Edith Wharton: lo stretto rapporto con la narrativa breve

di Debora Lambruschini

La prima opera letteraria – così la definisce l’autrice stessa – pubblicata da Edith Wharton è un racconto. Nonostante il suo nome sia principalmente associato ai celebri romanzi The House of Mirth (1905) e The Age of Innocence (1920, con il quale vinse, prima donna nella storia, il Premio Pulitzer per la narrativa), la sua identità di scrittrice si intreccia strettamente alla forma breve, a cui Wharton si dedicò lungo tutto il corso della vita e della carriera letteraria. I racconti, dunque, sono tasselli fondamentali nella bibliografia dell’autrice, parte fondante del suo universo letterario.
Nello spazio del racconto Wharton costruisce e mantiene fede alla propria visione artistica, tanto che si tratti di storie più aderenti al realismo quanto di racconti di genere, nei quali dunque prendono forma – anche prima dei romanzi – i temi a lei più cari, tra convenzioni sociali, matrimoni soffocanti, patriarcato. Punto di osservazione interessante per addentrarsi nella produzione breve di Wharton sono due raccolte in apparenza molto diverse tra loro, che pure svelano nel corso della lettura una trama di occorrenze e rimandi, non solo dunque nell’ambito della short story ma della produzione tutta della scrittrice newyorkese e che mi pare perciò particolarmente interessante proporre ai lettori: Fantasmi, pubblicato da Neri Pozza nel 2022 con la traduzione di Tiziana Lo Porto, e Ritratti di donne del 2024, tradotto da Mara Barbuni per Minerva edizioni. Due raccolte dall’impianto differente, per genere e per composizione: Fantasmi comprende infatti undici storie composte da Wharton lungo il corso di tutta la sua carriera ed è una raccolta concepita dalla stessa autrice, poi pubblicata postuma nel 1937, a lungo finita nel dimenticatoio, infine riscoperta; i racconti contenuti in Ritratti di donne, invece, sono stati selezionati dalla curatrice della raccolta, Raffaella Cavalieri, un’operazione costruita con particolare attenzione. Entrambe le raccolte permettono al lettore italiano di entrare nella produzione breve di Wharton partendo, almeno così appare, da un punto di vista specifico e particolare, per poi rendersi presto conto delle profondità che si celano dietro le etichette di genere e le atmosfere gotiche, dietro l’apparente leggerezza, i giochi letterari. Storie stratificate, che sfidano i confini, saldamente ancorate al tempo entro cui si muovono ma che, inaspettatamente, aprono squarci anche sul presente, su una contemporaneità tanto distante dalla buona società narrata da Wharton eppure mossa da simili intenzioni.
Al centro dell’interesse letterario dell’autrice la gabbia delle convenzioni sociali, la rigidità dei ruoli prestabiliti, i matrimoni soffocanti, l’imprigionamento – metaforico o reale – delle donne. Temi che si rincorrono da un racconto all’altro, anche in raccolte peculiari come queste. Nel selezionare i sette ritratti di donne, Raffaella Cavalieri ha scelto storie che ognuna a proprio modo rappresenta una forma diversa di imprigionamento: le donne di questi racconti sono ingabbiate nelle convenzioni, in un ruolo, in un luogo; le gabbie sono quelle del matrimonio e delle aspettative sociali, sono quelle economiche, sono quelle del giudizio maschile. Il punto di osservazione dei sette racconti qui riuniti, che ben rappresentano la poetica di Wharton, è perciò il femminile costretto dalle regole del patriarcato, da cui quasi mai è possibile sottrarsi. I sentimenti stessi possono diventare una gabbia, vittime delle convenzioni, del potere dell’altro: in “Atrofia”, il racconto di apertura, la malattia dell’amante getta una donna sposata nello sconforto e la spinge a compiere imprudenze che potrebbero costarle la reputazione; la rigidità delle regole sociali e delle apparenze, costringono la protagonista dentro un ruolo a cui non può sfuggire, nonostante il disperato bisogno di sapere le reali condizioni di salute dell’uomo amato. Il racconto si poggia su un’ambiguità crescente, tra verità, menzogna, pericolo, scatenando nel lettore domande che non possono trovare risposta sulla pagina, specchio dei dilemmi che affliggono i personaggi. Ecco, dunque, che quando anche le convenzioni sociali vengono meno, le donne sono ancora prigioniere delle regole imposte, dei sentimenti, del giudizio. La vita coniugale e, più ancora, l’istituzione matrimoniale, sono campo d’interesse privilegiato per Wharton, che non smise mai di interrogarsi sui ruoli, sulle aspettative – personali e soprattutto sociali – sulle dinamiche dei rapporti e ciò che sottostare alle regole comporta.
L’autrice osserva da punti di vista diversi, maschile e femminile, ma anche tra sentimenti e delusioni, distanze, affetto. Ne “La resa dei conti” a essere messa in discussione è la base stessa di un matrimonio, ciò su cui si fonda, un comune accordo di libertà e rispetto delle scelte dell’altro che di fronte ai sentimenti e al pericolo dell’abbandono viene meno.

 

Il sangue le salì al volto. Lui aveva le sue ragioni, dunque – ora era sicura che le aveva! Nei dieci anni del loro matrimonio, quante volte si erano fermati a considerare le idee su cui era fondato? Quante volte un uomo scava nelle fondamenta della sua casa per esaminarle? (“La resa dei conti”, p. 41)

 

La teoria del matrimonio si scontra con i sentimenti, con ciò che certe scelte comportano per l’uno o per l’altra, ancora una volta imprigionati nei ruoli di genere e nel differente metro di giudizio cui uomini e donne sono sottoposti. Lasciare libero chi si ama, dunque, nel rispetto della promessa su cui l’unione si fondava, o far valere i propri diritti e piegare egoisticamente la legge alle proprie esigenze?
Dignità, orgoglio, apparenze, sono il fondamento della società ritratta da Wharton, cui aggrapparsi anche quando tutto cade e le gabbie economiche sono prigioni altrettanto inespugnabili di quelle delle convenzioni, della disparità di genere, delle miserie coniugali. Da questo punto di osservazione le storie di Mrs Manskey e Mrs Fontage, l’una che non dispone della forza economica necessaria a proteggere la vita che ama, l’altra che ha perduto ogni cosa. Mrs Mankey’s view è il primo racconto pubblicato da Wharton, apparso su Scribner’s Magazine nel 1891 e seppur con i limiti di una scrittura ancora acerba è già un esempio dell’interesse per l’interiorità dei personaggi, le solitudini, ma anche della capacità descrittiva di ambienti e luoghi. Ecco, i luoghi, che si rincorrono in queste storie, in entrambe le raccolte: la città, l’ambiente rurale, New York e l’Europa, ognuno con le proprie regole da seguire, ma anche le stanze, gli oggetti che le abitano. E sempre, al centro del mondo di Wharton, l’influenza che la società esercita sugli individui, determinandone carattere, scelte, appartenenza o emarginazione. I personaggi di Wharton, che siano parte della società o ne vengano esclusi, sono comunque il prodotto di quella collettività, dominata da regole e convenzioni. Anche per i racconti più di genere, come quelli contenuti nella raccolta Fantasmi, dietro i richiami al gotico l’interesse di Wharton è ancora una volta il ritratto sociale, i matrimoni soffocanti, la condizione femminile. Le case, dunque, diventano un simbolo molto potente, che risuona di echi letterari, dà forma alle atmosfere, apre a nuove suggestioni.
In queste undici storie selezionate dall’autrice gli elementi più caratteristici del genere gotico si manifestano mediante narrazioni ricche di suspense, costruite a partire da vicende riportate da altri rispetto ai protagonisti, dove trovano spazio antiche leggende, superstizioni, dimore decadenti o solitarie.

 

Il freddo silenzio senza risposta della casa gravava sempre di più sulla signora Clayburn. Non l’aveva mai considerata una casa grande, ma adesso, in quella luce nevosa d’inverno, sembrava immensa e piena di angoli minacciosi dietro i quali nessuno osava guardare. (“La vigilia di Ognissanti”, p. 27)

 

Le ghost stories di Wharton seguono tutte le regole del genere, tanto per atmosfera evocata che per modalità narrative, e restano sospese in un limbo di ambiguità che non sempre si dissolve nel finale.
È un turbamento addomesticato, che non scivola mai nell’orrore o nel macabro, ma che casomai si pone al confine tra realtà e sogno, tra ciò che è tangibile e ciò che è irreale, presenze vere o presunte, misteri che non sempre trovano soluzione. E stando nello spazio della letteratura angloamericana è impossibile, sfiorando il gotico soprattutto, non ragionare sul ruolo della casa, della domesticità, che nella cultura letteraria statunitense ha un valore peculiare. Da Poe a Shirley Jackson, passando per Hawthorne, James, la stessa Wharton naturalmente, il Southern Gothic. Un discorso molto ampio su cui mi riprometto da tempo di tornare in modo approfondito, ma che qui mi preme riportare ai racconti di Wharton, a quelle dimore che non si limitano a conferire atmosfera alle storie di fantasmi ma diventano parte integrante della poetica stessa dell’autrice. Citando nella prefazione i racconti di fantasmi a suo giudizio più esemplari del genere – da Janet la morta di Stevenson, le storie di Le Fanu, La cuccetta superiore di Marion Crawford fino a Giro di vite di James – Wharton spinge il lettore a una riflessione su etichette letterarie, giudizi di critica e lettori e, aggiungo, sulla profonda influenza mai esaurita del gotico, rinnovato nella forma ma costantemente in dialogo con la contemporaneità. Ho nominato più volte l’elefante nella stanza, Henry James: il rapporto che intercorre tra i due, legati da profonda amicizia, è stato oggetto di numerosi studi sia sul piano biografico che su quello della critica letteraria e la stessa Wharton nella sua autobiografia, Uno sguardo indietro, dedica diverse riflessioni al legame con lo scrittore.

 

Il mio primo incontro con Henry James ebbe luogo molti anni prima, probabilmente verso la fine degli anni Ottanta; benché sia proprio al Mount che egli appare per la prima volta nel quadro, in primo piano. Per lungo tempo, sembrò esservi poca speranza che egli vi dovesse mai apparire, perché, la prima volta che c’incontrammo, ero ammutolita davanti alla sua grandezza; non avevo mai dubitato che Henry James fosse grande, ma non potevo immaginare quanto lo fosse, finché non arrivai a conoscere l’uomo, oltre che i suoi libri. (Uno sguardo indietro, Eliot, p. 139)

 

L’autobiografia della scrittrice è parziale, sceglie di soffermarsi su alcuni aspetti della propria vicenda umana e letteraria ignorandone molti altri – su tutti, il divorzio dal banchiere Edward Robbins Wharton – e resto convinta che salvo alcuni esempi non sia il mezzo ideale per conoscere uno scrittore né tantomeno la sua opera. Uno sguardo indietro apre anche a spunti interessanti, sul desiderio di Wharton di far parte dell’élite letteraria del tempo, gli sforzi per essere presa sul serio, i lunghi soggiorni in Europa e il periodo bellico, le fondamentali amicizie con James appunto, Walter Berry, Howard Sturgis, Egerton Winthrop.  
È difficile dunque leggere i racconti di fantasmi di Wharton senza pensare al legame con The Turn of the Screw, ma anche all’opera tutta di Wharton e ciò che la avvicina e allo stesso tempo la allontana dai capolavori dell’amico-mentore. Giro di vite è forse la più celebre storia di fantasmi senza fantasmi, o quantomeno senza la certezza che siano tali, al fondo della quale resta sospesa la domanda che non trova risposta certa: esistono davvero i fantasmi – in questa storia? È solo frutto della nostra immaginazione, è solo una suggestione? Qualcosa di simile ce lo chiediamo anche di fronte a un’altra storia, ancora una volta costretta in uno spazio domestico che si fa sempre più soffocante, The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman: la figura imprigionata nella carta da parati della stanza è reale o è una suggestione della mente della protagonista, prostrata dall’inattività, dal confinamento in quella stanza, dalla depressione post partum? E, ancora sul racconto di Gilman, dove finisce il tangibile e inizia il soprannaturale, dove la realtà e dove il delirio? Le case e le presenze di Wharton non si spingono così profondamente nelle pieghe del patriarcato, dell’oppressione femminile ma raccontano comunque una diversa versione della buona società tra fine Ottocento e inizio Novecento, dei rapporti e delle convenzioni su cui si fondano, del matrimonio. Possono essere lette per puro godimento di una storia di fantasmi dalla quale la sensibilità moderna non rimarrà più di tanto scossa, ma qui e là ci saranno dettagli che faranno riconsiderare al lettore la leggerezza con cui li si è accolti.
Vale per le storie di fantasmi ma anche per i racconti tutti di Wharton, non produzione minore ma tasselli fondamentali e fondanti della sua bibliografia.