Titolo: Una nuova vita
Autore: Lucia Berlin
Editore:Bollati Boringhieri
Traduzione: Manuela Faimali
pp. 256 Euro 17,00
di Fabrizia Gagliardi
L’arte è disperazione totale. E probabilmente ci sono esempi pronti a smentirmi, ma ammettiamolo: chi è che sviscerando una qualsiasi vita artistica non ha intravisto avvisaglie, stranezze e piccole inclinazioni che hanno chiarificato gli sviluppi successivi?
Forse è solo il processo per trovare umanità nel genio, individuare spiegazioni dopo l’azione e capire la distanza tra rimorso e rimpianto. In definitiva, è cercare di spiegare l’istinto di andare avanti dopo l’esperienza.
La vita e la scrittura di Lucia Berlin sono un concentrato di questi tentativi messi in atto da lei stessa, continuamente. Con Una nuova vita (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri, 2024) possiamo ricostruire l’opera completa dopo che la casa editrice torinese in questi anni ha metodicamente recuperato tutta la produzione dell’autrice. Nel 2017 era comparso per la prima volta in Italia La donna che scriveva racconti (traduzione di Federica Aceto), poi era stata la volta di Sera in paradiso (traduzione di Manuela Faimali, 2018), infine, nel 2019 era arrivato l’album di famiglia e il racconto autobiografico di Welcome Home (traduzione di Manuela Faimali).
Una nuova vita chiude il cerchio curato dal secondogenito Jeff Berlin e vi troviamo racconti mai comparsi nelle raccolte precedenti, due inediti e una selezione di saggi e brani tratti dai diari di Lucia Berlin. Ogni testo si apre con una nota del curatore che identifica il momento preciso nella biografia della madre. La distanza dall’oggettività si fa sempre più marcata e sorge la stessa domanda dell’introduzione: «come si possono descrivere fedelmente i ricordi, con compassione e obiettività, preservandone almeno in parte i segreti?»
In effetti, non è necessario conoscere i dettagli più reconditi di una vita, in fondo sono quelli che la rendono uguale alle altre. È l’errore in cui si incappa nell’idea della scrittura dove i primi passi decisivi prendono le misure con una soggettività dilagante e mai modesta.
Le sbordature dell’io di Lucia Berlin non sono mai casuali e operano in maniera inversa rispetto al tenere nascosto per affascinare e al “mostrare, non dire”. L’autrice incamera tutto, tutto intorno a lei è naturalmente scarno, povero, miserabile e duro. Tutto entra in lei conservando le stesse caratteristiche nella scrittura ma, in parte, ne esce rischiarato da un’infusione di calda speranza.
La sovrapposizione è tale che leggendo i suoi diari s’incappa nell’equivoco di scambiarla per frammenti e bozzetti di altri personaggi di finzione.
Persino il tono dissacrante dei racconti più crudi come La fossa - che ripercorre l’arrivo in un centro di disintossicazione e i primi momenti di astinenza - sono composti da una padronanza linguistica più sofisticata, un talento naturale nel calibrare la cruda realtà per sublimarla in altro. Il ricordo del periodo in cui lavorava da centralinista in ospedale, ne Il centralino, aderisce al ritmo frenetico e all’umore generale di tutte le compagne d’avventura e dà spessore a personaggi che altrimenti sarebbero rimasti sullo sfondo.
Una nuova vita non è una raccolta di racconti nel vero senso del termine, è più un compendio di tentativi, successi, esercizi per esorcizzare il blocco dello scrittore (come La fanciulla e Storia d’amore. Ispirata a Čechov), temi e ricordi ricorrenti. Non è l’arrivo, ma il percorso per arrivarci.
Quando il passato è sempre presente e al cambiare dell’interiorità si plasma ulteriormente con altri significati, quando il vuoto di prospettive conduce al rimuginio, quando lo smarrimento fatica a trovare la strada sicura, Lucia Berlin non lascia andare niente: è sempre presente nella sua narrazione ma sa farsi da parte quando il disincanto rischia di planare sul reale.
Due suoi studenti all’Università del Colorado “le chiesero qual è la tua poetica, non hai una tua political agenda?”
No. Scrivo solo quello che mi sembra vero. Per sentirsi emotivamente veri. Quando c’è verità emotiva, segue un ritmo e, secondo me, una bellezza dell’immagine, perché vedi chiaramente. Per la semplicità di ciò che vedi.[...]Le mie storie sembrano parlare di me, ma di solito è quando provo amore verso le altre persone che nasce la storia. E solo la gioia di essere vivi. Quindi [non posso scrivere] se penso sempre a me stessa. Per esempio, se penso sempre ai miei mal di schiena. Penso che sia uno stato molto spirituale. È quasi come una religione. Sembra banale, ma è come recitare una preghiera o cantare un inno o qualcosa del genere. E se mi dispiace per me stessa, non scriverò. Devo essere praticamente in uno stato positivo.
I suoi racconti non sarebbero niente senza la sua storia, lei non sarebbe la stessa senza aver scritto, non puoi recidere una parte senza togliere linfa vitale all’altra. La doppia corrispondenza impone il fascino ambiguo della verosimiglianza. L’attrazione verso la lettura di cose percepite come vere, storie autentiche, risiede nel loro fondo di verità, oppure ha successo quando si allontana dalla realtà?
Quando chiedono a Lucia Berlin se i suoi racconti corrispondono a eventi reali lei risponde sì…e no, perché la verità del lettore è la trasformazione della realtà messa in atto dallo scrittore. E se tutto a origine dall’alterazione della realtà, non potremo più definirla tale, il lettore e l’autore ne creeranno un’altra, sempre diversa perché si riflette nelle storie personali più disparate.
Ed è incredibile che un tale attaccamento a un’unica, specifica, vita, in continua rielaborazione, anche dopo anni, non ha prodotto un universo piatto, ma ha generato ulteriori significati che si espandono nello spazio e nel tempo.
Forse la soluzione per pretendere il futuro, come scriveva in uno dei suoi diari («Io voglio l’immortalità»), è il tentativo riuscito di continuare a esercitare il perdono e la comprensione profonda per se stessi e per l’umanità.