Una manciata di lettere per un mondo: Alfabeto di bambola di Camilla Grudova

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di Fabrizia Gagliardi

«Un pomeriggio, dopo aver bevuto una tazza di caffè in soggiorno, Greta scoprì come scucirsi». Con la raccolta d’esordio Alfabeto di bambola (il Saggiatore, traduzione di Andrea Morstabilini), Camilla Grudova impone subito un immaginario deciso e particolare. Proprio come «vestiti, pelle e capelli le si staccarono di dosso come la scorza di una sbucciata di un frutto» sin dal primo racconto pezzi di una realtà cederanno il passo a un universo tra il weird e la distopia. Una delle parti più difficili di chi scrive dell’orrore è dare all’impossibile la coerenza tanto agognata: gli scrittori del genere non sono solo artigiani delle parole, la metafora di plasmatori della creta sarebbe fin troppo terrena e finita. Scrivere dell’orrore ha a che fare con il sacrificio di una parte della realtà conservando l’arbitrio del plausibile e scavando nella curiosità dell’ignoto. Solo così ci si mette a servizio della curiosità di chi legge per titillare la tentazione di ribaltare un sasso perfetto e lucidissimo e scoprire le creature che dimorano al di sotto di esso.

In questo contesto Camilla Grudova non opera al buio: ha dalla sua parte una lunga tradizione del genere, fatta di immaginari possenti (a partire da Lovecraft) e tropi codificati (mesmerismo, trasmigrazione, strani marchingegni scientifici e creature non umane). I lettori dell’orrore, molto più di chi si dedica alla narrativa, dispensano cauta indulgenza verso chi è in grado di innovare il già visto. Non si tratta di scoprire l’innominabile ma di servirsene per affidargli l’esplorazione di un confine defilato agli occhi dei più. In questo modo abbiamo letto il male di Stephen King che incarna deviazioni dell’America contemporanea, l’oblio cosmico di Lovecraft che opera al di fuori della razionalità umana, l’estasi e l’eleganza della morte in Edgar Allan Poe.

Nei tredici racconti di Alfabeto di bambola il lavoro di coinvolgimento del lettore inizia proprio dalla creazione di un mondo unico che deforma alcune tracce della realtà.
Il problema abitativo – gli spazi angusti e privi di natura delle città – unito alla miseria di larga parte della popolazione plasmerà un costante sapore cromatico di grigio, la polvere scricchiolerà tra i denti e non sembrerà così scontato ereditare disturbi dell’accumulo:

Comprava, rubava, tagliava e strappava pezzetti di città come se questa fosse un frutteto: un monumento dimenticato, un cupido su una tomba visitata di rado, un battaglio a forma di tricheco, le tende dalle finestre aperte, belle piante dai davanzali, un pezzetto di intonaco arabescato dalla facciata di un edificio, la fisarmonica rossa di un musicante cieco, bambole e orsacchiotti strappati dalle braccia di bambini addormentati sul metrò, gatti e uccelli che faceva impagliare a un distinto signore che le faceva uno sconto se gli portava più animali di quanti lei stessa potesse usare.

Uno stile ordinato e metodico crea continuamente una materia che chiede di fondersi in spazi angusti e perversioni dell’oblio. Più che sondare l’estasi barocca della trasgressione e dell’erotismo come Angela Carter, o alimentare visioni dell’emarginazione à la Shirley Jackson, la Grudova predilige una voce materica, in grado di sprigionare le conseguenze dell’accoppiamento di oggetti, pezzi di carne e creature.

In città dove si annusano pozzanghere e si mangiano topi in vicoli «con la vitalità umana di uno spettacolo di marionette» non è difficile immaginare modifiche genetiche e una biologia diversa dall’umano. Le sirene, per esempio, non sono divise in due, pesce sotto e donna sopra, ma sono mescolate insieme «come il tè con il latte» (nel racconto La sirena), un comune candelabro è nato dall’unione di un polpo e di una sirena di legno sulla prua di una nave e sviluppa una coscienza umana (ne La triste storia del candelabro), le donne partoriscono grumi rosa o carni simili a moccoli di candela (in Moccolo). Quello che potrebbe apparire come un teatro degli orrori non è un’ostentazione di freaks, perché l’eccezione non è spettacolarizzazione di repellenza o di pietà, ma è una naturale evoluzione del mondo esposto a radiazioni di casualità.

Unica presenza consolatoria è lo sguardo costante delle donne che nella maggior parte dei racconti sono interpellate in prima persona: s’innamorano di proiezioni di lanterne magiche, accettano che il compagno porti a casa il corpo senza vita di una nana, partoriscono creature senza ossa. L’impressione è di assistere a tante, candide, intercapedini che potrebbero capovolgere l’ordine costituito ma che, per una missione da dee destituite, assorbono i buchi neri di instabilità. Da custodi di ricordi vivono mondi simili alle distopie di Margaret Atwood e costituiscono classe proletaria deputata alla generazione della vita lasciando agli uomini lo spazio per studio e inseminazione incontrollata:

Trovare un Uomo che aveva abbastanza soldi messi da parte con gli Esami e voleva anche dei bambini: ecco il Grande Obiettivo. Non mi ricordavo i miei genitori. I bambini di entrambi i sessi erano portati via all’età di tre anni. Alle bambine toccavano cinque anni di studio in Abilità e Prospettive di Vita, poi andavano a lavorare in una Fabbrica di Addestramento, che di solito faceva vestiti e giocattoli per i maschi, mentre i maschi restavano a scuola fino a sedici anni, quando iniziavano a sostenere gli Esami e a cercare una donna che si occupasse di loro.

Il rapporto stabilito con la carne propria e altrui non ha niente di erotico e costituisce un impedimento alla libertà e all’istinto di sopravvivenza. Sembra di assistere alla stessa sensazione d’inquietudine che percorre i racconti di Thomas Ligotti. «Niente di quel che ci guida ha senso, nel caso non te ne fossi accorta» leggeremo nel suo Teatro Grottesco, in cui gli stessi ambienti labirintici e asfissianti, il decadimento e le storpiature delle forme conducono un uomo inerte al compimento del proprio destino, privo di libero arbitrio.
Seppure alla sua prima prova Camilla Grudova riprenda un contesto simile, alla fine riuscirà a imporre la propria visione dell’orrore. Nel senso di smarrimento sembra di leggere storie della tradizione orale che hanno nella loro identità la sopravvivenza di tutti quelli che le hanno raccontate. S’individua una fine che è ancora possibile controllare e che, anche nel caos e nella spietatezza della perdita, conserva un ordine proprio. Un potere che probabilmente sarà controllato dalle donne.

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