Festa, un racconto di Valentina Maini

In principio andavamo in piazza per l’acclamazione una volta alla settimana. Era per noi il giorno di festa. Vi dedicavamo gran parte delle nostre energie e delle nostre attese. Noi uomini indossavamo un completo elegante, appena stirato, scarpe lustre, talvolta una cravatta, noi donne ci preparavamo sin dal primo mattino, studiavamo ogni particolare per apparire luminose, lisce, desiderabili. In principio noi bambini restavamo a casa. In principio la festa non era per noi. Sapevamo che le cose sarebbero cambiate, che era in atto una rivoluzione. Ma aspettavamo in silenzio, potevamo solo immaginare. Noi adulti uscivamo di casa, a braccetto, o mano nella mano, e camminavamo come se splendesse sempre il sole, e se non c’era sole, lasciavamo che la pioggia ci bagnasse, sorridendo, come se si trattasse di un bagno purificatore. Arrivavamo che la piazza era già piena di molta gente come noi, e aspettavamo vicini, stretti, l’inizio della cerimonia. Il proiettore veniva acceso non appena calava il silenzio. Il telone bianco si colorava di una tinta leggermente più scura che i più attenti riuscivano a riconoscere, se non c’era troppa luce, se le condizioni atmosferiche erano favorevoli alla visione. Quel leggero incremento di ombra, quel distacco dal bianco iniziale, indicava che il rito era cominciato.
In principio venivano scelti. In principio erano pochi, pochissimi. Li guardavamo ammirati, talvolta invidiosi, eppure consci del nostro potere su di loro, del nostro assoluto potere su di loro. In qualche modo ci consolava della nostra piccolezza, avevamo l’impressione che ci facesse crescere. Avevamo l’impressione che ci rendesse migliori. Non potevamo sapere chi fossero, fino alla proiezione. A quel punto la loro immagine appariva e finalmente potevamo avere accesso ai loro occhi, alla forma dei loro occhi, al colore e alla grana della pelle, al loro modo di guardare, di guardarci. Soprattutto, potevamo avere accesso all’immagine che essi stessi volevano consegnare a noi, al modo che avevano scelto per presentarsi a noi. Questa era un’immagine immobile, immutabile: infinita. Una sola foto. Una sola foto per dirci chi erano e quale fosse la loro direzione, in che modo avevano scelto di condurre la loro esistenza e perché. Una sola foto per supplicare salvezza. Di fronte a noi si stagliavano sguardi puntati verso l’obiettivo, profili più o meno definiti, espressioni e luci che indicavano un carattere, un umore, un certo modo di osservare il mondo. Questa era la fase dell’esposizione. Nessuno guardava più gli uomini e le donne, minuscoli, sul palco: solo le loro foto esistevano, proiettate sullo schermo che noi fissavamo ipnotizzati, sedotti, come distrutti dalla fame. Non dovevamo fare altro che votare, scegliere a quale sguardo dare fiducia, a quale sguardo credere. A quale fotografia attribuire bellezza. In principio esistevano metri di giudizio, e ad essi dovevamo attenerci tutti. Questi potevano riguardare, per esempio, un certo equilibrio dell’immagine, l’uso proporzionato o originale dei colori, la morale o il messaggio implicito allo scatto, l’oggettiva bellezza o espressività del volto. Non potevamo sapere che presto, questi criteri, avrebbero fallito. Non potevamo immaginare niente. Tutto quello che sapevamo fare era giudicare in base ai principi che ci venivano forniti e che a noi dovevano sembrare eterni. A quel tempo era bello un volto nobile, simmetrico, dalla pelle chiara e dagli occhi a mandorla. A quel tempo era attraente una fotografia composta, dai colori caldi e accesi, in cui ogni contorno fosse definito, senza sfumature. A quel tempo avevamo solo idee certe, senza crepe. Eravamo tutti d’accordo. Non potevamo avere dubbi. La fotografia rimaneva proiettata per tre minuti. Una volta terminati, solo allora, toccava a noi.

In principio non eravamo consapevoli di quanto potessimo ferire. Ci limitavamo ad acclamare o a fischiare o a dare segni di totale indifferenza, cercando di seguire le direttive ufficiali. Forse non ce ne rendemmo mai conto. Le nostre reazioni erano, in ogni caso, civili, si muovevano all’interno di una stretta gamma di risposte possibili. Il nostro giudizio veniva misurato in qualche modo, anche se non ci venne mai spiegato con che strumentazione. Pensavamo si trattasse di un apparecchio sensibile al rumore, al crescere del rumore, all’intensità dei nostri applausi. Pensavamo esistesse un marchingegno capace di misurare quanto ogni suono distasse dal silenzio. Il silenzio era il risultato più temuto. Spesso loro raccontavano che, dal palco, il silenzio assumeva volti spaventosi, dicevano che avrebbero fatto qualsiasi cosa purché qualcuno parlasse, fischiasse, avrebbero preferito un insulto o un’oscenità. Allora pregavano. Pregavano per un applauso, un fischio, un insulto, un’oscenità. Dicevano che non potevamo nemmeno immaginare cosa volesse dire osservare il proprio volto, smisurato, immobile, stagliarsi su una piazza silente. Dicevano che era come una ghigliottina che non cade, che non si decide a cadere. Dicevano che era come vedere la propria testa spaccata, il sangue che esce a fiotti, e non riuscire a morire. Sì, molti di loro dicevano che era come non riuscire a morire. Eppure noi stavamo zitti. Se ci andava, stavamo zitti. Noi donne, e noi uomini, se una fotografia ci sembrava banale, un volto privo di interesse, ordinavamo a noi stessi il silenzio. In principio, infatti, non potevamo avere pietà.

Loro, i pochi, assistevano dal palco all’acclamazione. Una volta mostrate tutte le fotografie, una volta esposte alla piazza per i tre minuti consentiti, si comunicava il verdetto. Loro attendevano schierati, uno a fianco all’altro, la schiena rivolta alla platea. Non esistevano vincitori, ma esisteva un perdente, uno solo. L’addetto poneva la mano sulla spalla di chi era stato scartato. A quel punto la foto del suo volto veniva incollata nel registro bianco, segno che il rito era terminato. A partire da quel momento, di quell’uomo, di quella donna, non si sarebbe più saputo nulla.

Un giorno un uomo raccontò della volta in cui rischiò di essere espulso, la volta in cui per poco la sua foto non venne incollata nel registro bianco. Voleva essere ascoltato, ma noi fingemmo di non sentire. Si mise a sbraitare tra la folla, e noi continuammo a fingere di non ascoltarlo. Ma lo ascoltammo. Diceva che non avremmo mai più dovuto stare zitti. Diceva che il silenzio era la nostra colpa. Diceva che era il nostro silenzio a condannare gli esseri umani all’espulsione. Che anche in futuro, avremmo ucciso stando zitti. Poi il suo volto scomparve tra gli altri poco prima che il rito iniziasse. Noi non rispondemmo.

Col tempo qualcosa cambiava, ma in maniera impercettibile, per noi che vivevamo, che non potevamo fare altro che vivere. Se fosse esistito qualcuno fuori – fuori dalle regole, dalla piazza, dal mondo – se un morto, per esempio, avesse potuto guardarci, si sarebbe accorto di tutto, se avesse potuto parlare, ci avrebbe detto tutto. Forse, allora, avremmo potuto fermare il meccanismo, avremmo potuto per lo meno provarci. Invece noi continuavamo ad andare in piazza per l’acclamazione, continuavamo ad applaudire, rifiutare, decidere, mentre il rito, lentamente, si trasformava. All’inizio pensavamo fosse solo imprecisione. Come se le maglie si stessero allargando, come se qualcuno avesse smussato gli angoli di un procedimento che fino ad allora ci era parso infallibile. La cerimonia era semplicemente meno esatta, i minuti di esposizione variabili, l’ufficialità dei gesti meno conclamata. Tutto era uguale, nulla di sostanziale era mutato. Eppure, sotto i nostri occhi ignari, tutto cominciava a franare.

Fin quando ci dissero che avevamo la possibilità di dire qualunque cosa, che potevamo lasciarci andare. Il comunicato fu trasmesso un giorno di festa come un altro. La voce arrivava da chissà dove, ma parve a tutti noi vicina. Come una specie di passaparola che non giungeva dall’alto, ma intorno, come un consiglio sussurrato all’orecchio. Dimenticate. Dimenticate tutto quello che vi è stato detto. Ci dissero che avevamo molti diritti, e il dovere di esercitarli. Ci dissero di scordare i ritmi, le regole, che potevamo scegliere noi il tempo di esposizione della foto in piazza, che potevamo reagire come volevamo a qualsiasi immagine, ci dissero di abbandonare educazione, parametri di bellezza, che potevamo fare quasi tutto. Noi non ci credemmo. All’inizio continuammo a obbedire. Pensavamo fosse una prova, che ci stessero mettendo alla prova. Pensavamo che ne andasse della nostra vita.

Finché cominciammo a salire sul palco, a esporre le nostre foto. Un giorno qualcuno decise che era venuto il tempo di passare dall’altra parte, di vedere la piazza dal lato dei vincenti. Di assumersi dei rischi, il rischio di sparire, di entrare nel registro bianco e sparire. La prima volta, fu il gesto più straordinario cui avessimo mai assistito. La prima volta fu come l’unica volta, l’unica in cui ci sembrò di guardare una cosa viva. Uno dopo l’altro, quegli uomini e quelle donne salivano sul palco, aggiungendosi ai pochi. Quegli uomini eravamo noi. Quelle donne eravamo noi. Uno dopo l’altro, eravamo noi a salire, prendere il posto che fino ad allora ci era stato negato. Uno dopo l’altro, eravamo noi ad essere guardati.

I nostri volti erano immensi. Eppure tradivano. Le sopracciglia, gli occhi, la grana della pelle, i denti, tradivano. Ci vergognavamo, pregavamo. Affinché nessuno si accorgesse dei disequilibri, delle imperfezioni, di una qualche forma di pudore annidata tra i nostri lineamenti. Non appena la folla mostrava segni di approvazione, il nostro terrore svaniva, la nostra vergogna non era più vergogna, ma orgoglio. Ci sembrava di meritare tutto quell’amore. Se la folla non applaudiva, invece, se non urlava, provavamo a scendere dal palco, a scappare, mescolandoci a tutti gli altri. Era possibile, spesso riuscivamo a farlo. Nel registro bianco i nostri nomi venivano scritti, poi cancellati, modificati. Le nostre foto si staccavano, rimanevano tra le pagine come segnalibri senza importanza. Il registro passava di mano in mano, e ognuno poteva apportare le modifiche di cui aveva bisogno. Pensavamo di non correre più nessun rischio.

I giorni di festa cominciarono ad aumentare. Presto furono più frequenti dei giorni feriali. Non esisteva più una scansione ufficiale, semplicemente ci si recava in piazza in qualsiasi momento, e sempre qualcuno aspettava, e sempre qualcuno esponeva una sua foto. La piazza non era più piena come un tempo, ma lo era sempre. Alla minore densità, si sostituiva una maggiore frequenza, una perfetta distribuzione. Il tempo aveva in qualche moto diluito la cerimonia, trasformando il rito originale in una serie di copie sbiadite in cui i particolari non si riuscivano più a vedere, in cui la piazza era uno spazio dipinto con un colore sfumato, uniforme. Una sostanza perfettamente omogenea, senza grumi, senza ristagni di colore. Priva di qualsiasi ufficialità. L’ingranaggio cominciava a incrinarsi, la sua forza sembrava spegnersi giorno dopo giorno. Non esisteva più una vera e propria cerimonia, ma un insieme di regole approssimative che sembravano appartenere a un tempo lontano. Così, almeno, ci sembrava. Non sapevamo che tutto era illusione. Non sapevamo che proprio dentro a quel caos si celava la forza del rito. Che esso era nato proprio per disperdersi, a poco a poco. Che, seppure ignari, noi stavamo ancora obbedendo.

Il palco diventò presto un’abitudine. Smise quasi di fare paura. Noi bambini ci guadagnammo la possibilità di assistere alla cerimonia e in seguito, a patto che ci sentissimo pronti, di esporre la nostra fotografia. Ci dissero che questo significava crescere. Noi donne accompagnavamo i bambini fino alle scale che portavano verso il proiettore. Noi uomini li aspettavamo, una volta terminata l’esposizione. Noi bambini provavamo soprattutto rabbia. Nessuno dei nostri cuori impazziva, nessuna mano tremava. Cercavamo di sentire l’emozione, di stringere gli occhi e piangere di paura, ma provavamo solo rabbia. Non potevamo raccontarlo, se non con sguardi lanciati da un estremo all’altro della folla. Sapevamo di sentire tutti la stessa assenza, sapevamo di non provare niente, se non la rabbia di non provare niente. Ma col tempo ci abituammo. Capimmo che non potevamo fare nulla, che quello era il nostro destino. Noi bambini, infatti, non potevamo crescere.

Il numero dei proiettori era aumentato, ma ancora non bastava. Escogitammo modi alternativi di esporre le nostre foto. Non importava il tempo, non importava chi ci guardasse, se ci guardasse. Non c’era nemmeno più bisogno di scegliere un solo scatto che ci rappresentasse a pieno. Ormai ogni giorno era festa, e potevamo alternare diverse immagini che giudicavamo le migliori. Se non migliori, belle, se non belle, interessanti, se non interessanti, quanto meno indispensabili. La scelta accurata della nostra foto non ci importava più. Potevamo alternare primi piani a immagini a figura intera, o a fotografie sfocate in cui i nostri tratti potevano scorgersi appena. Eravamo liberi. Eravamo pieni di possibilità. Avevamo bisogno di vedere il nostro viso e di riconoscerci in esso. Avevamo bisogno di uno specchio che potesse restituirci un’immagine accettabile, l’immagine che noi stessi avevamo scelto, forse modificato, forse in parte oscurato. Avevamo bisogno che quell’immagine fosse immobile, che continuasse a guardarci immobile. Di ricordarcene in ogni momento, quando camminavamo, quando mangiavamo, quando cercavamo di addormentarci. Che il nostro volto fosse da qualche parte, sulla terra, ad aspettarci.

Infine fu il caos. Le strategie di esposizione presero il sopravvento e ci trovammo sommersi. La luce dei flash era costante, illuminava ogni cosa distruggendo la notte. Non esistevano più ombra, né buio. Le nostre foto trovavano qualsiasi mezzo per prosperare, qualsiasi strategia per esporsi agli altri, qualsiasi luogo, forma, dimensione. Erano proiettate, stampate, trasferite su materiali di varia natura, materiali preziosi, materiali di scarto, materiali di cui a mala pena conoscevamo il nome. Che fossero o meno adatti, non importava. Le nostre foto cominciarono a non rappresentare più nulla. Tutto quello di cui avevamo bisogno era solo quella misera riproduzione. Qualcuno che dirigesse l’obiettivo verso di noi, qualcuno che lo trasferisse nella realtà. Noi uomini ci occupammo del palco. Non bastava, avevamo bisogno di più spazio. Costruimmo nuovi palchi, vicini a quello principale, attaccati a quello principale, tanto che presto l’originale non si poté più distinguere dagli altri. Noi bambini restavamo bambini, anche se le fotografie sembravano provare il contrario. Noi donne pensavamo che fosse meglio così, che fosse meglio che noi bambini restassimo innocenti per sempre. Noi donne non sapevamo cosa fosse l’innocenza, ma speravamo che i nostri bambini ci avrebbero creduto. Il palco era immenso. Potevamo muoverci sulla sua superficie liberamente. Ci guardavamo, ci incontravamo, uscivamo insieme, allacciavamo delle relazioni, costruivamo case, avevamo altri figli. Per ognuna delle nostre attività, potevamo fornire una prova, la dimostrazione fotografica che quello sguardo, quell’incontro, quell’uscita, quella relazione, quella casa, quel figlio, erano davvero esistiti e sarebbero continuati a esistere per sempre. Al contrario, la nostra mente era vuota. La nostra memoria finita. Non ricordavamo più nulla. Non avevamo bisogno di ricordare più nulla. Se avessimo perso le nostre foto, allora saremmo stati soli al mondo, ma nessuno avrebbe mai potuto accorgersene, in mezzo a tutta quella luce.


Classe 1987, dottoranda in letterature comparate, vivo a Parigi. Ho pubblicato articoli scientifici e alcuni miei racconti sono comparsi su riviste come “Inutile”, “Atti Impuri”, “TerraNullius”, “effe”, “Verde”, la rassegna stampa di Oblique Studio. A giugno uscirà la mia prima raccolta di poesie per la casa editrice Arcipelago Itaca Edizioni, nella collana “Estuari: giovane e nuova poesia italiana” curata da Manuel Cohen. Da poco ho aperto un blog di scrittura e immagini (sillagesblog.wordpress.com).