Dal 19 Ottobre 2017 sarà in libreria la raccolta di racconti Birra scura e cipolle dolci di John Cheever, pubblicata da Racconti Edizioni. Il libro è uscito negli Stati Uniti nel 1994, quindici anni dopo la raccolta di tutti i racconti di John Cheever. Sono short stories imbevute di idealismo e disillusione, giovanili eppure già di uno scrittore formidabile e formato. Non siamo ancora alle cronache minute di ciò che succede dietro i prati perfettamente falciati e le staccionate imbiancate di fresco, ma tra commessi viaggiatori al tramonto dei loro giorni di gloria e con marxisti puritani che osservano gli altri bere e divertirsi dentro case sfitte. Parteggiamo per la rivincita di una spogliarellista stagionata e subito dopo assistiamo agli innumerevoli piccoli fallimenti di giocatori d’azzardo sempre alla ricerca di un’ultima opportunità.
Pubblichiamo la prefazione al libro di Christian Raimo, per gentile concessione dell'editore.
Buona parte della mia vita l’ho passata a leggere e a scrivere, e credo che – per quanti anni mi saranno ancora concessi – farò la stessa cosa in futuro. Però capita spesso che io mi chieda se questo tempo non sia un tempo che potrebbe essere utilizzato meglio, impegnandosi a migliorare il mondo, a conoscere le persone in carne e ossa. La letteratura è necessaria? Se ne potrebbe fare a meno? Forse è una forma di vizio, di vanità? Essere così fedeli alla letteratura spesso non ci fa mettere in discussione questa stessa devozione. La nostra vita sarebbe stata più felice se Cheever invece di scrivere avesse fatto un altro mestiere più utile socialmente – il politico, il medico, l’agronomo –, e la vita di Cheever sarebbe stata meno funestata dai demoni dell’arte se lui non vi avesse investito così tanto in questa letteratura?
Non sono domande paradossali, da porsi davanti a questi racconti. Perché quelli che avete in mano sono una specie di oggetto strano. Tredici racconti che John Cheever non pubblicò in vita. Sono quasi tutti racconti giovanili, anche pieni di ingenuità, datati, troppo corti per dare conto di uno svolgimento, in parte emulativi eccetera.
Però, Fall River, il primo della raccolta, è datato 1931, quando Cheever aveva 19 anni, non aveva nemmeno finito le superiori (era stato espulso, non le finì mai). E aveva deciso di provare a fare lo scrittore.
Visto con l’angolazione di oggi, la luminosità incerta che si legge già nell’incipit di questo brevissimo racconto era profetica.
Erano già due anni che la gente lo sapeva, ma fu durante quell’inverno che divenne lampante. Le fabbriche si erano fermate e le grandi ruote si stagliavano immobili contro i soffitti. I telai, come macchinari abbandonati in un vecchio teatro dell’opera, erano lì sul pavimento a impedire il passaggio. Per terra, sulle travi e sugli scintillanti fianchi d’acciaio il velo di fili non ancora tessuti era ricoperto di polvere come neve vecchia.
Un «velo di fili non ancora tessuti ricoperto di polvere come neve vecchia»: ecco che le mie perplessità sul senso del fare letteratura un po’ si sciolgono quando trovo una frase come questa. Andando subito avanti, ne troverete altre di questo tipo.
Raduno serale (anche questo scritto a 19 anni) per esempio inizia così:
Era piovuto così tanto quei primi giorni d’agosto che tutti gli alberi avevano perso le foglie. Alla luce del sole le colline sembravano paste bruciacchiate e quando il sole non c’era i prati erano grigi, gli alberi neri e il cielo terso, suddiviso
da linee nette, scendeva giù fino al placido orizzonte.
La capacità di cogliere i dettagli, quella di dar forma alle cose facendo appello a un’immaginazione di tipo eidetico, ecco cosa riconosce il lettore in questo Cheever che sta imparando a essere se stesso. Oppure, l’importanza data al tempo, quella sua abilità nel fotografare il ciclo della natura. Raduno serale ad esempio finisce così:
Amy scrisse il proprio nome sulla finestra cercando di tenere a mente che,
anche se gli alberi erano già spogli, l’autunno era appena cominciato.
Il racconto successivo invece, Birra scura e cipolle dolci, inizia così:
Gli indiani arrivano un tardo pomeriggio di domenica e se ne vanno il giovedì successivo. L’inverno sta gradualmente volgendo in primavera.
Quest’elemento del ciclo stagionale è sempre così presente in Cheever ed è strutturale, in quanto dà il nome alla dimensione terrestre, alla narrazione che il creato stesso ha in sé.
E questo perché, a differenza di molti scrittori, di autori che lui stesso ammirava – Hemingway ovviamente, Nabokov, Updike – Cheever non è mai stato un grande maestro del plot («Io non lavoro con la trama. Lavoro con l’intuizione, la percezione, i sogni, i concetti. La trama implica la narrazione e un sacco di stronzate. Non credo ci sia alcuna filosofia morale nella narrativa oltre all’eccellenza» così rispondeva alla Paris Review nel 1976).
Dopo aver letto la raccolta dei suoi racconti,[1] riuscii a intuire una qualità della sua scrittura che è rarissima nella maggior parte degli autori: Cheever non è un narratore morale, non è interessato ai grandi conflitti tra bene e male. Ma piuttosto è un contemplatore, io lo definivo un «teologo della natura umana». Oserei di più, direi che Cheever è un teologo della natura in sé, e l’uomo è parte di quella natura. Davvero nulla di umano gli è alieno.
I personaggi dei tredici racconti spesso non si evolvono, sono apparizioni che restano fisse nel tempo, si intristiscono, si innamorano, si deludono, ma non si perdono mai d’animo, tutto gli è possibile; in qualche modo tutto gli è possibile, e niente è così terribile da essere definitivo.
Cheever comincia a scrivere nel pieno della Grande depressione, in mezzo a due guerre mondiali: e poi il mondo è ancora lì. Questa è la lezione che sembra aver imparato dalla storia. La famosa citazione tratta da I gioielli dei Cabot, uno dei suoi ultimi racconti:
I bambini annegano, donne bellissime vengono maciullate in incidenti stradali, le navi da crociera affondano e gli uomini muoiono di morte lenta nelle miniere o nei sottomarini, ma non troverete niente di tutto questo nei miei racconti. Nell’ultimo capitolo la nave rientra in porto, i bambini vengono salvati, i minatori vengono estratti da sottoterra.
Sembra proprio una dichiarazione di poetica che Cheever può permettersi ex post alla fine della sua lunga vita da scrittore, ma che sottende una visione del mondo a cui evidentemente si sentiva legato fin da ragazzo.
Per questo è interessante, come troverete nella postfazione di George W. Hunt, soffermarsi sugli incipit, ma forse lo è ancora di più leggere i finali di questi tredici racconti.
Anche se sono finali aperti, o drammatici, si respira sempre una sensazione che le cose rivadano così dove era giusto che fossero, nella giusta corrente.
Mani disse che la primavera era di nuovo tornata e schiacciò la sigaretta
in fondo al giardino. La primavera è tornata, disse Mani.
Queste sono le ultime righe di Fall River, ma anche se prendiamo La moglie giovane, abbiamo a che fare con una riconciliazione di una distanza che non si era mai davvero creata.
Sue posò il suo drink e lo raggiunse. Quando lui la strinse tra le braccia Sue iniziò a piangere. I suoi singhiozzi erano forti e ravvicinati come il respiro di una persona stanca.
John non ne fu ferito perché sapeva che il suo non era un pianto di nostalgia o di paura o di rimpianto o di dolore o una di quelle cose che l’avrebbero ferito se fossero state la fonte di quelle lacrime. Sue rimase a lungo tra le sue braccia, piangendo come
una ragazzina che riscopre la sua immensa felicità.
Cheever è capace di essere profondamente sentimentale senza usare ricatti emotivi. I suoi personaggi non hanno quasi mai doppi fondi, aderiscono alle proprie azioni anche quando queste possono essere contraddittorie. Forse perché da cattolico credeva che ci fosse della grazia anche nel peccato, o forse perché da scrittore sapeva che non c’era nulla nel mondo intorno a noi che non valga la pena di essere raccontato.
C’è un passaggio del Vangelo di Luca che recita:
Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio; e una donna, di nome Marta, lo ospitò in casa sua. Marta aveva una sorella chiamata Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. Ma Marta, tutta presa dalle faccende domestiche, venne e disse: «Signore, non ti importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire?
Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e sei agitata per molte cose, ma una cosa sola è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta».
La tentazione di Marta, di essere presa dalle faccende domestiche, e di perdersi la parte migliore, per certi versi è simile a quella che mi prende ogni volta che mi interrogo sulla necessità della letteratura, per come certo Cheever la intende. Che valore ha la contemplazione? Nel paio d’ore che perderete a leggere questa serie di racconti, seppure imperfetti, giovanili, abbozzati, come vi capiterà molte altre volte, vi sarà data una risposta.
Roma, 21 agosto 2017
[1] John Cheever, I racconti, trad. it. di Adelaide Cioni, Laura Grimaldi, Leonardo G. Luccone, Franco Lucentini, Marco Papi, Sergio Claudio Perroni, Feltrinelli, Milano 2012.VIII