Rivelazione
Facevamo la guerra in una capanna di legno da sobborgo a più scomparti, e la guerra rispettava la stanza che dava in giardino: ameno, popolato di gabbie leggermente sordide come un piccolo serraglio. Soldati, chi s’affacciasse a una stanferna a destra, si rimpiattavano in agguato, venivano alle mani rabbiosamente dietro l’assito: quella stanza era come una tettoia spalancata sul deserto, ma con un gran tavolone da stiro nel mezzo, quasi un catafalco. La polvere era spessa, sulle assi del pavimento, come rena portata dai piedi di bagnanti. L’orizzonte sulla pianura selvatica, era nettamente occidentale quanto a luce, ma suggeriva, nascondeva nel polverìo figure coloniali affaticate dalla calura. Pensavamo a sporgerci oltre la tettoia quando un soldato venne a cadere disteso sul tavolone, grasso e colorito, colla faccia di don Giuseppe de Luca. Una donna fra noi si disperava chiamandolo forte e allora il soldato aprì un occhio e le fece un cenno d’intesa, per farle capire che era vivo e ingannava il nemico. Chiudemmo la porta e fummo in una stanza domestica e rurale, piena di panni e di attrezzi, la stanza del giardino: sui piedi un fresco sole obliquo, come di primavera, quando si sta per prendere un raffreddore. Per questo giardino, insomma, ci trovavamo riuniti. Si era in molti, familiari indifferenti che non pensano a contarsi e a riconoscersi. Né guardavamo il giardino. Si sapeva come era fatto, un po’ infossato, piccolo, buono a tanti usi a forza di canne e di legni di recupero, anche di latte vecchie. Un posto adatto per i colombi, le tartarughe, i conigli: ma noi sapevamo che oltre queste bestiole, altre ce n’erano di più bizzarre come scoiattoli, porcellini d’India, tortore e uccelli col ciuffo. L’equilibrio di quell’arca qualcuno lo reggeva che non era fra noi o era nascosto o governava senza parere. Il bello del luogo era che non esisteva senza sole, senza quell’aria fervida di primavera impetuosa o di autunno spericolato. Il momento che si viveva era precario e indistinto; di ambigua sicurezza in bilico sulla guerra. Ma la guerra l’avevamo dimenticata. C’era un mistero e anch’esso doveva esserci familiare se non facevamo nessun tentativo per chiarirlo, debellarlo. Come aspettando, guardavamo l’erbetta, i vermicciuoli: in cielo no, non pareva di potere, anche se, alzandoci in punta di piedi, si era sicuri di vederlo congiunto, all’orizzonte, col mare; e il mare ci faceva voglia. Sentivamo che l’aria formicolava vibrando e si sa come sbigottisca constatarlo sulle trasparenti celesti. A testa bassa, tenevamo a bada una specie di apprensione, quasi tendendo l’orecchio all’urlo di un malato. Sapevamo che una colomba era stata ferita al collo: cose che succedevano in quel giardino. Forse si era preso sonno. Fu come riaprir gli occhi ascoltare e magari ripetere: “Non può star più chiuso, bisogna che voli.” Il mistero svelato era un’aquila enorme e bruna che ci raggiungeva alle spalle e subito era davanti a noi. Scivolava ad ali rattratte come prendendo avvio al volo, massiccia, forte. Cresceva allontanandosi invece di diminuire, sfiorava con la coda immensa il terreno. Passando di striscio aveva strappato col becco un fastello d’erba verdissimo e lo teneva, la cervice volta a destra, araldica. Dell’erba un rapace? Dunque la colomba non è morta. E allora alzammo gli occhi al cielo: al cielo che passava davanti a noi vertiginosamente, dimostrazione e figura di un universo impazzito. Era l’immagine e la potenza di un vento che fosse spazio e avesse i capelli incolori, stridenti come una fresca fiamma. Sulla celeste voragine la bestia volava, ma non era più aquila. Era uno scimmione grande come una città, come un bosco. Nel cielo fiume passavano graziosi naufragi, devastazioni gingillo. Lo scimmione volava lento verso occidente, coi movimenti di un ciclista vecchio, senza entusiasmi. Levava la mano per cogliere a volo quegli oggetti divelti e li esaminava placido, come per vedere se gli convenissero. Infilò il braccio in una gran gabbia e razzolò fra le sbarre con saggia disattenzione. Non potevamo distinguere quel che ne ritraesse, se masticasse o se riponesse – pareva possibile – in tasca. Era il padrone del disastro, dove tutto era perdizione e ratto egli sapeva dove andava, il vento non toccava la sua lana. Procedeva di traverso, come affrontando una salita per lui non grave, s’allontanava senza perdere dimensioni, sul cielo pallido e furioso. Forse ci eravamo sdraiati supini per vederlo meglio e per temerlo di più: non nell’orto suburbano, ma sulla cima d’un monte, pelata, offerti viso e corpo all’imbuto dello spazio. Ormai non avevamo né età né gusti: dipendevamo dal mostro che navigava. E lo vedemmo maneggiare nel pugno lento una torre Eiffel piccolina, con tutti i suoi fili strappati, portata dalla furia, alla deriva. La guardava con curiosità, la rivoltava, l’annusava. La lasciò cadere nel vuoto e si rimise, paziente, a salire.
di Fausta Garavini
Anna Banti aveva dato alle stampe sei raccolte di racconti: Il coraggio delle donne (1940), Le donne muoiono (1951), La monaca di Sciangai e altri racconti (1957), Campi Elisi (1963), Je vous écris d’un pays lointain (1971), Da un paese vicino (1975). Si riuniscono qui quelli rimasti sparsi fra giornali e riviste, mai ripresi dalla scrittrice. Precisiamo subito: i racconti finora ritrovati – poiché niente esclude che da qualche quotidiano o periodico non possa uscir fuori domani un racconto sfuggito alla rassegna. Anna Banti era una pessima segretaria di se stessa. Oltre ad aver distrutto tutti i suoi manoscritti, non ha mai tenuto registro delle sue cose edite, e quando ripubblica un testo con la dicitura “trovato in fondo a un cassetto” (come La nuova padrona, ribattezzato Incontro con la terra) si può star sicuri che non mente. Ristampare gli scritti che un autore ha lasciato dispersi è operazione rischiosa, comunque indiscreta. La trascuratezza di Anna Banti verso i tanti suoi racconti dimenticati nelle sedi effimere dove erano apparsi viene così ignorata, respingendo il dubbio che la negligenza significhi disinteresse, addirittura
ripudio. Si riesumano insomma pagine che la scrittrice sembra aver ritenuto non meritevoli di conservazione. Ma il punto di vista di noi posteri è giocoforza diverso: quegli scritti assumono il carattere di preziosi documenti a mappare un itinerario narrativo, a identificare le tappe di un percorso. Ammettiamo dunque l’indifferenza, da parte di un’autrice renitente – come si diceva – ad amministrare se stessa. Al contrario di tanti pennaioli che con idolatrica venerazione tesaurizzano ogni goccia d’inchiostro caduta dalla loro stilografica, Anna Banti semina e dilapida autentiche perle, le considera forse lavori alimentari: all’anagrafe Lucia Lopresti in Longhi – questo il suo nome – risulta casalinga, non ha uno stipendio, deve guadagnare per aiutare i genitori che si trovano in difficoltà economiche. La raccolta, per esser completa, è prismatica, permettendo di saggiare la prosa narrativa di Anna Banti in tutte le sue sfaccettature. Si sono esclusi dalla categoria dei racconti i primi testi classificabili come articoli di costume – del tipo Veli di cipolla, sulle signore che assistono alle sfilate di moda, o Malattie del mare, sui villeggianti che invadono le spiagge, di cui sono raffigurati comportamenti e atteggiamenti: una penna tagliente, giudicante, morbida, partecipe, infilza qui con precisione di entomologo manie, difetti, ridicolezze. Una parsimonia, un taglio illuminante, una precisione critica che poco hanno a che vedere con i prodotti asettici, i capricci e i vagabondaggi sterilizzati della coeva prosa d’arte. Non stupisce pertanto che da simile terreno fioriscano abbozzi di scenette, germi di un intreccio, sicché il passaggio dalla prosa di costume al racconto è scivoloso, insensibile, la frontiera sfuggente.
[...] Dalle cose viste alle cose immaginate. Questo è il procedere di Anna Banti: un mondo di astrazioni, di vertigine mentale. Frutto di una totale allucinazione onirica è anche e soprattutto Rivelazione. [...] Sono scritti accomunati tutti da certa nervosità espressiva che dà voce a sentimenti esasperati e tesi, da un dettato di sogno, dal tono lirico-magico della narrazione, che trattiene forse qualche soffio dell’“aura poetica” della rivista “Solaria”, aperta a Proust, Joyce, Katherine Mansfield e altri narratori intimisti. Si direbbe che nella pania di quell’atmosfera Anna Banti indugi e si lasci retrospettivamente invischiare di racconto in racconto. E si sarebbe tentati di attribuire questi pezzi vaneggianti a un’attitudine meditativa, a uno sfrenarsi fantastico che compensi le asperità e le amaritudini del periodo, assai penoso per la scrittrice, che ha perso fra le macerie della guerra, nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1944, i manoscritti di due romanzi, Storia di famiglia e Artemisia: e che con tenace volontà, coraggiosamente, riprenderà e riscriverà in nuova forma, pubblicando la seconda Artemisia nel 1947 e Il bastardo (ricostruzione della Storia di famiglia) nel 1953.
[...] Tutti questi racconti, in un modo o nell’altro, ripercorrono passi lontani, sono abitati da antichi fantasmi. La Ragazza antica dell’ultimo, che condivide con la giovane Lucia Lopresti i capelli rossi e la pelle d’avorio, non coincide certamente con lei punto per punto, ma la sua storia d’amore con un giovane bruno provvisto di baffetti ha molti punti di contatto con quella di Lucia e di Roberto Longhi: innanzi tutto perché quell’amore ha un forte sapore di amicizia e il confine tra i due sentimenti è variabile; e poi perché il loro incontro clandestino adombra quello organizzato – ma poi non realizzato – da Lucia, villeggiante con i genitori a Cutigliano, dove Roberto Longhi avrebbe dovuto raggiungerla di nascosto. Una piccola avventura mancata di cui resta traccia nelle lettere festose che Lucia scrive a Roberto dalla villeggiatura, nell’agosto 1915 (conservate al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia). Insomma la memoria e l’autobiografia hanno ancora qui un ruolo di protagoniste. Anna Banti chiude in fedeltà e armonia il proprio percorso di narratrice.