1.
Quando suona la sveglia, il segreto è alzarsi e vestirsi veloci.
Erano le sei di mattina spaccate: Lucrezia sgusciò fuori dal letto cercando a tentoni jeans e maglietta, scalciando in giro per scovare le ciabatte, ostinandosi a scendere in cucina senza inforcare gli occhiali.
Fece colazione sotto il portico – caffettino freddo e due biscotti integrali -e notò che il buio iniziava già a raccogliersi intorno alle cose, e a prenderne le mosse. Così decise di darsi subito da fare: sbrigandosi con siepe ed aiuole, verso le dieci con l’orto sarebbe stata a buon punto, e poteva evitare di starsene fuori fino a mezzogiorno.
Non che avesse problemi con l’abbronzatura, solo a una certa età uno deve preservarsi più di quanto gli venga naturale; tagliare l’erba in pendenza spezza la schiena, e a forza di zappare e strappare erbacce ti s’incriccano le braccia che poi stanno dritte inchiodate come quelle degli omini Lego.
Il punto è che dopo esser stata scaricata con la scusa del pensionamento anticipato, qualcosa doveva pur fare – anche perché da soli si sa, s’invecchia in fretta.
Innaffiare dopo tutto quello sfacchinare poi fu una goduria, ma badò bene di non bagnare le foglie, quasi ci fosse ancora Aldo a controllarla: con la canna dell’acqua in mano le pareva sempre di saperlo là, a far la vedetta dalla finestra della cucina, mentre prepara una pasta fredda, o un couscous di verdure insieme al loro figlio, Giacomo; e pensare che ai tempi le dava quasi fastidio fosse così bravo a cucinare, a lei il massimo che riusciva erano certe insalate condite male, come quella che stava spiluzzicando verso l’una, ancora con la salopette addosso, senza nemmeno un tovagliolo: solo forchetta, scodella e bicchiere. Fuori, le campanelle inchiodate sul portico da lui e Giacomo, anni prima, mormoravano stanche nel vento.
Finito tutto, lavò i piatti e visto che c’era pulì delle pentole che non usava da un po’, e pure i fornelli. Iniziò a vagabondare per casa, lasciandosi dietro tutta una rivoluzione di dettagli: scambiò le campane di fiori in entrata con quelle in cucina; riorganizzò gli Zagor in camera di Giacomo per formato invece che per data di uscita; spostò le tovaglie nell’armadio in credenza e stirò tende ed asciugamani.
Pulendo le foto ricordo in salotto, aveva strofinato visi e sorrisi fino quasi a crepare il vetro, e nella foga poi una statuetta presa in vacanza, di quelle che compri così per comprarle, era finita per terra: allora si era messa a riaggiustarla in fretta, con dell’Attak, quasi i suoi due uomini fossero dovuti tornare lì-lì, da un momento all’altro.
Lei però sapeva non sarebbe arrivato nessuno.
Difatti passò il moccio con tutta calma, senza stare a preoccuparsi che qualcuno lasciasse zampate in giro. Solo che a ritrovarsi lì, col manico stretto in mano, com’era morto Aldo davanti l’aula di musica, un pomeriggio di gennaio, non le riuscì più di scansarlo dalla memoria: spalancò porte e finestre, arieggiò casa ma quello persisteva, come l’odore di vecchio che aveva iniziato a sentirsi addosso ultimamente.
Erano cinque anni che Lucrezia tentava inutilmente di sdrammatizzare la morte di Aldo, un po’ come lui aveva sempre fatto col suo male: appena conosciuti, lui le aveva spiegato di questa sua leggerezza del cuore; oggi ci sono, diceva, domani chissà.
Eppure per un qualche miracolo d’incoscienza, quella precarietà loro se l’erano scordata.
Aldo aveva montato scarpe ventitré anni, finché la fabbrica non era fallita; il medico ai tempi gli aveva consigliato di fermarsi, ma lavorare bisognava lavorare, così visto che in museo passava il sindaco, ogni tanto, lei era riuscita a trovargli un posto come bidello al Malipiero.
Quello era stato il loro periodo più bello: il mattino presto salivano per il Foresto Vecchio, e il pomeriggio scendevano, chiacchierando tutto il tempo, come da ragazzi.
Aldo stando lì a scuola s’era preso anche una gran cotta per il pianoforte – d’ascoltarlo s’intende - ma lei non aveva più voluto sentirli i suoi CD; c’eran troppe serate, e viaggi – troppa roba loro, lì dentro.
Quest’inverno poi, nella disperazione piatta di una settimana di pioggia, aveva iniziato a smanettare col vecchio pc di Giacomo: Facebook se l’era fatto prima ancora di imparare ad usare la mail, raccontandosi che serviva a tenersi al passo con la vita di suo figlio, la verità è che certe sue amiche le avevano detto di poterci conoscere qualcuno, con un po’ di fortuna.
Ma la rivoluzione vera fu Spotify, tanto che iniziò ad ascoltare compilation di piano dalla mattina alla sera, pensando quanto sarebbero piaciute ad Aldo.
Capitò allora che un giorno, mentre stava riordinando in garage, dal pc sparato a palla al piano di sopra venne una sorta di ululato, cui seguirono due note limpide e una voce che non era più riuscita a togliersi dalla testa –– in francese le parve, che a lei era sempre piaciuto perché suona romantico, anche se non l’aveva mai studiato in vita sua, cosa che lo rendeva ancora più misterioso e affascinante. La sera stessa scandagliò a ritroso tutta la compilation, e saltò fuori che la canzone era l’intro dell’ultimo album di Yann Tiersen, che salvò subito fra i preferiti – tant’è che piano piano finì per ascoltarselo a tutte le ore del giorno: la malinconia di quelle melodie in qualche modo si trascinava via la sua, e i pensieri allora le si facevano leggeri.
Quel giorno però, era uno di quelli che non ci fai niente. Così verso le sei e mezza decise di uscire: fuori c’era un caldo fermo, umido, ma salendo verso il centro storico, all’ombra degli alberi, l’aria si fece via via più tenera, vivace. All’altezza della chiesa di San Gottardo prese per la Rocca, svoltando lungo la straduncola che costeggia le colline, e lì si fermò a scrutare la pianura assolata che sfumava nel blu pallido del mare appiattito all’orizzonte: linee di condensazione scarabocchiavano nel cielo laccato una scacchiera sgangherata, e la vista di quegli aerei diretti chissà dove le fece pensare a Giacomo –– alla distanza che s’era spalancata fra loro dopo la morte di Aldo, che lei non era riuscita a trovare il coraggio di colmare nemmeno il Natale scorso, quando lui era dovuto rimanere a Londra durante le vacanze a lavorare.
Per sfuggire al rimorso allora, Lucrezia prese un sentiero sassoso che s’inerpicava su, nel bosco, salendo fino in cima a Colle San Martino. Scrutando capannoni, case e palazzine immerse nel rosso vermiglio che incendiava le chiome delle spighe nei campi, si sforzò di pensare che quella era pur sempre casa: Aldo riposava lì, qualche chilometro più in basso, e Giacomo sarebbe dovuto pur tornare, prima o poi.
Giunse a casa solo molte ore dopo, pestando i piedi lungo la strada tinta dell’arancio dei lampioni, a testa bassa. La luna rischiarava appena i monti plumbei. Yann suonava ancora imperterrito, e tutto lì dentro le era parso ancora più insopportabile; così spense lui e pure le luci, preparò una bruschetta ed entrò su Facebook, scrollando chilometri di post di ex-compagni di scuola e colleghi in vacanza da qualche parte, passando un’ora ad aprire e chiudere la chat. Quando in bacheca allora le comparve un post con la foto di Yann.
E ci cliccò sopra, finendo nel suo sito, dove le chiesero di inserire i dati di una carta di credito per accaparrarsi uno degli ultimi biglietti rimasti per il suo concerto al Teatro La Fenice, giusto la settimana dopo.
E lì allora, Lucrezia fece la sua scelta.
Solo che il bancomat il sito non glielo prendeva, e altre carte non ne aveva; così pensò a Giacomo, che poteva chiedergliela a lui, e giustamente però si sentiva ‘na stronza: era da un mese che non lo chiamava, ed erano le dieci di sabato passate. All’inizio fece cinque o sei prove su un pezzetto di carta, poi, convintasi, trascrisse tutto su WhatsApp, rendendosi conto che lì le parole perdevano un qualche cosa.
Sicché alla fine, gli telefonò.
“Pronto...?”
“Oi, ciao ma.”
“Ciao...Allora?”
“Bene, bene dai.”
“Lavoro?”
“Eh lavoro a xe dura, sto periodo ci stanno mettendo sotto...”
“Ma ferie alla fine ne fate o.…?”
“Si si, penso ci diranno a settembre, poi vedrò per il biglietto – per quando mi conviene tornare dico, comunque ti faccio sapere…Te come stai?”
“Ben dai, solo un po’ stracca...”
“Casa tutto a posto?”
“Si si, stamattina go fatto un bel po’ de’ mestieri...”
“Anca in camera mia...?”
“…Esclusa camera tua.”
“Ah, va ben…’Scolta adesso sto uscendo a ber ‘na roba –, te serviva qualcosa par caso o…?”
“No no in realtà era na stupidata...”
“Dai ‘ma...”
“È che ho trovato sta roba su Facebook, prima…”.
“Vara che a roba che posta i to amici xe tutte truffe o fake news...”
“Ma che fake news-e-fake news…Ho solo visto di ‘sto concerto qua...”
“…Che concerto?”
“di ‘sto Yann Tiersen...”
“...Ah benon…”
“...alla Fenice, il quattordici.”
“...si si, sto vedendo adesso dal telefono –, ci vanno anche delle mie ex-compagne di corso, pensa ti ah...”
“Pensa ti cosa?”
“Ch’è roba per…Vabbè assa stare...”
“…”
“Comunque qua dice che inizia alle otto.”
“Quindi?”
“Ciò mamma dopo non ghe xe ‘pi treni: l’ultimo è alle nove e cinquanta e il concerto finirà boh, alle dieci e passa...”
“…”
“Quindi devi andare là in macchina e parcheggiare a Mestre, e dopo prendere il tram per piazzale Roma e.…”
“…Va beh no sarà mia ‘na roba impossibie...”
“Si ma è luglio farà un caldo boia e xe pien di turisti, e la strada bisogna saperla, fidati dopo tre anni là a studiare...”
“…E no rieso col navigatore sul cellulare...?”
“…Mamma sarà anni che no te guidi a macchina del papà, dai per piacere…”
“ ‘Scolta Giacomo…”
“E comunque pal biglietto ghe voe a Poste Pay.”
“…infatti: ti chiamavo apposta.”
2.
Il lunedì Lucrezia alle nove spaccate si presenta in banca, capelli avvolti in una bandana ed occhiali da sole, gira un bonifico di centosessanta euro a Giacomo e sguscia fuori dal tornello neanche fosse un confessionale.
La settimana scarsa che manca al concerto poi, la passa a pianificare: che strada prendere per evitare le autostrade, a che ora partire per non trovare traffico, dove parcheggiare gratis, che linea del tram prendere; il meteo non segna una nuvola per tutta la settimana, eppure arriva a sera con tutto un tempestare di angosce in testa – che ha speso troppo, che andare da sola è un rischio…
Il giorno prima di partire va a stampare quattro copie del biglietto in pdf che le aveva inviato Giacomo, prepara due panini giganti con lo speck più due litri di tè al limone che schiaffa in una borsa frigo; da un’occhiata all’assicurazione della macchina e la porta dal meccanico a farla controllare, poi va a comprare la ventosa per il telefono e pure a prelevare duecento carte, per sicurezza. Infilatasi a letto verso le nove e mezza, prende sonno alle tre e si sveglia alle sette, per fare colazione, ma torna sotto le coperte fino alle due, vestita e tutto con lo zaino di fianco, cercando di preservare le energie. Alle quattro e mezza comunque, è già per strada: cellulare incollato al parabrezza, radio in muto, Google Maps col volume a spago, occhiali da vista sotto quelli da sole tenuti con lo scotch.
Persa per strade arrotondate e paesi circonvallati di cui riconosce solo i nomi, non può fare a meno di pensare alla guerra piantata con Aldo per quella Multipla: lui ai tempi l’aveva presa nuova in concessionaria, e lei per mesi le aveva tirate fuori tutte: ch’è ingombrante, e consuma troppo, ed è poco sicura; la verità è che di girare con quel catafalco si vergognava. Avrebbe preferito un’Audi o una Volvo, usata magari, ma più di classe.
Dopo qualche viaggio però, aveva scoperto ch’era spaziosa, comoda, e le dava pure un certo ché di sicurezza: nel senso anche sbatterla, più brutta di così.
Poi c’avrebbe giurato, sotto i tappetini doveva esserci ancora un pugno di sabbia da quell’ultima vacanza in Croazia: s’immaginava di vedere Giacomo nello specchietto a fare esercizi per i recuperi a settembre; di avvertire il profumo dei panini con salsa tonnata che preparava Aldo per il viaggio: se lo sentiva lì-lì di fianco, a borbottare che, fosse stato per lui, non ci sarebbe stato tanto da organizzarsi: secondo Aldo era tutto un prenderla come viene la vita; quella che succede mentre fai i piani, come le diceva sempre. Di quella giornata rivedeva le soste infinite negli autogrill, fatte così a casaccio, le multe e la musica troppo alta di Giacomo, e poi tutta quella litigata per trovare un parcheggio. La distanza di quei ricordi sembra sommarsi ai chilometri che si sta lasciando alle spalle, quasi la strada non stia tanto srotolandosi di fronte a lei, piuttosto che le si snodi dentro; allora si scopre ad accelerare ben oltre il limite, e inizia a sentire una specie di carnevale nella pancia.
Non che sia distratta poi: infila tutte le uscite dalle rotonde al primo colpo e riesce pure a divincolarsi in quel budello di sensi unici ch’è Mestre centro, quando perfino il navigatore del telefono getta la spugna. Nel momento in cui parcheggia sono le sei e mezza. Entrata nel primo tabacchino, compra subito il biglietto e una stecca di fondente; vincendo l’ansia poi salta due corse e si spazzola in velocità uno dei panini, per farsi forza, seduta sulla panchina della fermata.
Salita su, scrive a Giacomo e gli manda un selfie, tenendo sempre sotto controllo la posizione da Google Maps, assicurandosi che il tram rispetti la tratta. È l’ora di punta: le cabine si riempiono in un attimo e non resta mezzo palmo dove appoggiarsi o aggrapparsi. Schiacciata dalla gente contro il finestrino, a uno stop Lucrezia nota, sul marciapiede bollente, un anziano in canottiera, braghette e ciabatte scalcagnate, con un cocker decrepito al guinzaglio, sbavato e ansimante: non riesce a capire chi dei due è più vecchio, o chi sta trascinando chi, e d’improvviso tutta quella scena le punge il cuore in una fitta di compassione: quasi da quel finestrino stesse scrutando avanti una decina d’anni.
Allora guarda tutti quegli studenti, e i pendolari, perdendosi fra i loro discorsi, e prova la netta sensazione di non essere più all’altezza del mondo e della gente. Inizia a sudare, non trova respiro, il sole sopra le ciminiere di Marghera le sputa i suoi raggi dritti in faccia e ogni sguardo che le si schiaccia addosso per più di due secondi, pare surriscaldarla. Fra una fermata e l’altra, ci vuole più di mezz’ora al tram per arrivare in piazzale Roma.
Uscita dalla cabina incandescente, la vista dei ponti che si slanciano verso i palazzi, oltre gli alberi, le rinfresca un po’ i pensieri: sono passati tanti di quegli anni che a Venezia le pare di esserci di nuovo per la prima volta. Ma non c’è tempo di meravigliarsi troppo: data un’occhiata al cellulare, quello segna le sette e venti: è in ritardo.
Così fa per impostare la destinazione, e la mappa però si sgrana, l’app non trova connessione, il telefono le vibra fra le mani: è un sms della Wind - dice che ha superato la soglia di traffico mensile.
Lucrezia rimane a fissare quel messaggio un minuto buono: il telefono stretto fra le dita sbiancate, come l’ultimo appiglio spezzato di chi precipiti nel vuoto.
Istintivamente fa una ventina di passi verso il tram di ritorno a Mestre, poi però si guarda un attimo intorno: indiani che lanciano trottole volanti, venditori ambulanti di capelli e ombrelli, polizia, militari, scolaresche in gita, vecchi e famiglie e adolescenti e innamorati e tutto un mare di gente e di vita.
E allora di nuovo, fa la sua scelta.
Si mette in ascolto, coglie la bestemmia di una signora seduta su una panchina, le si avvicina, chiede di un tabacchino e quella con tipica spocchia lagunare le accenna un gazebo assediato da una frotta di turisti; lei però non è che ha tempo da aspettare: mostra il telefono, spiega del concerto, sono in ritardo, le dice, e quella allora suggerisce di andare fino in piazza San Marco: bastava seguire i cartelli al primo piano dei palazzi; poi avrebbe dovuto chiedere, ma il teatro era lì in zona.
Superata la chiesa dei Tolentini, il rintocco argentino delle sette e mezza riverbera leggero fra tetti e campanili. Con lo sguardo rivolto all’insù, Lucrezia segue le frecce in un budello di calli che si apre, a tratti, in campielli da cui la luce si dilegua oltre i caseggiati nel cielo amaranto: la penombra inizia a fiaccarle la vista, il vestito lungo le accorcia il passo, ogni due vicoli deve imbucarsi a sistemarsi le mutande, e i piedi a furia di scalare ponti iniziano a pulsarle, costretti in quelle scarpette a mezzo tacco. Si trascina così per mezz’ora, accecata dallo sfavillio di negozi, bar e ristoranti, finché lungo una calle angusta l’alito del mare non le gonfia appena il vestito, sfiorandole il viso come una carezza inaspettata.
Seguendo quel profumo di salsedine si ritrova in una via più ampia, terminante in un portale orientale che ritaglia un brandello di Piazza San Marco, mascherata nel crepuscolo precoce dei palazzi. Rinfrancata dall’aria frizzante che spazza sotto i portici, Lucrezia si liscia il vestito con un che di felino, entra nel primo bar e chiede della Fenice: un cameriere l’accompagna fuori, e col menù sotto braccio indica l’altro capo della piazza: uscita di là, le dice, la seconda calle a sinistra, dieci minuti ed è arrivata. Lucrezia allora esce da sotto portici e si volta verso la Torre dell’Orologio: le sette e cinquantacinque.
Toltasi le scarpe allora, le caccia nello zainetto e attraversa la piazza correndo come non faceva da vent’anni, levando stormi di piccioni, coi polmoni che bruciano, lasciandosi dietro tutta una scia di sguardi dalle vetrine di caffè e negozi alla moda. Imboccata la svolta, s’infila in una calle che sfocia proprio nel campiello dominato dal teatro, austero e maestoso come un templio, e nell’istante stesso in cui varca le colonne dell’entrata, nel cielo sfavilla il suono plumbeo di una campana, da qualche parte.
Dentro poi, senza badare troppo all’etichetta, si mette a sventolare il biglietto dietro a uno degli inservienti in smoking: quello l’avverte che Yann è in ritardo; così lei ne approfitta per darsi una rinfrescata: è sudata fradicia, sgrondata fino alle calze, e tenta di asciugarsi il vestito sotto le ascelle col soffiatore del bagno, tamponandosi la schiena con della carta igienica, sperando nelle luci basse.
Il palco laterale, scopre, si trova proprio sopra il palcoscenico, vicinissimo. La prima fila però è già tutta occupata, così Lucrezia si mette a calcolare la distanza per potersi alzare a guardare, trascina avanti e indietro una sedia – e in quel momento Yann compare al pianoforte: senza fretta, nonostante il ritardo, un po’ arruffato, il ciuffo di capelli grigi sparato per aria. Lucrezia se ne sta in piedi mezz’ora a guardarlo, seguendo le sue mani scivolare limpide lungo la tastiera, finché sfinita con le gambe che scricchiolano si accascia sulla sedia, e allora la stanchezza la investe tutta insieme, come un’onda tiepida e pastosa. Ascoltandolo e basta, perdendosi nella bellezza oscurata del soffitto baluginante di affreschi barocchi, Lucrezia durante un breve intermezzo chiude gli occhi giusto un attimo, e l’attimo dopo ecco gli applausi, e le luci.
Alzatesi per andarsene, le persone in prima fila se la trovano stravaccata senza scarpe, le calze rotte sulle punte dei piedi, la borsa in terra come un sacco, con un sorriso però di quelli che ne vedi solo uno ogni tanto…
Uscita dal teatro ormai deserto, con gli inservienti che ridono e scherzano rilassati mentre chiudono i portoni d’ingresso, Lucrezia va a sedersi sulla scalinata di un vecchio palazzo.
Su uno dei gradoni stende la sua tovaglietta cerata a stampe di limoni, tira fuori la stecca di fondente ormai mezza sciolta, il panino che resta e un bicchierino per il tè.
Mangia senza fretta, osservando la gente che passeggia e chiacchiera per le calli: tutto pare esserle venuto fuori più buono, perfino il solito tè al limone in bustina; si gode in bocca ogni sorso, ogni singolo morso in modo diverso, pieno.
Si incammina sulla via del ritorno senza badare troppo alle indicazioni, mano a mano che infila una svolta dietro l’altra si scopre leggera, tanto da sentirla sua quella Venezia, prima così sconosciuta, di conoscerne ogni calle, ogni singola luce fra tutti quei palazzi.
Dopo tanto tempo, era di nuovo pronta per qualsiasi cosa potesse succedere.
Quando ormai inizia a riconoscere incroci già percorsi, di colpo, nel mezzo di un ponte, realizza di non aver fatto nemmeno una foto o un video del concerto da inviare a Giacomo. Niente che testimoniasse quella giornata incredibile. Così strada facendo, si convince di dovergliela raccontare, in qualche modo.
Giunta in Piazzale Roma, controlla gli orari dei tram per Mestre, e si mette a camminare, avanti e indietro; poi distratta alza lo sguardo, e allora nell’aria nera scorge lo scintillio di un aereo; e passa un minuto intero che a lei pare durare solamente un istante. Così torna sulla banchina deserta, da un’occhiata ai bus diretti all’aeroporto, si guarda intorno, sorride.
E di nuovo, fa la sua scelta.
Marco Brion è nato a Thiene il 25 Marzo 1991. Attualmente vive in Provincia di Treviso, dove svolge la professione di ghostwriter, copywriter e digital strategist freelance.