La serata giusta, un racconto di Emanuela Canepa

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Ho conosciuto Milena facendo la fila in banca.
Due diverse occasioni nel giro di un mese, sempre in attesa di fronte allo stesso sportello.
L’ultima volta eravamo dietro a una signora molto anziana che non la finiva più di parlare con il cassiere. Portava un assurdo cappotto viola a fiori stampati, e quel genere di copricapo che indossava anche mia nonna negli anni ‘70: a turbante, sfumatura ciclamino, come la borsetta, di quelle con i manici cortissimi che riesci a portare solo a mano perché non c’è verso di tenerle in spalla, specie d’inverno, quando indossi la giacca o il cappotto. Vista di profilo ricordava una regina egizia per la fronte altissima e scoperta, e la bocca sottile quasi senza labbra.
A un certo punto mi sono girata e ho visto che Milena era affascinata dalla donna quanto me. Anche lei si è accorta che la guardavo e allora ci siamo scambiate un sorriso. Poi per ingannare l’attesa abbiamo preso a chiacchierare, e alla fine siamo andate a bere un caffè.
Da quel momento non ci siamo più lasciate, e siamo sempre state presenti l’una per l’altra. Non perché ci sentiamo o ci incontriamo spesso ma perché abbiamo scelto consapevolmente di evitare i sotterfugi della socialità. Il tempo condiviso è poco ma denso. Non abbiamo bisogno di sciogliere il ghiaccio e non ne abbiamo mai avuto, nemmeno di fronte a quel primo caffè. E’ come se avessimo l’urgenza di comunicare solo sul piano della verità.
Parliamo anche di argomenti banali, ma non lo facciamo mai senza aggiungere qualcosa di intimo. L’ultima volta che ci siamo viste, per esempio, lei mi ha spiegato in che modo si prepara la pastiera, secondo un procedimento che a casa sua si tramandano di madre in figlia da generazioni, e in mezzo ha infilato l’epica minore della sua famiglia, e il resoconto di molte cose successe nella cucina in cui sua nonna impastava la frolla mettendola a riposare ventiquattr’ore in frigorifero. Una sola volta l’anno, come vuole la tradizione, all’inizio della primavera, quando cominciano le piogge e la ricotta assume l’esatta consistenza necessaria.
Mi ha elencato gli ingredienti prendendoli da una lista segreta che tiene nel portafoglio. Ho preso qualche appunto, ma non m’è mai passato per la testa di cucinarla davvero. Credo che non lo faccia neppure lei. Del resto la preparazione della pastiera è un processo lungo e piuttosto complesso. Ci vogliono due giorni interi di lavoro. Una cosa impensabile.
Anche adesso vedo una pastiera, però è molto diversa da quella della nonna di Milena. È appoggiata sul ripiano più basso della vetrina dei dolci, insieme a una dubbiosa crostata di visciole. Perfino dal nostro tavolo, che sarà almeno a dieci metri di distanza, si vede benissimo che sono secche, finte e stoppose.
A intrigarmi invece è il cameriere, che s’è avvicinato alla vetrina e l’ha aperta per tirare fuori qualcosa. Non gli vedo la faccia ma gli vedo il culo, ed è abbastanza per attirare la mia attenzione.
- E quello chi è?
Milena si gira con discrezione. Anche per lei non c’è alternativa alla visione del culo, perché il ragazzo non ha smesso di trafficare dentro la vetrina.
- Che ne so. Non gli vedo la faccia. Come fai a dire che non l’hai mai visto se non sai com’è? A parte il culo. Che è notevole, ma insomma non fino a questo punto.
Milena a volte è elusiva, specie quando è nervosa.
- Siamo venute qui almeno una decina di volte e finora non l’abbiamo mai incontrato.
Fa una smorfia. Mi rendo conto all’improvviso che per lei in questo momento prendere in considerazione un uomo - qualsiasi uomo - è un pensiero molesto. La sua sofferenza è così profonda che entra in risonanza con qualsiasi cosa.
Milena ha un modo tutto suo di soffrire, negando legittimità al suo dolore come se fosse un ubriaco che si presenta a una veglia funebre. Quando te ne parla sembra che si stia riferendo al malessere di un’altra, una non tanto intelligente, di cui ha l’aria di pensare che se le capitano sempre cose sgradevoli è perché fa qualcosa per meritarsele.
- Sicura? A me sembrava di averlo già notato un paio di volte. Magari mi confondo con un altro posto.
Ma non andiamo mai in nessun altro posto. Ci piace questa pizzeria, nell’unica stagione in cui si può frequentare, l’estate, perché dentro è piccolissimo e d‘inverno fanno solo pizza a taglio da mangiare in piedi.
Sul menu c’è margherita, marinara, capricciosa, napoli, quattro stagioni. Non è il genere di posto dove ti viene in mente di chiedere la mozzarella di bufala e i pachino. Quando non possiamo venire qui ce ne stiamo a casa e ci facciamo una carbonara.
- Mi sembri incazzata. Sempre tutto uguale? Le chiedo, lasciando cadere la questione del cameriere.
Milena sorride rigirando la forchetta sul piatto vuoto. Ecco che comincia ad allontanarsi da sé, la vedo prendere armi e bagagli dietro al sorriso da rosa mistica, e distanziare l’esperienza della vita interiore da ciò che è disposta a percepire. Se non mette in atto questa strategia non può parlare, quindi la lascio fare.
- Venerdì pomeriggio l’ascensore era rotto. Ho dovuto scendere le scale a piedi con la valigia. A ogni gradino pensavo: ma che ho messo qua dentro? Non mi sembrava di averla caricata tanto, invece pesava come un caravan. Poi in fondo alle scale mi sono resa conto che non era la valigia. Ero io, che resistevo a ogni gradino. E’ che non volevo andare da lui. Cioè volevo. Ma non avevo più allegria. Fa una pausa, alza gli occhi. - Macché. Cazzate. Mi sa che non volevo proprio partire.
In quel momento si avvicina il cameriere, e ci sorprende perché nessuna delle due l’ha sentito arrivare. Ma anche perché finalmente vediamo il viso, ed è quasi meglio del culo. Non è neanche troppo giovane per noi. E non ha la faccia da cameriere. Sembra uno che è uscito dal suo appartamento con un grembiule arrotolato in vita e poi è capitato lì per caso.
Ha anche un’altra virtù: è uno di quegli uomini che ti costringono a mettere a fuoco il fatto di essere donna. Che non è una cosa a cui pensi ventiquattr’ore al giorno, e non è nemmeno un dispositivo che si attiva di fronte a qualsiasi individuo di sesso maschile. E’ una reazione che certi uomini riescono a provocare. Entrano in relazione con la femmina che è in te.
Vedo che se n’è accorta anche Milena, ma a differenza di me questo la porta a prendere la via della fuga con più determinazione.
- Cosa prendete?
Con noi è facile. Due margherite. La Coca Cola è già sul tavolo, freschissima. Non ci serve altro. Lui si allontana contento. Si vede che sta bene dove sta, non gli manca niente. Mi viene da sorridere perché la sua leggerezza mette allegria.
- Sempre la stessa cosa? Distaccato, freddo? Chiedo scartando una confezione di grissini. Perché è questo il problema di Milena. Ama un uomo intelligente e complicato. Uno di quelli con cui si può parlare di tutto, e che non si sarebbe mai accontentato di una gallina palestrata. Uno che vuole una donna come Milena, perché ritiene di non meritarsi niente di meno.
Su quel che merita lei invece non si fa domande. Vive rinchiuso nel labirinto della sua vita emotiva che non condivide con nessuno, e la sua esasperata complessità si disarticola lì dove comincia lei. Milena si dà così com’è, senza esegesi.
- Certe volte mi avvicino perché ho l’impressione che abbia bisogno che sia io a prendere l’iniziativa. Mi dice. - E non parlo di sesso, parlo di vicinanza, di contatto. Non si tira indietro ma è come abbracciare il vuoto. L’unica cosa che sento è che vuole scappare. Mi stringe, ma è solo perché non lo guardi e perché non vuole vedermi.
Il cameriere si avvicina al nostro tavolo e appoggia un piatto con due supplì. Che non avevamo ordinato. Si ferma e ci osserva, sembra che aspetti un commento. Noi lo guardiamo dal basso verso l’alto. Lui forza un po’ il sorriso, senza timidezza ma senza nemmeno strafare.
- Allora? Chiede.
- Allora che? Non avevamo chiesto i supplì.
- Lo so. É per quello che aspetto. Quando porti una cosa che nessuno ha domandato il cliente fa un commento così: non ho ordinato i supplì.
- L’ho appena detto, infatti.
- E io aspettavo la battuta. Adesso che l’hai fatta ti posso rispondere: lo so che non avete ordinato i supplì. Ma avete le facce di due che con un supplì a testa starebbero meglio.
Resta fermo accanto al tavolo con le braccia conserte. Ha due fianchi che ti spingono a fare pensieri. Chissà perché immagino che ora finirà per dire qualcosa di prevedibile. Due belle signore come voi, cosa sono queste facce tristi? Quando uno comincia così, per qualche ragione ti aspetti sempre che debba precipitare a piombo nel cliché. Invece no, resta zitto. Gira sui tacchi e torna in cucina.
Prendo un supplì e gli do un morso - Insomma non ti scopa più. Sospiro - Anche quando sei tu a prendere l’iniziativa.
- Ma no. Scopiamo, certo. Però a volte parte senza che ci sia niente di minimamente erotico fra noi, niente di attivato. E altre volte sembra che il mio desiderio lo disturbi.
E poi Milana si spegne. Le ultime parole non le sento quasi più.
Il cameriere torna con le pizze. Il supplì di Milena è ancora nel piatto e io mi sento colpevole. Gli faccio un sorriso compiacente, ma lui non sembra infastidito. Appoggia le pizze, ritira il supplì, e si allontana con il suo culo perfetto come se tutto fosse andato proprio nel modo che aveva previsto.
- Non abbiamo mangiato il supplì.
Afferro coltello e forchetta. Milena sorride.
- Non mi pare grave.
- Non ho detto che è grave. Dico che non abbiamo mangiato il supplì, è stato carino a portarlo, no?
- Dipende.
- Da che?
- Dal conto. Se ce lo mette in conto non è carino, è furbo. Se non ce lo mette in conto allora è carino. Vediamo alla fine. In ogni caso, non mi andava. Che dovevo fare? Potevi mangiartelo tu, se ci tenevi tanto a non ferire i suoi sentimenti. Credo di fare una faccia strana, perché Milena si mette a ridere:
- Non mi dire che ti piace! E mi punta un indice accusatore a un centimetro dal naso.
- E perché a te no? Hai visto il culo?
Lei si appoggia alla spalliera della sedia.
- Ma figurati. Gli uomini non sono fatti di solo culo.
- Certo. Come il tuo, no? Nessuna passione volgare per i culi, ma che profondità! Intensissimo. Infatti la gioia ti si legge negli occhi.
Non mi risponde. Resta immobile per un po’ e poi con lentezza afferra le posate e comincia a tagliare la pizza premendo sul coltello seghettato.
Ci mettiamo a mangiare con diverse tabelle di marcia. La mia è normale. Mi godo la cena, che è buona. Milena invece compie solo un atto di fede nutrizionale. Bisogna che il sangue scorra nelle vene per aver voglia di godere del sapore del cibo. Milena è incatenata ai suoi pensieri che convergono tutti su quell’unico vortice, e non ha vita da dedicare ad altro.
Il cameriere ripassa un quarto d’ora dopo. Si ferma accanto al tavolo e resta zitto. Con gli altri clienti non fa così. Ce l’ha proprio con noi, che non siamo granché, e stasera neppure particolarmente in tiro.
Per un po’ proviamo a ignorarlo, a un certo punto però la situazione si fa imbarazzante e ci blocchiamo con le posate a mezz’aria, sembriamo due ragazzine alla mensa scolastica. Lo fissiamo. Quando si accorge di avere attirato la nostra attenzione si decide a parlare:
- Com’è?
- Buona. Risponde Milena con l’aria di sottintendere: te ne vai oppure no?
- Ah, ecco. Non ero convinto. Sono venuto per essere sicuro.
Milena fa una faccia da carogna. Quando è incazzata l’energia della rabbia le sblocca la tensione. Sembra una baccante. Scuote appena la testa e agita i capelli scuri sulle spalle. Le si accende negli occhi una luce di follia pericolosa.
Il cameriere capisce che non è gradito, e non si offende neanche stavolta. Non si stranisce neppure. Si asciuga le mani con il grembiule e se ne va.
- Perché sei così stronza? Le chiedo.
- Perché ci prendeva in giro.
- Ma che dici? Non è possibile che tu gli piaccia, o che gli piaccia io? Comunque che bisogno c’è di trattarlo così?
- Mi innervosisce. Sta sempre qua. Non riesco a mangiare se ce l’ho intorno.
- Non riesci a mangiare comunque. Io ho finito da un’ora e tu sei ancora a metà. Eri solo incazzata e te la dovevi prendere con qualcuno.
- Può essere. E allora? Non ho il diritto di essere incazzata?
- Quello che ti pare. Però la tua reazione è sproporzionata. C’erano altri modi per allontanarlo.
- Questo è stato efficace, no?
- Com’è che sei tanto brava quando si tratta di queste stronzate, e poi non sei capace di reagire con qualcuno che la vita te la rovina davvero?
Eccola di nuovo. La faccia da baccante. Stavolta la riserva a me. Milena è il tipo dalle furie riflessive. Certe volte si avvicina davvero molto all’insulto irreparabile, ma ne percepisce il carico e lo soppesa prima di tirarlo fuori. E’ uno di quei rari individui capaci di evitare il riflesso condizionato dell’esplosione di rabbia quando le pare di riconoscere qualcosa che somiglia alla verità. Ha ancora in bocca un pezzo di pizza che sta masticando da un’ora. Lo inghiotte e sussurra: - Stronza.
- Stronza perché ho torto, o stronza perché ho ragione?
- Stronza e basta.
- Ma se passo la vita ad ascoltarti! Credi sia facile sentirti raccontare delle ansie di quel coglione?
- Lo so. Infatti è finita.
La guardo scettica. Non è la prima volta che glielo sento dire. Però non gliel’ho mai visto fare. Le rispondo secca - Non ti credo.
Ma nel momento stesso in cui lo faccio comincio a pensare che stavolta sia vero. Perché sorride, e prima di oggi non ha mai sorriso dicendo: è finita. Prima di oggi ha solo cercato di convincermi. Mentre adesso è chiaro che la verità è implicita, e quindi non deve essere più dimostrata.
- Si può sapere perché non me l’hai detto prima?
- Perché è successo tre giorni fa e da allora non ci siamo viste. Aspettavo la serata giusta. Si gira a cercare con gli occhi il cameriere, poi di nuovo guarda verso di me. - Un annuncio così lo devi fare di fronte a un culo prestigioso.
Il ragazzo si accorge di lei, dell’insistenza del suo sguardo molto diverso da quello inferocito di prima, e ricambia il sorriso.
- Coglione… Sussurra Milena cominciando a ridere.
- Perché coglione? Le chiedo, e rido anch’io.
- Perché sono tutti uguali. Adesso crede che il potere del suo culo mi abbia schiantato. Pensa di avere un culo a lento rilascio seduttivo.
Ci prende una ridarella imbecille che ci fa piegare in due sul tavolo come fossimo sbronze. Il cameriere capisce che quello è il momento giusto per tornare da noi.
- Allora? Che c’è di tanto divertente? - E trasforma la sua espressione da amichevole a complice. Non arriva a prendere una sedia e ad appollaiarsi a cavalcioni, ma assume la stessa espressione sfrontata che avrebbe se si mettesse in testa di fare un gesto con quel carico di intimità.
- Niente -, risponde Milena - parlavamo di culi.
- Bene - replica lui - ne so un sacco di culi. Posso essere utile?
- No, grazie. Ma non ti allontanare troppo. Se ci viene un dubbio ti ricontattiamo.
- Resto in zona. Porto qualcos’altro?
A Milena i dolci non piacciono e io non ho più fame, per cui ci accordiamo sui caffè.
Ce li prepara lui, lanciandoci occhiate di tanto in tanto per assicurarsi che abbiamo notato che li sta facendo con le sue mani. Come se in una bettola di quel tipo la cosa costituisse una specie di evento eccezionale.
- Anche se in fondo è un talento piuttosto diffuso fra certi uomini, no? - Dice Milena - Fare una cazzata da quattro soldi e rivendertela per una procedura da ingegneria aerospaziale.
Adesso però ridiamo meno, perché stiamo entrando in un campo minato. Quello in cui si addentrano le donne deluse nei momenti di debolezza per poi accorgersi che uscirne è difficilissimo. I luoghi comuni che si coagulano intorno al biasimo per una categoria, i più consolatori ma anche i più vischiosi. Ti risparmiano lo sforzo dell’analisi. È facile dimenticarsi che quello che lui ti ha fatto coincide quasi sempre con ciò che tu gli hai lasciato fare.
Per cui la piantiamo. Di ridere, ma anche di generalizzare. Beviamo il caffè e ci mettiamo a chiacchierare di stronzate senza peso, piuttosto orgogliose di aver scelto di passare oltre.
Cominciamo ad essere stanche, domani si lavora. Cerchiamo di attirare l’attenzione del cameriere che però, con la stessa costanza con cui ci ha tampinato finora, adesso si mette d’impegno a evitarci.
Non guarda mai nella nostra direzione e se gli facciamo un segno finge di essere distratto altrove.
All’inizio sembra un caso, ma dopo qualche minuto diventa chiaro che lo sta facendo apposta. Crede di averci in pugno, e quindi abbiamo smesso di interessarlo.
A Milena sale sul viso un’espressione torva. – Che stronzo…
- Ma lascialo stare. - Le metto una mano sul braccio e le stringo il polso. Mi pare di avvertire la pulsazione appena accelerata.
- Andiamo a pagare alla cassa, dài.
Milena tentenna, alla fine mi fa cenno che va bene. Prendiamo tempo sistemando dettagli trascurabili che potrebbero essere risolti in un unico gesto - l’ultimo sorso di Coca per lasciare il bicchiere vuoto, la raccolta dei cellulari e delle sigarette sul tavolo, la borsa sulla spalla - ma è una scusa. Speriamo ancora che sia un caso, che il cameriere ci sorprenda e salti fuori a salutarci. Mi mette una certa malinconia l’idea di perdermi un’ultima occhiata prima di andare. Ma lui non esce, e comunque noi ci stanchiamo di aspettare.
Leggo negli occhi di Milena lo stesso pensiero che sto facendo io. Magari lo fa apposta. Ci guarda dalla cucina per vedere se stiamo traccheggiando. Si compiace delle nostre patetiche finte. E pensa che le femmine sono tutte uguali.
Ci ricaschiamo? Donne che pensano che gli uomini sono tutti uguali perché pensano che le donne sono tutte uguali?
Alla cassa c’è il gestore, un omone che pesa almeno centotrenta chili, e sta sempre incastrato in uno spazio minuscolo dietro al bancone. Tira fuori il foglietto delle nostre ordinazioni infilzato su un gancio, e batte il totale sul registratore. Ci porge lo scontrino. Milena me lo toglie di mano prima che riesca a leggere. Tira fuori il portafoglio:
- Pago io. Una specie di riscatto per l’infelicità.
- Capirai. Te la cavi con poco. Quant’è?
- Se offro io, tu non lo devi sapere.
Lascia due banconote sul portacenere e si avvia all’uscita. - Andiamo, non c’è resto.
Usciamo senza riuscire a rivedere il cameriere. Pazienza, sopravviveremo.
Fuori c’è un discreto viavai anche se è solo martedì. Tira un alito di vento tiepido, c’è un’umidità tollerabile. Al centro del cielo, perfettamente rotonda, si stacca una luna altissima e bianca. Si avverte un’energia sospesa, non stagnante, come una massa densa, dura da attraversare ma non impenetrabile.
- E comunque - dice Milena prendendomi sotto braccio e infilando l’uscita del vicolo - i supplì non ce li ha fatti pagare.

 


Emanuela Canepa è nata nel 1967 a Roma dove si è laureata in Storia Medievale. Vive a Padova dal 2000 e lavora per il Sistema Bibliotecario dell’Università. Nel 2017 ha vinto la XXX edizione del Premio Calvino. Il suo primo romanzo, L’Animale Femmina, uscirà ad aprile del 2018 per Einaudi Stile Libero.