La distopia nei miliziani di Mazen Maarouf

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di Anna Lo Piano


A metà di Applausi a scena vuota di David Grossman, c’è una di quelle scene destinate a imprimersi nella memoria di chi legge.
Il protagonista Dova’le, uno stand up comedian dal successo incerto, sta raccontando a un pubblico interdetto un episodio della sua infanzia avvenuto durante un campo estivo (uno di quei campi estivi israeliani simili ai nostri campi scuola, solo con più deserto e più militari). Mentre trascorre lì le sue vacanze, vessato e bullizzato dai compagni, il piccolo Dova’le viene chiamato dal direttore e avvisato che deve tornare subito a Gerusalemme per andare un funerale. Seduto nella macchina del giovane soldato che deve accompagnarlo, il ragazzino è preso dall’angoscia. Dai discorsi degli adulti ha capito che uno dei suoi genitori è morto, ma nessuno si è preso la briga di specificare se si tratti di sua madre o di suo padre, e lui non ha il coraggio di chiederlo. Il giovane soldato comincia allora a raccontargli delle barzellette una dopo l’altra, senza tregua, chiedendogli in continuazione di ridere o almeno reagire. Lo fa per esercitarsi, così almeno sostiene, perché a breve ci sarà una gara di barzellette per militari e lui vuole vincere a tutti costi il primo premio.
Ora, si chiede il comico, se raccontare storielle a un bambino che è appena rimasto orfano è una cosa di per sé assurda, non è ancora più assurdo che esista una gara di barzellette per militari? Deve esserlo per forza, visto che negli anni, pur avendo cercato ovunque qualche informazione a riguardo, non ha trovato niente che potesse confermarlo.
La questione nel libro rimane sospesa, ma per uno di quei cortocircuiti che si creano a volte tra le storie, appena qualche giorno prima di leggere Grossman, avevo trovato un episodio analogo in Barzellette per miliziani di Mazen Maarouf, pubblicato da Sellerio e tradotto da Barbara Teresi.

Nel primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, il narratore è un bambino alle prese con un padre che lui vorrebbe invincibile, ma che invece viene umiliato da una banda di miliziani che lo costringono, giorno dopo giorno, a inventare barzellette sempre nuove per divertirli.

Adesso, dopo averlo riempito di botte, anziché dirgli come al solito: «Noi siamo qui per proteggervi», iniziarono a chiedergli di raccontare loro una barzelletta. «Dai, raccontaci una barzelletta prima che te ne vai», dicevano.  «Non avere fretta». E mio padre doveva pensare a una storiella divertente. È ovvio che davanti a una platea di miliziani devi essere un buon narratore se vuoi guadagnarti la libertà. La tua storia deve essere convincente, interessante, brevissima. E deve fare ridere.
Non come questo, racconto, per esempio
.

Malgrado la meta-autocritica di Maarouf, il racconto fa ridere, anche in un suo modo strano. E la sensazione di fastidio, humour nero, compassione estrema e ancora fastidio che attanaglia il lettore per tutto il libro, ricorda in modo impressionante quella del pubblico che durante tutto lo spettacolo di Dova’le, mentre il comico alterna battute a provocazioni, prese in giro e confessioni tragiche e personali, si chiede se sia il caso di rimanere o fuggirsene a gambe levate.
Per restare bisogna stare al gioco, farsi condurre da un narratore che in quasi tutti i racconti è bambino, o è rimasto tale anche da adulto, e scompiglia i piani del reale e dell’immaginario, passa da un elemento all’altro seguendo un suo pensiero che appare illogico ma invece ha una coerenza assoluta,  e ti porta a spasso in un mondo in cui una pianta di peperone contiene le anime della famiglia, e un occhio di vetro ti protegge dalla violenza.
Lo sguardo bambino però non edulcora niente. La realtà della guerra è portata alle estreme conseguenze attraverso personaggi che inseguono le proprie ossessioni, corpi deformi, animali vaganti. Figure di un mondo che ha perso ogni punto di riferimento, dove tutto è possibile e i sentimenti di minaccia, paura, insicurezza sono resi nel loro stato puro.
«La finzione è una forma pura della menzogna» ha dichiarato Maarouf in un’intervista al Festival della Mente di Sarzana del 2019, e se per convincere il lettore uno scrittore deve sempre mentire, per mentire in modo convincente deve partire da un elemento di realtà, che in questo caso è la sua stessa esperienza di bambino palestinese cresciuto nel campo profughi di Chatila, a sud di Beirut, e vissuto in Libano all’interno di quel solco scivoloso che è lo statuto di rifugiato.
Poeta, giornalista, attivista, Maarouf è stato perseguitato a causa dei suoi articoli e delle sue poesie, finché nel 2011 non è stato costretto a fuggire a Reykyavík dove ha ottenuto lo statuto di rifugiato politico, in un gioco di bambole russe fra le sue multiple condizioni di apolide. In Islanda, in una città in cui, come ha ripetuto in più occasioni, il vero choc culturale è stato sperimentare per la prima volta cosa vuol dire vivere senza una cappa di violenza e costante minaccia, sono tornati fuori i ricordi, e ha scritto Barzellette per miliziani, che nel 2016 ha vinto Al Multaqa Prize, il premio più importante per i racconti in lingua araba.

Se la finzione serve a tenere insieme la realtà, soprattutto la propria, e a ricucirla dandole una forma che aiuti a comprenderla e darle un senso, l’umorismo può servire a dominarla.  E il mondo arabo ha una lunga tradizione di ironia e irriverenza nei confronti delle tragedie e del potere, come ha messo in evidenza un libro di qualche anno fa: Il sorriso della Mezzaluna. Umorismo, ironia e satira nella cultura araba di Paolo Branca, Barbara De Poli e Patrizia Zanelli (Carocci 2011). Sebbene negli ultimi anni una parte radicale dell’Islam sembra aver perduto il legame con questa tradizione, scagliandosi violentemente con chiunque osi mettere in discussione l’assoluta serietà di certi temi, e i governi dittatoriali non siano benvolenti nei confronti di nessuno, è certo che nel mondo arabo, in epoca moderna così come in quella classica, qualunque istituzione o comportamento, dai rapporti familiari passando per il potere politico e anche la religione, è perennemente oggetto di battute, proverbi, barzellette e opere umoristiche di vario genere. La risata è l’arma dei deboli. Se la tragedia ti manipola, l’umorismo ti permette di manipolare la realtà, di dissacrarla, come ben sanno Joha, Giufà, Giacante o Nasreddin, incarnazioni mediterranee dello sciocco sapiente che scardina i giochi della lingua, prende tutto alla lettera, non si autocensura mai e smaschera sempre il re nudo. Il protagonista di Applausi a scena vuota è stato un bambino fragile, senza protezione, isolato e preso di mira dai prepotenti. Per ribellarsi comincia a camminare sulle mani, testa in giù e piedi in aria, e da questa prospettiva ribaltata guarda il mondo degli adulti, cercando di far ridere sua madre, di salvarla con una risata dalla depressione in cui rischia di sprofondare definitivamente. Anche i bambini di Barzellette per miliziani hanno perso la protezione da parte degli adulti da un regime di violenza senza senso che li sovrasta. I padri che avrebbero dovuto fare da scudo, opponendosi al caos, ne sono stati le prime vittime.

Sebbene siano passati quindici anni, mio padre prova ancora un forte imbarazzo. Mi dice che si vergogna di se stesso. «Quant’ero codardo!», osserva.
«Okay, papà» ribatto io, «non tutti, in guerra, possono essere valorosi».
(Barzellette per miliziani)

Gli uomini di questi racconti hanno tutti perso qualcosa: braccia, gambe, dignità, la capacità di distinguere il vero dal falso, mentre i loro figli e nipoti cercano di salvarli sacrificando i propri corpi, fingendo di credere alle loro ossessioni, ostinandosi a vivere anche quando ancora non sono nulla se non grumi di sangue rappresi.

 

Munir non era un nome moderno. Io e mia moglie lo sapevamo. All’inizio lo abbiamo scelto per gioco, supponendo che il feto fosse maschio. Poi ci siamo convinti che lo fosse per davvero. Un grumo di sangue coagulato ha una personalità maschile. Questa era la conclusione a cui eravamo giunti. La nostra relazione con lui si andava consolidando. Tanto che a volte mi svegliavo per accarezzare la pancia di mia moglie con movimenti circolari in senso orario. (Acquario)

 

Ciò a cui non rinunciano mai però è il tono dissacrante, che smaschera le finzioni in cui gli adulti si intrappolano.

 

Mio zio morì tre volte in una settimana. Iniziò la maratona del suo decesso un martedì, appena tornato dal mattatoio. «Mi hanno fregato», disse. Poi si distese sul divano e morì. Quando è successo tutto questo io non c’ero, ma mamma me lo ha raccontato. Mio zio aveva indosso il costume spagnolo da matador ed era sporco di saliva di mucca, di colore biancastro. A quanto pareva, al mattatoio gli avevano riso dietro. Ecco perché si era tolto la divisa e l’aveva riposta nell’armadio, per poi distendersi sul divano e morire.
(Matador)

 Lo stesso disincanto nei confronti dei padri si ritrova nelle graphic novel dello scrittore satirico Riad Sattouf, coetaneo di Maarouf.  L’arabe di futur, che ha avuto un grandissimo successo in Francia, e che in Italia è pubblicato da Rizzoli Lizard. Si tratta di un racconto ironico di un’infanzia trascorsa tra un paese e l’altro, tra un padre panarabista dai grandi ideali e dalle molte contraddizioni e una mamma bretone sempre un po’ fuori posto. Nella prima vignetta l’autore si ritrae come l’uomo dei sogni: un bimbetto di due anni biondo, educato, colto, incarnazione dell’ideale di perfezione araba del futuro che ha in mente suo padre. In realtà, nel presente, tenace dissacratore di ogni piccola ipocrisia che incontra sul suo cammino.  Ancora un padre, ancora un intreccio tra storia e autobiografia in Antoine di Mazen Kerbaj, un altro autore la cui data di nascita coincide con l’inizio della guerra in Libano.  Kerbaj fa parte del collettivo di Samandal, una rivista indipendente libanese che pubblica fumetti, a cui appartiene anche Barrack Rima. Nato nel 1972, Rima è disegnatore, regista, e autore della graphic novel Trilogia di Beirut pubblicata in Italia da Mesogea. Nei suoi disegni, contraddistinti dall’uso simbolico del bianco e nero, gli elementi della città si sfaldano. L’autore mostra i dettagli del palazzo antico in cui abitava, ma le scene di violenza incorniciate da ciò che resta delle finestre rendono ogni ulteriore spiegazione priva di senso, e lui perde le parole, la voce diventa un rumore di fondo. A poco a poco della città non resta che il senso di spaesamento, si affonda in un magma scuro e denso come la pece.
Anche la Beirut di Maarouf non ha punti di riferimento. Non ci sono quartieri, strade riconoscibili, comunità in grado di offrire radici, ma case, cinema, mattatoi sempre sul punto di essere distrutti da un momento all’altro. Le strade sono popolate da figure archetipiche: i miliziani, i venditori di sahlab. In uno dei racconti per me più belli, Cinema, una bomba irrompe in una sala cinematografica dove si sono rifugiate varie famiglie. Non si vedono morti o feriti, ma il senso della perdita, la tremenda solitudine del bambino che non trova più traccia di sua madre, di sua sorella, come se non fossero mai esistite, la si percepisce nella perdita di punti di riferimento spazio temporali. Non c’è giorno né notte, e il tempo scorre in modo strano, perché, per quanto si sforzi di terminare la riserva di formaggini che la mamma aveva stipato nell’imbottitura del pelouche per sopravvivere ai bombardamenti, questa sembra non esaurirsi mai. Fuori dal cinema, al seguito di una strana mucca che si gonfia ogni giorno di più nutrendosi tra le crepe dei muri in rovina, il bambino vede la città muoversi seguendo parametri inusuali, come se l’esplosione l’avesse spostata in una realtà parallela.
Negli ultimi anni, soprattutto da quando il fallimento delle rivoluzioni del 2011 ha fatto sprofondare i paesi che sognavano il cambiamento in una situazione stagnante, dove sembra che non si possa andare né avanti né indietro, nel mondo orientale è fiorito il genere distopico come modo per raccontare situazioni altrimenti irraccontabili.  Exit west di Mohsin Hamid,  La fila di Besma Abdel Aziz e Frankestein a Baghdad di Ahmed Saadawi, solo per citarne alcuni, sono romanzi in cui realismo magico, weird e distopia si fondono per creare mondi dove passaggi segreti portano dalla guerra a paesi densi di pace, un’istituzione conosciuta come La Porta si prende carico di qualunque incombenza legata alla cittadinanza, costringendo gli abitanti di un intero paese a fare una fila interminabile e immobile anche quando rischiano la vita, e un essere mostruoso si alimenta e ricompone con i resti della devastazione. D’altronde lo stesso Barrack Rima, riferendosi alla Beirut dei suoi disegni, usa il termine di distopia.

Nei racconti di Maarouf, immersi fin dall’inizio in un realismo magico, si assiste a un progressivo distacco dal dato reale per andare sempre più verso il racconto fantastico e simbolico. Anche la voce narrante cambia. I bambini dei primi titoli passano il testimone agli adulti folli, maniaci, che hanno però in comune l’ossessione per gli scherzi, le barzellette. Sono l’uomo che in Biscotto fa impazzire la madre raccontandole storie assurde, quello che ha un amico che ogni notte recita parti da comprimario nei sogni altrui, quello che la volontà di non sorridere mai ha modificato la schiena fino a renderla una piattaforma che ospita feste per bambini, e che alla fine, ironia della sorte, si vendicherà di un miliziano uccidendolo con una battuta (Il Portatore).
Verso la fine lo sguardo cambia ancora, perde ogni residuo di umanità. È un toro, animale che nelle sue forme maschile e femminile percorre tutto il libro, a raccontare l’ultima storia. Antagonista dei personaggi umani che cercano in vario modo di dominarlo con la violenza, in una sorta di tauromachia che ha la sua probabile origine proprio in Mesopotamia, ma che resiste con pazienza come quei tori antropocefali che nella civiltà assira erano a guardia delle porte, immobili e pazienti, in grado di aspettare fino alla fine per prendersi la propria vendetta, e dire la loro su come funzionano gli umani (Juan e Ausa).
Per quanto Maarouf ceda giocando la parola al toro, però, non rinuncia a fare un cenno di intesa al lettore, facendogli intendere che in tutto ciò che racconta, al di là delle voci narranti, l’unica vera voce è la sua. Entra spesso nella narrazione, riprende cose non dette, fa capire che sta scherzando anche nelle situazioni più tragiche, gestisce il ritmo, la tensione e la risata. Insomma, proprio come Dova’le, si comporta come uno stand up comedian, intrecciando storie su storie fino a dire tutto di sé.

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