L'oblio e il riscatto di Paola Masino


di Anna Lo Piano


A distanza di ottant’anni dal novembre del 1941, quando uscì per Bompiani, torna in libreria Racconto grosso e altri di Paola Masino, per i tipi di Rina Edizioni.  Non deve sorprendere questo lungo arco di tempo per un’autrice il cui destino letterario è stato quello di alternare a più riprese successo e censura, oblío e riscoperta.  La pubblicazione del ’41 segnava per Masino, già all’epoca, l’uscita da un silenzio editoriale, durato diversi anni, dopo un esordio fortunato. Nel 1931, infatti, era uscita Decadenza della morte, una raccolta di prose lirico-filosofiche scritte a Roma tra il ’28 e il ’29 e già in parte pubblicate sulla rivista 900 di Bontempelli (i due si conobbero proprio grazie a questa collaborazione). Nel 1930 scrive in pochi mesi un romanzo, Monte Ignoso, che nel ‘32 arriva in finale al Viareggio, e piace molto al pubblico, tanto che, racconta la stessa Masino in una lettera alla madre, alla Fiera del libro di Milano le copie si esauriscono subito. Malgrado le critiche negative di Gadda e Borgese, che le rimproverano gli innesti fantastici in un materiale realistico, nel ‘33, sempre al Viareggio, prende il secondo premio con un altro romanzo: “Periferia”. Questa volta però le stroncature giungono da critici vicini al fascismo. Leandro Gellona la definisce una “scribacchina”, e Gaetano Serventi, sul Secolo fascista, definisce il romanzo moralmente deprimente, negativo, sfiduciato, che non ha altro scopo se non quello di mettere in dubbio il più alto valore attorno a cui si impernia la società: la famiglia. Il rimprovero è dunque quello di non uniformarsi alla visione di regime che si fonda sulla rigida differenza di genere tra una donna materna, nume tutelare della solidità domestica, e un uomo forte, attivo, con pensieri compatti e programmatici. Non le si perdona neanche di mettere in scena la realtà cruda e violenta dell’infanzia, delle dinamiche familiari, del difficile passaggio all’adolescenza, con i suoi ribaltamenti e messe in discussione. Se la censura indiretta, preventiva, è in atto in Italia fin dalla fine degli anni ’20, è adesso che punta direttamente alcuni autori, e lei finisce nel mirino. Così, nel settembre del ’38, la rivista Grandi firme, appena passata alla direzione di Zavattini, viene chiusa per aver pubblicato il suo racconto Fame, storia di un padre che durante la crisi del ’29, preferisce uccidere i suoi figli piuttosto che vederli morire di stenti.
Comincia allora un esilio “volontario” a Venezia, struggente e dorato, insieme al compagno di vita Massimo Bontempelli. Sono anni di crisi di ispirazione, di rifiuto e mondanità forzata che la spingono a fare i conti con immagini di femminilità in cui non si riconosce. Sono anche anni di un vero e proprio corpo a corpo con la censura, che si fa sentire nel momento stesso della creazione e che, come ogni limite, la spinge a trovare strade alternative, sentieri non battuti. Da questa crisi nascono i racconti di Racconto grosso, scritti in gran parte proprio tra il ‘38 e il ’40, e il primo nucleo di Vita e morte della Massaia, che comincia ad uscire a puntate sul settimanale illustrato Il Tempo di Mondadori il 16 ottobre del ’41, proprio nell’anno che segna il rientro di Masino nel mercato editoriale.
Se però Racconto grosso riceve una buona accoglienza di pubblico e critica, la Massaia dovrà aspettare ancora qualche anno, fino al 1945, per uscire in volume, sempre per Bompiani. La fine della guerra, con lo strascico di disastri che consegue, e il trionfo dell’immaginario neorealista, non costituiscono un terreno accogliente per un libro che parla per allegorie e quadri grotteschi della ricerca di un’identità di fronte all’imposizione di modelli esterni. Vita e morte della Massaia comincia così la sua discesa nell’oblìo, mentre Masino continua la sua attività di pubblicista, librettista, traduttrice. Dal 1960 si dedica a tempo pieno alla sistemazione dell’opera e della memoria di Bontempelli, scomparso quell’anno. Nel 1970 la Massaia riappare, sempre da Bompiani, per poi risprofondare nel mare delle opere dimenticate, fino a quando, nell’82, l’intuito di Laura Lepetit la salva dalla polvere e la ripubblica con La Tartaruga. Da allora ogni tanto il libro emerge (ISBN, Feltrinelli) e poi si inabissa, malgrado alcuni segnali di interesse negli ultimi anni che tendono a farne una presenza più stabile negli scaffali delle librerie.

In questo quadro appare oggi ancora più lodevole la scelta di Rina Edizioni di riportare ai lettori e alle lettrici Racconto grosso, accompagnato da una prefazione di Marinella Mascia Galateria, una delle più importanti studiose dell’autrice. Non solo si aggiunge un importante tassello all’opera di recupero delle voci femminili del ‘900, ma anche alla costruzione del corpus letterario di Paola Masino. Proprio per la vicinanza di ispirazione tra la Massaia e Racconto, infatti, è possibile apprezzare i rimandi tra le due opere, dall’uso dell’allegoria fino ai temi del corpo, della maternità e della ricerca dell’io.

È forse il tabù verso questa corporeità, per la paura di un sentimentalismo e un’introspezione non sufficientemente letterari, che ha tenuto le donne lontane dal canone ufficiale della letteratura? Forse. Ma è certo che è necessario ora rivedere questo canone, e reinserirle in un filone non come eccentricità, devianza, in un capitolo dedicato, quanto piuttosto riconoscendone i legami con il loro tempo, e il contributo unico e personale alla costruzione di un patrimonio comune di lingua e immaginario.
E Paola Masino, con le sue elaborazioni personalissime e fuori dai registri ammessi dal suo tempo, si inserisce in una tradizione colta e internazionale che va dai testi sacri ai romanzi dell’800, passando per Shakespeare, gli autori latini, Kafka e Poe,  imbevendosi degli azzardi e delle sperimentazioni delle avanguardie del ‘900.  Durante la sua lunga vita entra in contatto con artisti, intellettuali, scrittori. È amica intima di Pirandello, al quale da ragazzina ha dato da leggere il suo primo scritto, un’operetta in tre atti. Scrive su riviste. Ha una fitta corrispondenza epistolare con tutte le scrittrici della sua generazione, da Anna Maria Ortese ad Alba de Céspedes, da Anna Banti a Livia De Stefani. Ma non è solo per questa partecipazione alla vita letteraria del paese che merita di rientrare nel canone, quanto per la qualità della sua arte, con la quale si inserisce di diritto dentro una linea del fantastico novecentesco. Come Savinio, Bontempelli, Tozzi, Landolfi, Buzzati, fino ad Anna Maria Ortese, la prima Morante, Manganelli, usa la forma breve colorandola di evocazioni stilistiche che trascendono i generi. Nei racconti troviamo richiami al teatro, all’opera, al melodramma (Famiglia, Rivoluzione, Viaggio con panorami), all’allegoria dichiarata già nel titolo (Allegoria prima e Allegoria seconda) per indagare i temi dell’amore, alla favola nitida per Commissione urgente, a quella onirica per Racconto Grosso.  L’intrusione nella realtà di elementi estranei, perturbanti, ne causa lo sfaldamento, rivelando strati di verità nascosti. Sono macchine personificate, dotate di nome e capacità di ascolto, come l’Andromeda di  Viaggio con panorami, presenze spettrali all’interno di un caseggiato popolare (Famiglia), figure del doppio (Figlio), e dello specchio (Commissione urgente), così centrale anche nella poetica di Bontempelli. Nel racconto Latte, che ricorda come impianto e situazione sociale realistica Feliciana di Ada Negri, la corporeità del materno viene portata alle estreme conseguenze, e l’orcio che serve a ripagare la madre della vita che ha dato al figlio si trasforma in un contenitore di sangue vivo. Se nel fantastico novecentesco le modalità rappresentative antirealistiche mettono in discussione le norme sociali, ed esplorano la condizione esistenziale dell’uomo, Masino le usa anche per dissacrare le imposizioni sul genere, ed esplorare la condizione esistenziale della donna. In Allegoria prima, che racconta con toni da favola l’amore tra Albo e Melania, due anime all’opposto nel diaframma della luce, la donna si scopre nel petto un’oscurità, ma lungi dal volerla eliminare, sente che deve accettarla, farla sua.

La paura della sera non le era passata e anzi era contenta di custodirla forte dentro di sé, che non avrebbe più voluto l’aiuto di Albo, che la pace di cui lui l’alimentava non le era nutrimento e che nulla, nulla ormai per lei era più importante dell’ombra in agguato in mezzo al suo essere.

 

O ancora, in Terremoto, quando gli uomini guardano “come la peggiore delle condanne” il disfarsi dell’ordine costituito, le donne:

 

Andavano con le abili mani a cercare di ricongiungere I lembi di una squarciatura sui muri, quasi labbra di una ferita; mettevano le dita timorose nella piaga della loro casa e piangevano, lente e funeste, continuando a muovere sul pavimento morbido in cerca di oggetti rotolati a nascondersi tra I mattoni aperti.

 

Si trova in questi racconti una commistione tra rappresentazioni oniriche del surrealismo e la realtà, sociale ma anche fisica, del corpo. E la lingua di Masino segue queste stratificazioni, accumula arcaismi, citazioni letterarie, come in Famiglia, dove ogni fantasma è un personaggio di un’opera del passato che parla e si muove secondo quella logica, e costruzioni classiche:

 

Andavamo dunque lungo la Cassia che è la più bionda via d’Italia. Tutta a curve quasi una ciocca di capelli nei nodi di una treccia. Qua e là nelle sue anse Toscana ha appuntato mazzetti di cipressi, festoni di vite e veli d’ulivi, come una bambina si mette fiori e nastri e bende.

(Viaggio con panorami)

 

Ma soprattutto è una lingua fisica, che crea un vocabolario sinestetico del corpo. Ogni paragrafo è una festa dei sensi, li coinvolge tutti, dall’olfatto al tatto, dal gusto all’udito. La vista si ritrova in certe immagini che ricordano i quadri del surrealismo, le figure zoomorfe di Savinio  (stava, diafana, con il lunghissimo collo azzurrino relinato sulla spalla, simile a un cigno stanco, in Famiglia ) o i paesaggi attoniti come in un quadro di Carrà.

Si annunciano all’orizzonte le crete con tutte le rughe, le pieghe, gli avvallamenti d’una abbandonata pelle d’elefante. Hanno un colore avorio grigio, avorio polveroso e, pur sopportando rarissima vegetazione, apaiono sfinite. In certi punti i piani si facevano gialli e le ombre violette con tal crudità che i raggi del sole, ora nel centro del cielo, parevano alzarsi da terra invece che scendere per l’aria.

 

La luce, anche quando è evocazione d’ombra, crepuscolo, è qualcosa di tattile, in cui immergersi. L’udito lo ritroviamo come polifonia di voci, in dialoghi serrati, un braccio di ferro di pensieri, ma anche come un suono forte della natura, un richiamo che sembra volere scuotere l’essere umano:

 

Nello stesso momento una voce mi colpì alla nuca con la violenza di un sasso scagliato e io caddi sulla faccia ma senza sgomento perché in essa riconobbi quell’ultimo grido di Atollo e seppi che era stata una parola umana – inutile, ormai, misero Atollo, una parola rivolta a me “Io”.

(Racconto grosso)

 

 E poi c’è il vocabolario del ventre, del sangue, che è doloroso e sensuale allo stesso tempo, che non ha paura di apparire grosso e grossolano, senza pelle, senza determinazione, confuso nel vegetale, nel verde che ritorna come colore simbolo, nell’animale dei nitriti e dei piedi palmati.
Qui infatti, come nella Massaia, Masino esplora il tema della costruzione del sé, della lotta per la propria identificazione, il dissidio tra il desiderio di sapere chi siamo, e il dolore di scoprirlo, tra la spinta ad uscire da un’infanzia amorfa e la volontà tenace di rimanere nell’indeterminatezza, di continuare ad appartenere a tutte le creature, all’indistinto.