per espirare, come per dire la prima parola, e io l’attesi per un tempo che mi parve lunghissimo, ma poi si arrese: chiuse gli occhi e si appoggiò al mio braccio.
«Signora Teresa, tutto a posto?», le sussurrai sulla testa.
«Andiamo di là e vi faccio il caffè», mi disse veloce, asciugandosi gli occhi con il solito fazzoletto ricamato, tirato fuori dalla manica del maglione. «Vi devo raccontare la storia di questo bagno».
Ho trentatré anni, sono nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ma da qualche anno abito a Milano. Sono sempre informatissima sui percorsi delle autolinee urbane.
Di solito, dormo nel posto più vicino alla porta.
Ho scritto di tennis per L'Ultimo Uomo, di cinema e serie tv per Gli 88 folli e sono stata ospite diAbbiamo le prove. A ottobre 2015 esce Il terzo incomodo per Baldini&Castoldi.