La biglia cominciò a scivolare sull’asfalto in discesa. «Prendila!», disse Anna mentre già correvo da quando le era sfuggita di mano. «Ferma, fermati, ferma», ripetevo a denti stretti. La biglia si schiantò contro il muretto dell’aiuola, fece un piccolo balzo, si mosse ancora e si fermò. La raggiunsi trafelato. Mi chinai e la guardai: era trasparente e dentro aveva una fogliolina blu e gialla che a osservarla rotolare, diventava verde. «Che fai?», mi urlava Anna alle spalle. Mi voltai: si era alzata dalla panchina e restava ferma, a tentennare mordendosi il dorso della mano, ripetendo: «È lì, è là, l’hai presa?», balbettando alla fine sulla “p”. Allungai la mano e presi la biglia. La tenevo fra il pollice e l’indice, così avrebbe potuto cadere di nuovo, scivolare. E chissà allora cosa avrebbe detto Anna, e cosa avrei potuto dirle io? “Ce l’avevo proprio qui, la tenevo, ma mi è scappata…”. Mi alzai e tornai indietro. Tenevo la biglia chiusa nel pugno. Guardavo per terra mentre tornavo da Anna, e solo quando le fui di fronte rialzai lo sguardo. «S’è persa?», disse e si strofinò l’occhio con l’indice. Misi le braccia dietro la schiena e cominciai a recitare: «Ma dov’è la bella figlia? Ma dov’è la sua biglia? E la foglia che ha nel cuore è il segreto del suo grande amore…», poi stesi i pugni verso Anna. Lei spalancò gli occhi e arricciò il labbro, scoprendo gli incisivi storti.
Cominciò a scrutare i pugni: prima il destro, poi il sinistro. Aggrottò la fronte e si morse il dorso della mano:
«Dai, dimmi dov’è!»
«No. Lo devi indovinare.»
«E sei poi sbaglio?»
Anna mi guardò: aveva le ciglia bagnate come se avesse pianto. Mossi un po’ le dita della mano sinistra. Lei se ne accorse e subito la indicò: «Qui!». Capovolsi il pugno e aprii lentamente le dita: «Meno male…», disse Anna e sorrise. Prese la biglia dal mio palmo, la strinse e la portò al petto socchiudendo gli occhi.
«La mia biglia, è proprio la mia biglia.»
«Però non farla cadere più.»
«Sei stato tu a farla cadere!»
«Perché tu me l’hai data male.»
«Non è vero! Per una volta che te la volevo fare vedere bene… sei tu che hai le mani malate.»
Ci sedemmo nuovamente sulla panchina del giardinetto. Io e Anna avevamo 24 anni e non ci eravamo mai toccati. Solo una volta le avevo preso la mano, lei l’aveva subito lasciata e io allora avevo riso dicendole che era tutto uno scherzo.
«Insomma, Anna, che mi dovevi dire?»
«Niente. Ti volevo far vedere la biglia.»
«Già l’avevo vista.»
«Sì, ma magari non te la ricordavi più. E poi non te l’avevo mai data in mano.»
Presi il pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans, lo aprii, diedi un colpetto sul fondo, lo portai alla bocca: «Quindi non mi devi dire niente», dissi, afferrai una sigaretta con i denti, l’accesi, inspirai e soffiai via il fumo. Anna aveva quella canottiera grigia che aveva comprato al mercatino; quella con il teschio stampato sul davanti. Il mese scorso l’aveva persa. Aveva cercato nei cassetti, nell’armadio, sotto il letto. Mi aveva domandato se per caso l’avessi presa io. Le avevo risposto che non me ne facevo niente della sua canottiera, che era proprio una cretina a pensare che ce l’avessi io. Poi ero tornato a casa e avevo messo tutto sottosopra: avevo frugato tra i vestiti, avevo spostato i mobili, avevo cercato dappertutto. L’indomani, mi aveva detto di averla ritrovata, tutta sgualcita, dentro lo zaino per le gite. Mi aveva chiesto scusa ed ero rimasto deluso.
Anna tossì e scacciò via il fumo agitando una mano davanti al naso:
«Oggi proprio non lo so cos’hai. Quando fumi è perché sei nervoso.»
«Non è vero. Ma poi che devo avere?»
«Non lo so, qualcosa…»
«E grazie, tu stai qui e non mi dici niente. Prima mi dici di vederci e poi non parli.»
Anna mi guardò, le spuntarono due piccole rughe al centro della fronte: «Cosa ti devo dire? Domani parto, lo sai.»
«Parti, è vero.»
Anna aveva un neo vicino l’occhio destro. In estate metteva sempre gli occhiali da sole grandi col bordo bianco. Le stavano male, glielo dicevo quanto erano brutti ma lei non mi ascoltava e mi interrompeva facendo: “Bla bla bla!”. Per tutta l’estate non vedevo più il neo e quindi non la riconoscevo. Continuavo a salutarla e parlarle solo perché mi sembrava giusto così, perché sapevo che la dovevo sicuramente conoscere, anche se mi veniva difficile. Così, certe volte mi stancavo e mentre mi parlava le mettevo una mano in faccia, le afferravo quegli schifosi occhiali e iniziavo a correre mentre mi urlava parolacce. Poi mi fermavo, mi voltavo a guardarla, per riconoscerla, finalmente: stava in piedi, ferma a fissarmi, seria, e teneva una mano vicino l’occhio, con un dito sul neo.
«E dove vai? Dove parti?»
«Ma lo sai!»
Anna era stanca della nostra città, diceva sempre che si sarebbe ammalata a restarci. Era brava in inglese, molto più brava di me. Partiva per l’Inghilterra. Andava a fare la cameriera anche se odiava parlare con gli estranei. Anna aveva sempre quella biglia in tasca da quando aveva nove anni. Quando era nervosa la stringeva forte finché le nocche non gli diventavano bianche, e sussurrava: “Proteggimi, proteggimi…”. Altre volte se la infilava in bocca e la passava da guancia a guancia come una caramella, la risputava fuori, la strofinava sulla maglietta: “Adesso è pulita”, diceva e sorrideva.
Era l’ultimo pomeriggio che avrei visto Anna. Le avevo detto: “Facciamo questo gioco: parliamo come se domani non parti”. Lei mi aveva detto che ero un cretino, che al contrario, voleva dirmi tutto in modo diverso, parlare delle cose nuove che stavano capitando. Voleva raccontarmi delle sue valigie, di cosa aveva messo dentro e di come ci fosse dovuta saltare su con le ginocchia per chiuderle; degli avvertimenti che le aveva fatto sua madre sul non bere e sul non dimenticare di mangiare la frutta; di come non le sarebbe mancato per niente guidare la macchina; del numero di telefono che avrebbe dovuto cambiare. Poi era rimasta in silenzio, mi aveva guardato, aveva battuto una mano sulla coscia e aveva sorriso a bocca chiusa. Così, avevo cominciato a parlare come se lei non dovesse partire: «Domani ti va di andare in quella nuova gelateria che hanno aperto? Ah … non mi ricordo come si chiama, forse Gelatone, Gelatiere. Ci siamo passati davanti l’altro giorno, ti ricordi? Sì. Domani tu prendi pistacchio e io prendo nocciola. Se fanno buoni questi gusti, allora sono bravi a farli tutti. Domani a che ora ci vediamo? Domani possiamo andare anche al parco di pomeriggio, porto le racchette, ti va? Però dobbiamo stare attenti perché c’è rimasta solo una pallina. Non fare al solito tuo che ci metti troppa forza e poi la fai volare, e poi devo andare io a riprenderla perché tu non ti vuoi muovere, e poi grazie che alla fine sono io quello più sudato. Sempre se domani non fa brutto… ma domani ci sarà il sole, me lo sento. Guarda, il cielo è pulito. Domani farà bello». Anna ascoltava senza guardarmi, si mordeva il dorso della mano. Poi si era voltata verso di me, aveva riso e aveva gli occhi strani, il naso strano, la bocca strana, il mento strano. Sembrava già un’altra persona. «S’è fatto tardi», disse e si alzò dalla panchina. Mi alzai anche io, gettai la sigaretta per terra e la pestai. Anna mosse la mano verso di me: aveva il segno rosso dei denti sul dorso. Avvicinai la mano, la misi sotto la sua, lei ci lasciò cadere dentro la biglia: «Conservala tu», disse. «Ciao», aggiunse e fece il saluto militare tirando fuori la lingua, io lo ricambiai come facevamo sempre. Si girò e cominciò a camminare. Uscì dal cancello del giardinetto, risalì il viale fino alla fine della strada, poi prese a destra. Non si voltò per tutto quel tempo.
Noemi De Lisi (Palermo, 1988), laureata in Giornalismo per uffici stampa all’Università di Palermo. Nel 2009 alcune sue poesie sono pubblicate su “Nuovi Argomenti” N°45. Dal 2013 al 2014 frequenta da borsista il corso di scrittura “L’anno del romanzo” con Giulio Mozzi e Carola Susani, organizzato e promosso dal Centro Studi Narrativi Le città invisibili. Nello stesso periodo vince la XII edizione del concorso Subway-letteratura. Nel 2015 è inserita nell’antologia “Post ‘900. Lirici e narrativi” (Ladolfi) con una prefazione di Carlo Carabba. Nello stesso anno, il suo racconto “Carcassa” viene pubblicato sul blog letterario “Vibrisse – bollettino di letture e scritture” a cura di Giulio Mozzi.