di Antonio Tedesco
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Per usare un vecchio modo di dire: cacciati dalla porta i racconti rientrano dalla finestra?
I libri di Rachel Cusk (Resoconto,Transiti e Onori, Einaudi) e di Elizabeth Strout (Olive Kitteridge, Fazi e Olive, ancora lei, Einaudi), per fare solo due esempi tra i più eclatanti, potrebbero anche considerarsi come raccolte di racconti aggregati secondo un’omogeneità di senso, un filo conduttore intimo, sottile che, pur avvalendosi di una ambientazione precisa e di un “personaggio-guida”, non sviluppa mai una trama, intesa in senso stretto, lasciando all’elaborazione del lettore l’interpretazione del percorso umano e psicologico dei personaggi. Questi ultimi, specie nei libri di Rachel Cusk, ma anche in molti capitoli-racconto dei due Olive Kitteridge, vengono colti quasi casualmente in una sorta di istantanea emotivo-esistenziale, che riesce, in molti casi, a dirci sul loro conto di più che se ne seguissimo una complessa parabola narrativa. L’attenzione delle due scrittrici in questione si concentra soprattutto sulle persone, sulle loro esperienze soggettive legate alle atmosfere, ai contesti in cui vivono, al loro sentire, alle loro percezioni a volte piccole e sfuggenti se non insignificanti in apparenza, al continuo confronto con se stessi e con gli altri, agli smarrimenti individuali e collettivi.
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Elizabeth Strout, nei due libri citati, segue le vicende esistenziali di una serie di personaggi, senza mai disgiungerli dall’ambiente in cui tali accadimenti si dipanano (l'immaginaria cittadina di Crosby, nel Maine) e facendo, anzi, dell’ambiente stesso – del luogo, del clima, delle sue costanti e variabili, dell’atmosfera che si respira più in generale – un personaggio a sua volta, che partecipa e influenza le esistenze di chi in quel luogo vive.
I libri della Strout sono suddivisi in capitoli che, nel loro essere ampi e significativi frammenti di esistenze individuali, restituiscono dignità alla forma ampia che i racconti autonomi posseggono; dove può accadere che solo in maniera marginale, o apparentemente casuale, emergono collegamenti alle vicende della protagonista. La quale, pur senza perdere il suo ruolo di personaggio centrale del libro, viene raccontata a sua volta attraverso episodi ben distinti e autosufficienti.
Questo procedimento narrativo mira a creare una continuità che pure appartiene alla forma romanzo, ma lo fa rimanendo, senza ombra di dubbio, nella specifica fisiologia della struttura del racconto. Questo le permette di svicolare da qualsiasi margine temporale, e seguire un ordine cronologico impreciso e saltellante. Eppure, alla fine, dall’unicità del contesto, ai personaggi che tornano e “fanno capolino” da una storia all’altra, si percepisce un’idea di coerenza e unità del tutto.
Una scelta stilistica in cui la visione del tempo è intesa come amalgama, un flusso dove passato, presente e futuro rischiano di diventare solo delle convenzioni di comodo.
Olive Kitteridge e Olive, ancora lei, sono, quindi, raccolte che si articolano per episodi autonomi e autoconclusi, in cui la natura e il paesaggio sono, come già accennato, parte attiva di questo incipiente accadere. Del quale gli uomini sono incapaci di cogliere le ragioni profonde e vivono tutto questo in uno stato di costante smarrimento, di inesprimibile disagio, che si manifesta attraverso incertezze, esitazioni, gesti incompiuti. Le storie sono tutte qui. Sono implicite, implose in queste vite soffocate e sofferte e non hanno bisogno di ulteriori impalcature, della costruzione artificiosa di una trama.
Il personaggio di Olive Kitteridge, con le sue asprezze, le ruvidità del carattere, la scarsa predisposizione a compiacere ipocritamente le convenzioni sociali, è come una sorta di sonda, un elemento di contrasto attraverso il quale si evidenziano atteggiamenti, comportamenti, contraddizioni di tutto il piccolo mondo che la circonda. Quasi fosse un punto di fusione in cui quel circoscritto ma rappresentativo universo confluisce, con tutto il suo carico di sofferente umanità.
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Questa forma ibrida, che è stata definita anche come “romanzo in racconti”, potrebbe essere riconosciuta anche in quella utilizzata dalla scrittrice canadese naturalizzata britannica Rachel Cusk, per quanto riguarda i romanzi che compongono la sua trilogia di cui Resoconto è il primo titolo, seguito da Transiti e Onori, tutti editi in Italia da Einaudi. Ciò che si manifesta centrale, in queste strutture romanzesche, è la scrittura stessa, intesa come punto di convergenza, di osservazione e soprattutto di ascolto. Pratiche dalle quali trae elementi che vengono riportati, come dice appunto il titolo del primo dei tre libri (Resoconto), in maniera precisa ma neutra, registrando le voci e le realtà per quello che sono, senza interporre alcun giudizio sul merito delle stesse o sulle persone che le esprimono.
Non a caso proprio nel primo romanzo la cornice è Atene. Ciò che si evoca, in fondo, è l’Agorà, in quanto luogo di incontro, di riunione, di scambio. Protagoniste sono le parole. Che, come in Shakespeare, evocano pensieri, sentimenti, stati d’animo: sottili risvolti di complesse psicologie umane. Con una lingua estremamente letteraria, che proprio per questo è in grado di evocare con assoluta precisione le corrispondenze ricercate in chi legge. Un processo di gestazione e manipolazione del linguaggio che riesce a restituire con sorprendente naturalezza una realtà profondissima. Un porsi (stare) nel mondo, carico di interrogativi e perplessità.
Il concetto di Agorà assume, quindi, una sua particolare dimensione come luogo di ricerca di sé attraverso l’altro (attraverso l’ascolto dell’altro).
Anche i libri successivi seguono la medesima falsariga del primo. Non romanzi di intreccio narrativo, ma di frammenti di vita, di esperienze, di capacità di dire e di ascoltare, nel quale brandelli di esistenze, di visioni, di modi di stare al mondo, vengono colti dall’autrice e riportati attraverso questo suo sofisticato procedimento creativo. In Transiti c'è un filo conduttore sotterraneo, quello di una casa da ristrutturare radicalmente (la casa acquistata dalla narratrice trasferitasi, dopo il divorzio, a Londra) che, ridotta poco meno che a un cumulo di macerie, assume subito la funzione di metafora delle varie macerie esistenziali nelle quali, i singoli personaggi che compaiono, si dibattono più o meno consapevolmente.
Rachel Cusk, con un procedimento più complesso, e per certi versi meno accattivante di quello utilizzato da Elizabeth Strout, la quale privilegia, per certi versi, il fattore emotivo, scava a fondo, con il suo linguaggio preciso e pregnante, dietro la facciata di ognuno (la casa sembra bella solo apparentemente, ma dentro è completamente da rifare), mettendo a nudo, attraverso le loro stesse parole, alternando la forma del dialogo a quella del discorso indiretto libero, le fragilità, le incertezze, i pregiudizi, i condizionamenti, la casualità, spesso illogica, delle scelte.
Una chiave di lettura di tutto il testo può essere ricercato nelle parole di Dale, di professione parrucchiere, in uno dei primi capitoli del romanzo (che anche in questo caso hanno le caratteristiche di essere strutturati come racconti ben distinti e autonomi), in cui la scrittrice fornisce una notevole prova della sua arte narrativa. Il dialogo dell'io narrante con il parrucchiere, viene perfettamente contestualizzato e contrappuntato nell'ambiente in cui si svolge (l'elegante salone, appunto) durante un'elaborata operazione di tintura di capelli a cui la narratrice stessa si sottopone. Ambiente che, attraverso alcuni piccoli, ma significativi scambi nei rapporti tra lavoranti e altri clienti, sembra trasformarsi proprio nell'emanazione delle parole e dei concetti che il parrucchiere stesso espone alla scrittrice.
Il capitolo esordisce con una frase allegorica e carica di senso:
Ho chiesto a Dale se poteva provare a liberarmi dal grigio.
Il parrucchiere lascia trapelare il suo scarso apprezzamento per tali operazioni di “mascheramento”. E, mentre attende meticolosamente al suo lavoro, racconta alla cliente-scrittrice alcune vicende personali riguardanti la sua famiglia e i suoi amici. In particolare di un nipote un po’ disagiato, ma anche di una specie di illuminazione che lo aveva colto, una sera di capodanno trascorsa in casa propria con amici e conoscenti. Quella sera, alla proposta di uscire per andare a festeggiare in un locale, gli si era palesata con una chiarezza ineludibile tutta l’incongruità dei suoi ospiti, del loro atteggiamento, della vacuità delle loro azioni e delle loro parole, tutta la sostanziale immaturità nascosta dietro il loro modo di essere e di fare. Un'improvvisa consapevolezza epifanica, che lo aveva portato a trarre sconfortanti conclusioni riguardo l’inadeguatezza dello stare al mondo.
(…) quel capodanno aveva avuto la sensazione che nella stanza ci fosse qualcosa di enorme che tutti quanti fingevano di non vedere.
Gli ho chiesto cosa fosse. (…)
- Paura – ha detto – E ho pensato, io non scappo. Io resto qui finché non se ne è andata - .
Questi Transiti, allora, sono come passaggi nella vita e nelle vite. Transiti come apparizioni, epifanie che aggiungono tasselli, che vanno a costruire una visione disincantata e disillusa, in cui nessuno è immune dal sentirsi sperduto, confuso, incapace di fronteggiare quelle “macerie” che sempre e comunque incombono. Fino al capitolo finale dove, pur senza giungere ad alcuna reale conclusione, ci si apre ancora ad altre rivelazioni, o meglio, a degli svelamenti, che riguardano storie passate, sentimenti repressi, ma anche impulsi incontrollabili.
Lo sguardo dell’autrice, in apparenza neutro e oggettivo, nasconde, proprio in virtù di questo, un senso profondo di compassione e partecipazione. Non si assolve, non si pone su alcun piedistallo, sa che le macerie sono anche nella propria casa.
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Ciò che emerge con maggior forza nei libri di queste due scrittrici è l’attenzione agli altri, alla vita degli altri. Una grande capacità di ascolto che si trasforma in partecipazione emotiva. Un’empatia che pare trasudare dalla pagina anche quando l’autore (Rachel Cusk), o il personaggio principale (la Olive della Strout) sembrerebbero volerne prendere le distanze.
Si potrebbero fare ancora altri esempi di questa struttura ibrida, svicolata dal canone classico romanzesco, di cui il romanzo contemporaneo sembra un po’ disinteressarsi, come Asimmetria di Lisa Halliday (Feltrinelli), libro composto da due romanzi brevi e un racconto lungo finale, ognuno dotato di una sua sostanziale autonomia, ma che pur trova in questa apparente frammentazione una propria omogeneità.
Sono solo alcuni degli stimoli (che ci giungono, in questo caso, da tre bravissime scrittrici) a ripensare la forma romanzo, che rischia di sclerotizzarsi in una infinita coazione a ripetere, pur nelle sue innumerevoli varianti (ma Ezra Pound non aveva detto che dopo l'Ulisse di James Joyce il romanzo non sarebbe stato più lo stesso?).
Le scrittrici prese qui in considerazione raccontano utilizzando strutture narrative ampie e ariose e libere, ma senza necessariamente romanzare. Recuperando, in qualche modo, e rigenerando, la più antica forma di comunicazione e trasmissione dell'esperienza umana, che è il racconto - appunto.