Era il primo inverno in cui lavorava nella discoteca, un inverno di venerdì e sabato notte in piedi fino alle sette del mattino, le ore trascorse nel guardaroba senza riscaldamento, a tenere d’occhio centinaia di cappotti e borse battendo i denti, una sciarpa girata dieci volte intorno al collo, in esilio al piano di sopra in un edificio occupato, mentre da sotto saliva l’eco della musica e delle risate, delle chiacchiere e delle grida, così ogni venerdì e sabato, ormai da due mesi, e quando tutti se ne andavano e ritiravano anche l’ultimo cappotto c’era la gara a far presto, c’erano i bagni da pulire, con la segatura e la candeggina, e pulendoli lei pensava che da lì in poi avrebbe potuto fare tutto, che una volta che pulisci ogni venerdì e ogni sabato un cesso con i segni neri delle impronte delle scarpe sulle mattonelle bianche del pavimento sporco di piscio di decine di sconosciuti, allora non esistono più fatica né livello di insoddisfazione, e da lì sarà soltanto una salita in alto in alto fino alla luna, e dopo i bagni si passava alla pista da ballo, una pista fatta di assi di legno da cui occorreva staccare lo sporco passando il sapone per decine di metri quadri, prima, e l’acqua, poi, e infine la cera, ché lucidasse, come se la gente di sera in un locale con la musica al massimo volume e le luci soffuse si mettesse davvero a esaminare il grado di brillantezza dei pavimenti.
Era il primo inverno in cui doveva vivere e studiare e laurearsi in una città estranea senza la borsa di studio, senza il lavoro da babysitter, senza alcun sostegno, andando avanti di settimana in settimana con una manciata di soldi da cui accantonare l’affitto, le bollette, la benzina, le spese, e quando poi si riprendeva e recuperava il sonno arretrato, quando il martedì di nuovo usciva di casa all’ora del mattino in cui nel fine settimana era andata a dormire, con in tasca i soldi rimasti andando al mercato si ripeteva come un mantra “una frutta e una verdura, una frutta e una verdura”, e per necessità mangiava soltanto roba in offerta o sul punto di marcire, talvolta quasi regalata, fino a quando, tornando il venerdì sera, aveva scoperto che alle cinque e mezzo del mattino un trasportatore lasciava la fornitura di frutta e verdura al supermercato sotto casa, proprio di fronte all’ingresso, dove non c’erano né telecamere né altri apparecchi, e così avevano iniziato, lei e le sue compagne d’appartamento, a tirarsi appresso qualche pezzo di frutta e di verdura, un paio di mele, tre zucchine, una busta d’insalata, e nel rubarle avevano comunque l’accortezza di non portarsi via le primizie, a eccezione del giorno in cui ne morivano dalla voglia e si erano prese anche le fragole, e nel portare via quattro pezzi di frutta e verdura semplici, i più comuni, si sentivano ladre sì, ma soltanto al cinquanta per cento.
Era il primo inverno in cui si risvegliava a pomeriggio inoltrato, con l’orologio che segnava le cinque, facendo un calcolo si rendeva conto di aver dormito nove o dieci ore, e sentiva i muscoli tesi dentro le braccia, nei punti forzati per passare il sapone l’acqua il lucidante, e con i muscoli tesi si metteva a preparare un pasto in cui unire colazione pranzo e cena, e quando poi aveva ancora fame, verso le dieci, prima di uscire per tornare alla discoteca, si teneva l’appetito per uno di quei tramezzini che portavano i colleghi, e che da quel momento in poi in un misto di sottilette e maionese, pomodoro e mozzarella, non sarebbe mai più riuscita a mangiare senza sentire uno strano senso di disagio allargarsi dalla bocca alle braccia, come se il corpo reagisse in automatico, ricordando meglio di lei quell’inverno lontano.
Era il primo inverno in cui portava i capelli corti e i pantaloni larghi con le magliette attillate, sempre gli stessi abiti, un trucco invisibile, decisa a ridurre ogni esigenza allo stretto necessario, una verdura e una frutta, una maglia e un pantalone, una coperta e un lenzuolo, un’amica e nessun amante, un pasto al giorno e un caffè la notte, per farsi bella una matita per gli occhi e nient’altro. Così un pomeriggio di domenica, dopo due mesi di lavoro sonno fame, aprì gli occhi e nell’oscurità della stanza capì di aver appena messo a fuoco, fin troppo a fuoco, la serranda abbassata e i punti socchiusi da cui filtrava la luce del giorno, e se riusciva a vederli tanto bene significava che era andata a dormire senza togliere le lenti a contatto. Corse in bagno e le staccò a fatica, le immerse nel loro piccolo contenitore, inforcò gli occhiali, si preparò un caffè e restò a chiacchierare con una coinquilina, e intanto a mano a mano che l’orologio girava, giravano anche le lacrime, inarrestabili, contro la sua volontà, una fontana dall’occhio sinistro, un’esondazione. Alle nove di sera la coinquilina la costrinse a vestirsi, scendere in strada, attraversare i vicoli e salire scalinate, fino al pronto soccorso.
Come mai siete venute qui e non all’oftalmico, chiese l’infermiera all’accettazione e poi da lì come in un lampo ecco si ritrova seduta davanti a un medico che le dice che ha un graffio alla cornea, un danno serio, da tenere controllato, e se ne dovrà stare per settimane con l’occhio completamente bendato, un po’ pirata un po’ Lady Oscar, mettendo una crema apposita che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, se avrà molta fortuna, riparare il danno.
Metteva gli occhiali ovunque andasse, dopo aver tanto lottato per non indossarli più. Un paio di occhiali dalla montatura verde, di una marca d’alta moda, pagati grazie al lavoro in un call center dell’estate prima. Occhiali verdi, capelli corti, occhio bendato, e l’altro occhio a compensare coperto da una quantità di trucco, un miscuglio di azzurro e verde, steso fino a ricreare il colore del mare incontaminato, e con l’occhio coperto era costretta a uscire, in un mondo appiattito alla vista, e doveva entrare in università e recarsi a lezione e salutare come se niente fosse quel tipo carino, con i capelli mossi e gli occhi scuri, che già fino a quel momento a lei non si era mai interessato molto e così, con l’occhio da Lady Oscar, arrivò a interessarsi ancora meno.
Tre volte al giorno applicare il disinfettante.
Stendere la pomata sull’occhio.
Riporre la garza e il lungo cerotto tutto attorno per tenerla ben salda.
Ripensare, a ogni gesto, al costo incredibile di quei farmaci per lei che risultava, agli occhi dello Stato, ancora a carico dei genitori da cui era scappata, ai quali non poteva chiedere né raccontare nulla, e così doveva andare con un occhio solo, di nuovo nel fine settimana, nel guardaroba gelido, a ritirare cappotti e borse, di fronte a ragazze eleganti e bellissime, belle come dive, al suo occhio, e riuscì almeno a ottenere di non pulire più il bagno né il pavimento, perché era evidente che nella sua condizione non poteva metterli in ordine a dovere, e non le veniva mai in mente, in quelle lunghe notti immobile al freddo da sola, appoggiata a un vecchio banco rubato da una scuola del quartiere, in bilico su una vecchia sedia traballante, anch’essa rubata dalla scuola del quartiere… ecco immersa lì dentro, con un occhio cieco e la vista al cinquanta per cento, il corpo freddo al cinquanta per cento, la pancia vuota al cinquanta per cento, non riusciva nemmeno a immaginarsi un’esistenza diversa né un mondo nuovo, c’erano solo il buio e il silenzio e i conti da far quadrare. Era il primo inverno in cui ha dovuto continuare a vivere con un occhio solo, una vita lunga e felice, tutta intera.
Manuela Piemonte è nata a Milano nel 1978. Lavora come redattrice e traduttrice per l’editoria cartacea e digitale, e scrive per editoria, cinema e teatro. Laureata in Lingue e Letterature Ispanoamericane all’Università La Sapienza di Roma e diplomata in Sceneggiatura alla Civica Scuola di Cinema di Milano, è alumna di Biennale College Teatro e del TorinoFilmLab. I suoi racconti sono stati finalisti e/o vincitori in numerosi premi letterari, e sono apparsi su riviste e in raccolta: Linus, Giallo Mondadori, Subway Edizioni, Subway Tabloid, la serie “Toscana tra Crimini e Misteri” de La Nazione, la rivista letteraria Storie. Garden, il suo primo romanzo, è stato pubblicato in Italia (Mondadori, 2013) e in Spagna (Anaya, 2014) con lo pseudonimo Emma Romero.