Le mele, di German Sadulaev

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Dal Marzo 2017 è in libreria la raccolta Falce senza martello, racconti post-sovietici che raccoglie alcune delle voci più interessanti di autori russi degli ultimi anni. Il libro, pubblicato da Stilo Editrice, è curato e tradotto da Giulia Marcucci. Pubblichiamo il racconto LE MELE, di German Sadulaev, per gentile concessione dell'editore.

 

LE MELE
di German Sadulaev

La storia del peccato originale la conosciamo dalle labbra di Eva. La raccontò così: arrivò strisciante il Serpente, convinse a mangiare il frutto. Sempre, ma soprattutto se a testimoniare è una donna, occorre ascoltare l’altra parte. Ma chi era in questo caso l’altra parte? Adamo? No. Lui ed Eva sono complici. L’altra parte è l’infamato Serpente. Bisognava ascoltarlo il Serpente. Forse avremmo saputo che non era coinvolto, oppure che non c’è stato nessun Serpente.
Eva stessa era il serpente.
Non ci si vede chiaro nell’intreccio biblico del peccato originale. Perché era vietato mangiare i frutti dall’albero della conoscenza? Perché il Signore non permise di distinguere il bene dal male? Che c’è di male? Se il male è stato creato alle stesse condizioni del bene, dovrà pur esserci qualche differenza. So che i teologi dispongono di migliaia e migliaia di trattati astrusi sul senso e i significati simbolici del peccato originale di Adamo ed Eva, ma io non ho alcun desiderio di comprendere simboli indecifrabili e spiegazioni sconclusionate.
La gente semplice, non i teologi, per reticenza crede che il frutto proibito sia una metafora del sesso. Eva aveva istigato Adamo ad avere con lei un rapporto sessuale. E ogni cosa in questa storia si fa ancora più incomprensibile.
Non serve a niente la spiegazione del peccato. Non vi è né capo, né coda. Scheggia di un vecchio mito su di un qualche antico tabù di una qualche antica tribù. Forse nella prima redazione del peccato originale Adamo ed Eva erano fratello e sorella, e infransero il divieto d’incesto. Non avevano scampo, in fin dei conti solo così poterono popolare di uomini la terra. Ma il Padre severo li castigò, votandoli alla fatica e alla sofferenza. Non c’è giustizia in questo, ma una logica sì che c’è.
In India si è conservata una storia speculare. Il dio della morte, che si chiamava Yama, aveva una sorella gemella, Yamî. Lei cercava di sedurre il fratello. Dopo l’atto sessuale, avrebbero potuto raggiungere l’immortalità e la perfezione. Ma Yama preferì morire e iniziare il cammino nell’aldilà. Fu ricompensato per probità e divenne il signore del regno dei morti.
Talvolta penso: che cosa sarebbe cambiato se Yama avesse ceduto alla tentazione? O se Adamo si fosse trattenuto?
A suo tempo io seppi resistere alla tentazione. Non ho rimpianti. Non c’è alcun senso nell’avere rimpianti. Ci sono state in seguito, più tardi, molte donne con cui ho peccato. E ancor più quelle con cui il peccato l’ho evitato. Ma né dell’uno né dell’altro caso io oggi, ora, mi lamento. Perché tanto ormai fa lo stesso. Non cambia più niente. Cosa resterà? La memoria? Non ha senso. Ed è anche un testimone inaffidabile. I volti e le storie ecco che già si confondono, e io non sono sempre convinto di riconoscerli. In quell’occasione però, a quanto pare, seppi tener duro.

Nel maggio del 1987, a quindici anni, stavo finendo la nona classe nella gialla e polverosa Kizljar. La cittadina si trova sul fiume Terek, sulla sabbia, su un terreno argilloso ed esposto ai venti. All’epoca popolavano Kizljar i cosacchi del Terek, i cumucchi, gli armeni e pochissimi montanari. Adesso è il contrario. Da quando la città si è vestita di asfalto e pietra, c’è meno polvere. E il Terek si è insabbiato. E i venti, stanchi, si sono zittiti.
Di solito passavo le vacanze estive a casa. Si poteva fare il bagno nel fiume, andarci a pesca. Attorno a Kizljar c’erano giardini e vigneti per le scorrerie. Avevo una banda di amici, briganti infaticabili, con i quali di certo non ci si annoiava. Non chiedevo di mandarmi nei campi per pionieri, non mi interessava nemmeno quello di Artek. Papà e mamma usufruivano dei luoghi di villeggiatura sovietici, una volta mi portarono con loro, ma io al mare mi annoiavo e non vedevo l’ora di tornare a casa. Non mi costrinsero più. Andavamo spesso a far visita al parentado cosacco nelle stanicy vicine: Šelkovskaja, Aleksandrijskaja, Červlennaja. I nostri genitori avevano ovunque parenti, kunaki, nonni, nonne, zii, zie, fratelli e sorelle. In cinquecento anni, sulle terre del Terek, le tribù dei primi cosacchi avevano affondato le radici nella sabbia della steppa, avviluppando la terra e intrecciandosi come ife fungine. Stavo bene nei villaggi. Lì ogni cosa era esattamente come a casa: il fiume, le graminacee, il vento e il sole bianco nella calda steppa. Ovunque c’erano giardini e vigneti, e anche briganti, coetanei e compagni di gioco. Durante l’infanzia era tutto facile e leggero. Ma d’improvviso l’infanzia finì. E allora, durante quell’ultima primavera, me ne accorsi di colpo. Anche se non successe niente. Lo stesso sole, e il Terek, e maggio con le sue ciliegie mature. Ma i divertimenti di sempre non attiravano più. Non avevano né luce né felicità. La banda si disperse fra altri interessi, interessi da grandi: qualcuno aggiustava il motore della barca, chi la motocicletta, la sera non si bighellonava più nei giardini, ma nei locali dove si ballava, e anche il modo d’azzuffarsi era cambiato: con cattiveria, ma anche con accortezza, per non uccidere o ferire nessuno. Le mani erano diventate pesanti, ma nessuno desiderava ricevere il biglietto per ‘il cammino verso la vita’ passando prima da un riformatorio.
In quel periodo torbido, gli ospiti che venivano a trovarci erano rari. La sorella di mio padre, zia Liza, da tanto tempo si era sposata con un ceceno e si era trasferita al suo villaggio. Da allora viveva là con il marito e i figli. Dalle nostre parti capitavano, a dir tanto, una volta ogni due anni. Non si era creato il legame. Sebbene il ceceno fosse tranquillo, istruito, e insegnasse matematica a scuola. Parlava il russo in modo semplice ma corretto, come parlano in televisione, e non come da noi nei nostri villaggi o a Kizljar, con ghirigori cosacchi. E anche le sue usanze erano normali, umane. Poteva bere il vino e a tavola stava seduto con tutti, mangiava di tutto, non faceva lo schifiltoso. D’intralcio era stata la vecchia generazione, i nonni e le nonne da entrambe le parti. Nutrivano gli uni contro gli altri vecchi rancori etnici. Mio padre era un uomo moderno, internazionalista, e si sentiva in imbarazzo con sua sorella per questi deboli legami familiari.
Ma arrivò per i vecchi il momento di farsi da parte. Molti furono sepolti, mentre altri divennero infermi e non autosufficienti. Adesso erano gli adulti, quelli come mio padre, a decidere come organizzare la vita. Il babbo voleva giustificarsi con zia Liza per i lunghi anni di rapporti tesi e accoglieva gli ospiti come poteva, con sfarzo e calore. Si mettevano i tavoli nel cortile, dalle cantine si tiravano fuori le damigiane, si friggeva e si cuoceva nella cucina estiva. E come ultima vittima sacrificale, in qualità di tenero agnello, alla zia fui offerto io: portati via Maksim per l’estate!
Povera la mia mamma: poco mancò che non cadesse con la brocca d’acqua bollente sul selciato del cortile, dove la famiglia stava banchettando. E la notte, la sentii, piangeva e si lamentava che mio padre, senza cuore, mandava il suo unico figlio nella selvaggia e malvagia Cecenia, e chissà quali pericoli attendevano ora il tenero ragazzo. Papà non era più così convinto e si giustificava dicendo che gli storici registravano questa usanza presso i cosacchi, di affidare alle popolazioni montanare i propri giovani, per farli crescere da uomini, e perché facessero amicizia con la gente del posto. La mamma si lamentava sempre più forte e ripeteva: come un amanat! Dai tuo figlio come un amanat!
A quel punto papà si arrabbiò e iniziò a offendere la mamma. Le rammentò che presto il potere sovietico avrebbe compiuto settant’anni, e lei invece, la ritardata, continuava a parlare di amanati. Disse che mi avrebbe fatto bene vivere tra i ceceni. E che, in fin dei conti, Liza era la mia vera zia e suo marito, Chamzat, era una persona meravigliosa, per bene. La mamma, tuttavia, riuscì a contrattare ottenendo un’attenuazione della condanna: papà acconsentì a mandarmi non per tutta l’estate, ma solo per un mese. E solamente nel caso in cui non avessi avuto da obiettare.
Io ero afflitto perché la mia infanzia di colpo s’era assottigliata ed era volata via, a sproposito, proprio alla vigilia dell’estate! Proprio quando è il momento giusto per dimenticarsi della scuola troppo adulta e tuffarsi in un divertimento senza fine. E invece ora raggiungevi la riva del lago spensierato e non vedevi che sabbia asciutta. E tutti i compagni occupati. Cosa c’era da fare, bighellonare per l’estate come un estraneo? No. Se dev’esser la Cecenia, la Cecenia sia. Non mi misi a fare obiezioni.
A metà giugno la mamma mi preparò una grande borsa e mi accompagnò all’autobus. Cercava di non piangere, per non attirarsi disgrazie, e più volte mi fece il segno della croce bisbigliando una preghiera.
Forse è merito suo, della preghiera materna, se mi sono salvato dal peccato.
Nel villaggio, vicino alla fermata dell’autobus, mi aspettava lo zio Chamzat a bordo di una Volga bianca di lusso. I dettagli della mia visita erano stati concordati in anticipo per telefono. Il viaggio era durato in tutto un paio d’ore, ma l’autobus mi aveva condotto in un altro mondo. Il villaggio ceceno non assomigliava affatto alle nostre stanicy cosacche. Le case erano costruite in modo diverso, le strade erano diverse, diversi i giardini e gli orti, la terra era cupa e pesante, e intorno non c’era la steppa bensì alte vallate. Lo sguardo abbracciava all’orizzonte nere colline oltre le quali, ricoperte di neve perenne e ghiaccio, erano le scintillanti bianche montagne.
La Volga si avvicinò al cortile e zio Chamzat suonò il clacson. Corse fuori una ragazzina e si mise ad aprire il pesante cancello di ferro dipinto di verde. Per me era tutto una novità. Nelle stanicy perfino le famiglie benestanti mettevano attorno al cortile tutt’al più recinti di vimini, qui invece erano alti, ad altezza d’uomo e anche più, e obbligatoriamente con cancelli di ferro. A casa di zio Chamzat mi stavano aspettando. Zia Liza uscì in veranda e mi abbracciò, e anche le sue due figlie mi vennero incontro per abbracciarmi. La zia mi abbracciava normalmente, alla russa, e mi baciò in fronte, le sorelle invece, in modo strano, mi stavano di lato e mi cingevano alla vita sfiorandomi con il fianco e la spalla, come se fossimo pronti per iniziare a ballare proprio in quell’istante. Dopo il viaggio mi lavai, pranzammo insieme e la zia mi portò nella casetta per gli ospiti che mi avevano destinato.
Sistemai le mie cose e andai a fare una passeggiata per il cortile e il giardino.
Zio Chamzat era benestante. Il suo terreno si estendeva per non meno di duemila metri quadrati. Una metà era occupata dal cortile con la casa e le costruzioni d’uso domestico, l’altra dal giardino e dall’orto.
La casa era grande, di mattoni bianchi, con una casetta indipendente e la cucina estiva.
Come venni a sapere in seguito, la ricchezza della famiglia di Chamzat si fondava sull’edilizia e sul commercio. Lo stipendio di un insegnante all’epoca sovietica era dignitoso, tuttavia non sufficiente per costruire magioni e andare in giro in macchina. In estate, durante il periodo delle vacanze scolastiche, Chamzat insieme ai suoi parenti andava a lavorare in Kazakistan per un paio di mesi. Costruivano stalle per i grandi allevamenti con il metodo dell’appalto a squadra e guadagnavano bene. Zia Liza non lavorava da nessuna parte, però era nel commercio, ovvero faceva contrabbando di articoli di scarsa reperibilità. A volte partiva per Mosca o Baku dove aveva conoscenze nel settore, trasportava stivali italiani, jeans americani e via dicendo, e li rivendeva a sovrapprezzo recandosi su invito nelle case di clienti ricchi e fidati, tra i quali vi erano direttori di sovchos, di industrie e negozi, revisori, procuratori, shabbashniki e tutto il resto della borghesia locale.
Nella famiglia c’erano quattro figli. Il più grande quell’estate era via per il lavoro stagionale. Il secondo stava facendo il servizio militare. Restavano le due figlie. La più grande aveva finito la scuola, ma sarebbe andata all’università solo l’anno successivo, e avevano deciso che, nell’attesa, avrebbe aiutato la madre a casa. La più piccola aveva finito la settima classe. Si chiamava Toita, che vuol dire ‘basta’. Quando videro che arrivavano le femmine, zio Chamzat e zia Liza smisero di mettere al mondo figli. La più grande la chiamavano alla cecena Aset. Ma la madre, come del resto anche il padre, nella quotidianità familiare non ufficiale chiamavano le figlie con i nomi russi: Tanja e Nastja. Nastja.
Il solo nome induce in travolgente tentazione.

Mi è capitato di recente, a luglio, di percorrere un lungo tragitto da Valdaj a Mosca, costeggiando vasti campi scottati dal sole. I campi erano in parte seminati, in parte ricoperti d’erba infestante. Il paesaggio bucolico, piatto, mi infuse sonnolenza, e mi appisolai. Mi risvegliò un forte odore che penetrava attraverso i filtri dell’aria condizionata.
O meglio, non mi risvegliò subito, bensì inizialmente partecipava a un fluttuante dormiveglia, era la base di una storia che aveva cominciato ad appiccicarsi all’interno delle palpebre come i disegni di un cartone animato. Era la prima volta che sognavo gli odori, per questo iniziai a dubitare e mi svegliai. Succede sempre così: il dubbio nella solidità, affidabilità e real tà del sogno, nella legittimità della sua coscienza, conduce al risveglio. Un giorno potremo risvegliarci da tutti i tipi d’illusione terrena, non senza aver prima messo in dubbio che ogni cosa qui, inclusi noi stessi, esiste per davvero.
Risvegliatomi, chiesi al conducente di fare una sosta e l’auto si accostò al ciglio sassoso della strada.
Scesi dalla macchina, attraversai il fossato stretto e, passando lungo un sentiero appena visibile, mi inoltrai nel campo coperto d’erbacce. Chiusi gli occhi e inspirai. Allora un denso impasto di sapori pungenti d’erbe cotte mi pervase dalla punta dei piedi alla testa. E ricordai quel profumo di peccato.
Il campo deserto dietro gli orti dello zio Chamzat e dei vicini non era incluso nella rotazione delle colture e nel suo centro era disposta un’opera progettata per la difesa dei civili: un rifugio in cemento costruito nell’anno delle Olimpiadi di Mosca e immediatamente abbandonato. Intorno erano cresciute invalicabili malerbe. Solitamente uniformi, quelle attorno al rifugio erano invece variopinte, come ad affrontarsi in una grande battaglia di popoli, a volteggiare per il campo in una danza marziale, passando all’offensiva e sbaragliandosi a vicenda, senza tuttavia mai conquistare, respingere e cancellare la composizione eterogenea. Considerevole in questo equilibrio era il ruolo dell’uomo che si batteva ora dalla parte d’una potenza verde ora dell’altra, falciando gli avversari o per nutrire il bestiame con l’erba migliore, o per segnare un limite al rigoglio delle giungle velenose nel luogo abbandonato.
Noi eravamo là, l’odore dolce dell’erba ci dilatava le pupille e le narici, l’oppio si piegava verso terra, l’ambrosia appiccicosa solleticava la pelle bagnata dal sudore, mentre le estremità affilate dei cappellini dei prati con le loro punte ci spingevano a voltarci sul morbido letto della gramigna. Lungo lo steccato biancheggiava come un velo steso a terra senza cura l’achillea, e la rovente canapa faceva fluire dentro di noi raggi verdi di sogno diurno inebriante, e l’ortica per non farci addormentare e non farci cogliere in flagrante si arrampicava lungo la nuda gamba; il nostro respiro lo soffocavano api, vespe, grandi bombi, e qualche altro animale alato che si nutriva sui fiori della forbicina, dell’ibisco e dell’erba di Santa Barbara. Il fedele cardo stava dritto come una parete robusta, e il giusquiamo nero teneva d’occhio il mondo circostante affinché, in caso d’allarme, le campanelline del camenerio ci dessero segnale.
E doleva in fondo alla pancia, e si arrestava il respiro, e una tachicardia furiosa al petto, mentre nella testa, o che fosse musica celeste o dolce lamento del demonio: eccolo, il tuo peccato, sognato e tanto atteso, tendi la tua mano, avvicina le tue reni e svela ciò che il Padre geloso ti ha celato.
So che poi dovrei raccontare qualcosa dei seni bianchi sudati con i capezzoli marroni, del valloncello tra le scapole tremanti, dell’aroma dei capelli mescolato ai profumi del giusquiamo e dell’oppio, della scossa elettrica al fianco casualmente avvicinatosi, e poi di come turbinano gli elicotteri e un vento caldo trascina via la coscienza della propria identità dal confine esteriore del corpo in una buia profondità pulsante, e nemmeno è chiaro di chi sia, se mia o sua, la profondità. E qualcosa sullo stelo del diaspro, sebbene mi torni sempre in mente il granturco maturo.
Ma sapienti sat, basta così con gli odori, non ne parlerò più. In parte perché non mi pongo l’obiettivo di rendere il peccato attraente. Anche senza di me ne è piena tutta l’arte umana. E l’intelletto se la cava bene da solo, oh, che fiori del male vi crescono! Incredibilmente belli! Tutto il peccato, prima del peccato, dopo, e durante il peccato si compie con la mente e nella mente, invece all’inferno si trascina l’anima legata dalle corde della perdizione. Adesso vi sarete già immaginati tutto quello che è stato e non è stato con Nastja. Ma fino a un certo punto.
Anche perché io stesso non sono sicuro di tutto. In fin dei conti stiamo parlando del peccato, del peccato mortale, per di più della violazione di tutti i tabù e divieti, e ogni trovata, languida fantasia di una mente malata, può essere interpretata come ammissione sincera e presa come base per ogni accusa ventura, o come luogo dove collocare la mia povera anima nella condizione d’esistenza che si confà al peccatore e corruttore: per esempio, nel corpo del verme. Narrando della virtù, possiamo parlarne senza scendere nei dettagli, affinché il nostro ragionamento non appaia come vanteria. Bisogna aggiungere che basta un buon proposito per essere ampiamente ricompensati, e i dettagli di un buon proposito non sono così importanti. Però nella descrizione del peccato occorre essere precisi.
Una volta, da piccolo, mi ruppi un braccio saltando senza il permesso degli adulti dal tetto della baracca. Per presentare l’accaduto come un incidente del quale non ero affatto colpevole, mi inventai una storia su come ero caduto inciampando sulla soglia, la molla era saltata e la porta aveva completato il fattaccio. Ogni volta, già ingessato e rispondendo alle persone che mi chiedevano come mi fossi fatto male, esponevo questa storia che pian piano si arricchiva e portavo a una perfezione sempre più convincente.

Finii io stesso per credere alla mia versione. E a lungo ricordai solo quella. Di recente, oramai già adulto, inaspettatamente ho ricordato la verità sull’incidente, che prima avevo rimosso dalla coscienza.
Penso che forse tra me e Nastja ci sia stato qualcosa. Alcuni giorni del torrido mese nel villaggio ceceno si aprono come voragini d’una oscurità scintillante. Non ricordo niente da tempo, ma ho la vaga sensazione che sia successo qualcosa d’importante. Dimenticato a forza, per costrizione. Per l’impossibilità, l’incompatibilità fra la memoria e il desiderio di conservare la personalità nel comfort morale e nell’integrità psichica. Ci sono anche indirette conferme, per esempio nel carattere dei nostri successivi rapporti. Nella reticenza che mette soggezione. E nei frammenti di alcune sensazioni-memorie assolutamente fisiologiche che alle volte vengono a galla dal fondo limaccioso della mia memoria redatta. Comunque è possibile anche il contrario. Mi viene in mente un aneddoto accaduto allo scrittore rumeno Mircea Eliade. Mircea, allora era ancora un giovane studente, ricevette una borsa di studio dal ragià e si recò in India per studiare le dottrine dello yoga e del tantra.
All’inizio svolse le sue ricerche nell’università di Calcutta, ma presto si avvicinò al famoso insegnante di sanscrito e maestro yoga di nome Surendranath Dasgupta, e divenne il suo allievo personale. Dasgupta propose a Mircea di stabilirsi a casa sua. E Mircea si stabilì a casa del guru. Alcuni mesi più tardi fu cacciato via dalla casa, dall’università e dalla città con disonore. Dasgupta aveva una figlia, Maitreyj, una ragazza di sedici anni con la quale lo studente rumeno aveva stretto una relazione biasimevole.
Rientrato in Europa, Mircea divenne scrittore, insegnante, conoscitore dell’Oriente e interprete delle pratiche mistiche nel campo dell’antropologia comparata. Tra le altre cose scrisse il romanzo autobiografico Maitreyj. Incontro bengalese, sull’amore vietato tra lui e una ragazza indiana. Quarant’anni dopo Maitreyj stessa pubblicò un libro dal titolo Na hanyatè. Ciò che non muore mai, su quello che veramente c’era stato fra lei e lo studente rumeno. Il libro in India divenne un bestseller, anche oggi è possibile trovarlo in tutte le grandi librerie.
Tralascio che Maitreyj sia stata a modo suo parziale e che, nel tentativo di proteggere il proprio nome e l’onore della famiglia, tratti il passato come quando si diluisce con l’acqua la spremuta troppo agra. Ma bisogna sempre dare ascolto all’altra parte. In questa storia l’altra parte è Maitreyj, che ha taciuto per quarant’anni mentre Mircea dilettava l’Europa con fandonie sulle sue avventure romantiche. Non sappiamo chi dei due fosse il serpente, e se in tutta questa storia ci sia stato o no un serpente. Ma ecco il quadro che deduciamo da un confronto: Mircea Eliade, noto specialista di cultura e filosofia indiane, conoscitore dello yoga e del tantra, interprete di pratiche mistiche e rituali, rumeno erudito e poliglotta, in realtà non aveva capito niente dell’India. Non aveva capito chi fosse un guru, cosa rappresentassero la famiglia e la casa per un individuo, e come una persona educata si comporta nella propria abitazione. Non aveva capito come e che cosa insegnano i Veda. Non uno dei mantra Upaniṣad aveva illuminato il suo cupo e rude cuore rumeno, popolato da scarafaggi e cimici. Mentre il cuore caloroso e morbido della ragazza indiana era rimasto per lo studioso totalmente Terra Incognita.
Mircea suppone che Dasgupta lo avesse invitato a vivere nella sua casa al fine di stringere amicizia con un occidentale istruito e avere in futuro la possibilità di trasferirsi in Europa. A Mircea era sembrato anche che Dasgupta incalzasse i due ragazzi ad avvicinarsi, con il piano di fare del futuro genero un suo seguace. Et cetera.
Cosa puoi dire in questi casi? Con tutto il rispetto per la memoria di un pensatore per davvero originale e interessante, in questa storia egli appare ai nostri occhi nelle ridicole sembianze dell’idiota narciso. Un misero rumeno, studente, che viveva facendo l’elemosina al ragià. Un europeo istruito, un buon partito, certamente no.
Non aveva capito niente, proprio niente.
Surendranath Dasgupta invitò lo studente a vivere a casa sua perché aveva visto il suo zelo nello studio del sanscrito e dello yoga. Voleva fare dell’uomo bianco un suo vero e proprio allievo. Secondo i Veda l’allievo vive nella casa del guru e lo serve. La famiglia del guru diviene la sua famiglia. Maitreyj divenne sorella di Mircea. Fare con lei il cascamorto? Lo stesso risultato l’avrebbe ottenuto andando a letto con la moglie del guru: il karma nero è uno dei peccati più gravi, paragonabile per le terribili conseguenze all’uccisione del bramino e all’offesa della divinità. Mircea rovinò tutto, profanò i rapporti sacri fra il maestro e l’allievo. Il guru lo cacciò via quando capì che nemmeno lo studio dei Veda e del sanscrito avrebbe potuto fare di un rumeno primitivo un eletto. Sono come bestie, questi occidentali. Ovunque non vedono che sesso. E perfino nella casa del guru sono capaci di compiere il peccato più sporco, come ratti di fogna che si accoppiano striduli sull’altare di un vecchio tempio. Non vedono Dio in nessun dove, in compenso trovano ovunque la possibilità di solleticarsi i genitali da ratto. Oh, esseri infelici, traviati!
Non sappiamo se per davvero Maitreyj avesse provocato in Mircea la sensualità o se tutto questo sia stato il delirio dell’immaginazione malata di un rumeno ripudiato. Il passaggio di Eliade sul fatto che lei di notte andasse da lui, Maitreyj con sdegno lo ha dipinto come una menzogna. Può darsi che lui abbia interpretato erroneamente i suoi slanci familiari, da sorella. O l’interesse, proprio delle giovani ragazze, per tutto quello che vi sia di nuovo, insolito. Più probabile è che la ragazza fosse realmente innamorata. E avesse conservato per tutta la vita quest’amore impossibile.
Ma assolutamente impensabile è che lei si fosse offerta al coito come una Lolita indiana. Può darsi che avesse visto nei suoi sogni il sari rosso, la cerimonia nuziale addobbata d’oro e di fuoco, e che, avendo capito che mai sarebbe stato possibile, avesse riposto il tutto nei sogni. Perché non era né rumena, né inglese, non era polacca o francese. Non apparteneva nemmeno a una delle specie di animali raffinati. Era la figlia di un guru illuminato, la promessa sposa di una famiglia di bramini, la sua dote era la consapevolezza dell’Assoluto.
Non si può dire che la storia di Mircea e Maitreyj sia la copia del mio caso. Ma io non voglio cadere nella stessa trappola dell’erronea interpretazione in cui finì il letterato rumeno. Dal punto di vista del canovaccio esteriore degli eventi ecco cosa successe: per circa un mese, da metà giugno a metà luglio del 1987, fui ospite a casa di zia Liza e della sua famiglia. Dormivo in una stanza a parte, nella casetta per gli ospiti. Da solo. Di giorno aiutavo nelle faccende domestiche: lavoravo in giardino, nell’orto, mi prendevo cura del bestiame di casa. A volte frequentavo i giovani ceceni del posto, ragazzi che mi sembravano normali, non diversi dai nostri cosacchi. Un paio di volte capitò che mi azzuffai, senza cattiveria, cose da ragazzetti, per un regolamento di conti. Poi feci amicizia con quelli che poco prima erano stati gli sparring-partner, insieme andavamo a fare il bagno al torrente. Tutto come d’abitudine, come fanno i ragazzini che stanno cominciando a diventare grandi. A volte stavo seduto in cortile e leggevo. A volte facevo una camminata. L’esile Tanja mi stuzzicava, per scherzo poteva tirarmi le prugne oppure, dopo essersi avvicinata quatta quatta, rovesciarmi giù per il collo una brocca d’acqua fredda.
Nastja, la più grande, era lontana dalle birichinate infantili. Nastja leggeva con me, mi si sedeva vicino e apriva il suo libro. Parlavamo spesso, di libri e di ogni cosa. Capitava che passeggiassimo insieme. E insieme ogni giorno finivamo qualche lavoretto in cortile, andavamo a tagliare con la falce l’erba o a raccogliere le mele cadute nel giardino del sovchoz per gli animali di casa.
Mele cadute. Suona quasi come anime cadute.
Con questo terminano gli avvenimenti e iniziano le interpretazioni. Di tanto in tanto ci ritrovavamo soli. In due, troppo vicini. Sfiorandoci con i corpi seminudi. Mescolando il nostro sudore. Una volta di notte facemmo insieme la doccia in giardino, aiutandoci a vicenda con le mani insaponate. Era notte, eravamo allegri e spaventati.
La presenza degli adulti e degli estranei, anche se non facevamo niente di strano, ci disturbava sempre, se questo può voler dire qualcosa. Se ci sia stato qualcos’altro, non so.
Quello che successe tra noi, perfino se non fosse niente di serio, ricorda il romanticismo nobiliare russo del passato. Il flirt sottile, e talvolta nemmeno così tanto, fra cugini era molto diffuso. In virtù della relativa severità dei costumi e della mentalità chiusa delle famiglie nobili, erano pochi i ragazzi e le ragazze che potevano trascorrere il loro tempo e frequentare da vicino i coetanei di sesso opposto senza il biasimo degli educatori. A meno che non si trattasse di cugini e cugine che venivano considerati come familiari. Le prime acerbe passioni i giovani nobili le provavano sempre per cugini e cugine. E gli adulti si rapportavano con pazienza alle infatuazioni incestuose dei figli. Si ricordavano di quando avevano la loro età. E riconoscevano in questi legami un insegnamento innocuo e inoffensivo della scienza dell’amore e delle relazioni romantiche rivolto ai giovani.
Una situazione simile quanto a severità di costumi si osservava in Cecenia, però dubito che mia zia e suo marito fossero pronti a dar prova di pazienza nobiliare. Una relazione tra cugino e cugina sia qui, in zone montuose, che da noi, sul Terek, era considerata un tabù assoluto. Se qualcuno avesse potuto dubitare della purezza del mio rapporto con Nastja, sarebbe stato meglio per noi non imbatterci in quella persona. E non ci imbattemmo in una situazione simile. Così pare. A meno che non sia successo qualcosa di così vergognoso che la mia memoria ne blocchi il ricordo, e le nostre famiglie avessero deciso di interrompere le indagini, archiviare il caso e non affrontare mai l’ignominiosa faccenda. A casa nostra di rado ricordavamo Nastja, per motivi che si chiariranno in seguito.
Certe volte io e Nastja parlavamo di quando saremmo scappati via, insieme, da qualche parte, lontano lontano, là dove nessuno avrebbe potuto sapere che eravamo cugini. Sarebbe stato semplice nasconderlo, avevamo cognomi diversi! Non svelavamo perché avremmo dovuto nascondere la nostra parentela. Non parlavamo di come avremmo vissuto insieme, o del fatto che ci saremmo sposati. Sembrava sottinteso. Ma discutevamo apertamente della nostra fuga come se non dovesse essere che un gioco. Era romantico ed enigmatico nascondere la verità su noi stessi, come se fossimo agenti segreti. Saremmo stati bene là dove non ci conosceva nessuno.
Mi piacerebbe capire come tutto ebbe inizio. Tuttavia non ricordo alcun evento in particolare né alcuna svolta. Tra me e Nastja subito si protese un filo, sembrava che un ragno fosse balzato dalla sua alla mia testa, spiegando una ragnatela collosa, sottile, invisibile. Comunque, in principio tra noi ci furono le mele.
Dopo aver preso il secchio, ci incamminammo per gli orti verso il meleto vicino alla sede del sovchoz. Le mele erano ovunque, ma noi chissà perché ci inoltrammo in un luogo selvaggio, dove non v’era anima viva. Ivan Bunin, viali oscuri, mele antonovka: eravamo figli della letteratura russa e ci sentivamo sempre un po’ eroi della sua melanconica narrativa. Nastja era davanti, io la seguivo. Parlavamo, parlavamo. Di Bunin e di ogni cosa al mondo. Sapete come succede. Poi ci stancammo e ci sedemmo. Stavamo zitti, ad ascoltare come qua e là cadevano con tonfi sordi le mele mature. Ricordammo Newton. Decidemmo di restare seduti e attendere finché una mela non fosse caduta sulla testa di uno dei due. Scommettemmo: chi per primo avesse ricevuto la mela, sarebbe stato Isacco. E si sarebbe chiamato Isacco tutto il giorno fino a sera, e avrebbe reagito solo a quel nome. Ridevamo. Finalmente cadde una mela, ma non sulla testa, bensì dritta tra le mani di Nastja. La mela era rossa e bella. Nastja la strofinò con il lembo dell’abito e la morse. E me la allungò. Io la presi e portai la mela alle labbra, dalla parte dove l’aveva morsa. Per quanto mi sforzassi del contrario, non potevo non pensare che avevano sfiorato la tenera polpa i bianchi denti di Nastja, le sue labbra rosa (oh, magari conoscere il loro gusto e il loro tatto!), e perfino la sua arcana lingua scarlatta. Staccati delicatamente i denti dalla mela, la restituii a Nastja. Mi parve che avesse letto i miei pensieri, e che anche lei pensasse la stessa cosa, nei miei confronti. Portò la mela alla bocca e lentamente fece passare la lingua lungo i segni lasciati dalla mia bocca, come ad analizzare il mio sapore e ogni informazione che mi riguardasse. Poi ci prendemmo per mano e ci stendemmo. Guardavamo il cielo che faceva capolino con lembi celesti attraverso le chiome degli alberi, vedevamo i frutti riempirsi di succo, le foglie verdi nutrirsi dei raggi del sole, l’acqua piovana conservata dalla terra previdente scorrere dalle radici ai rami. In quegli istanti comprendevamo il mondo intero, la lingua degli uccelli, il fruscio del serpente nelle tane, e il tragitto del verme, e il rombo rilassato di un trattore lontano. In sostanza, la stessa musica. E il bene e il male.

I filosofi e i teologi ritengono che il peccato sia un abuso del libero arbitrio. Che il libero arbitrio debba esserci, altrimenti non ci sarebbe né peccato, né responsabilità. Questa tesi si trova in contraddizione indissolubile con le affermazioni sull’onnipotenza e onniscienza di Dio. Ma gli studiosi sono d’accordo nel sacrificare l’assolutezza dell’Assoluto, per conservare l’idea di libertà.
In realtà non esiste libertà alcuna. E l’arcana verità è che non c’è libero arbitrio, ma il peccato sì.
Nessuno è libero, nessuno sceglie il bene o il male, le tenebre o la luce. Al contrario, le tenebre e la luce scelgono loro le anime. E quell’anima che le tenebre scelgono per sé, nelle tenebre permarrà. Mentre quella scelta dalla luce, alla luce si volgerà. Solo l’eletto da Dio, potrà conoscere Dio. Di questo è scritto nei segreti delle Upaniṣad.
E di questo ne è a conoscenza anche Stephen King, il re dell’horror. La terrificante forza delle sue storie risiede nell’aver mostrato l’altra faccia del protestantesimo. I W.A.S.P. capivano che l’eletto da Dio sarebbe stato felice e ricco, e che nell’aldilà sarebbe finito in paradiso. E non c’entrano la devozione, l’ascesi o le preghiere. Così ha deciso il Signore, e il Signore non sbaglia. Questo li rendeva più tranquilli. Il libro ha rivelato che è vero anche il teorema contrario: chi è stato scelto dal diavolo non può salvarsi. E non c’entrano i peccati o i crimini. Semplicemente succede così, che uno lo sceglierà Dio e l’altro l’adocchierà il diavolo.
Qualcuno dirà: ma allora da dove saltano fuori i peccati? Come posso difendermi ed essere condannato per questo? Se mi ha scelto il male, se è stato lui a scegliermi, dov’è la mia colpa, perché sono colpevole?
E noi domanderemo: e chi altrimenti?
Chi è colpevole del fatto che il male abbia scelto proprio te? Chi altro può essere colpevole se non te medesimo? Il male? Il male non può essere più o meno colpevole, esso è già così, male. Solo tu sei colpevole di tutto.
Consapevole di questo, puoi cambiare qualcosa?
No.
Nel poema induista Rāmāyaṇa si racconta di come il principe Rāma vivesse in una foresta col fratello Lakṣmaṇa e con la moglie Sītā. Il demone Rāvaņa rapì Sītā e la condusse sull’isola di Laņkā. Rāma radunò un esercito di scimmie magiche, attraversò l’oceano, sbaragliò le truppe di Rāvaņa, uccise il demone e liberò Sītā.
Rāvaņa era una persona istruita. Conosceva il sanscrito e leggeva il Rāmāyaṇa in originale, molto tempo prima che gli eventi lì descritti si manifestassero. Sapeva come sarebbe andata a finire. Una volta si recò da lui il fratello minore e gli disse: o, signore, Rāma è Dio, è Viṣṇu in persona. Opporglisi è insensato. Restituiamogli Sītā e chiediamogli perdono. Viṣṇu è benevolo. Se non lo facciamo, periremo. Perirà tutto il nostro esercito. Le nostre spose saranno vedove e i figli orfani. Non conviene ostacolare Rāma. Non abbiamo la minima possibilità.
Rāvaņa rispose: lo so. Periremo tutti. Nessuno può confrontarsi quanto a forza e valore con Rāma. Ma io sono il demone. E non un demone qualsiasi, bensì Rāvaņa, il più grande fra i demoni! Tale è la mia natura. Io devo lanciare una sfida al potere di Dio. Combatterò convinto della mia vittoria, e perirò. Così è scritto qui, nel copione. Tale è il Rāmāyaṇa. E nessuno, né tu, né io, e nemmeno Rāma potrà cambiare neppure una riga.

Suppongo che tra di noi non sia successo niente. Ci fu la tentazione, forse da parte di Nastja, forse del Serpente, ma io non cedetti. Fantasticavo sull’intimità, nel senso pieno e proibito del termine. Ma non la ritenevo una cosa per me raggiungibile. Sebbene mi straziasse la sua relativa vicinanza, la sua disponibilità, forse immaginata e chissà se autentica, la sua cordialità, il suo desiderio. Pensavo che dovessimo scappare via e sposarci. Tutto doveva essere santificato e consacrato, così pensavo.
Il fatto è che avevo progettato una carriera inaudita: diventare santo, un anacoreta, un capo religioso, un riformatore e un salvatore d’anime. Quale confessione mi convenisse gratificare con la mia partecipazione era ancora fonte di dubbio. Sceglievo, porco cane. Non erano progetti astrusi. Alcuni anni dopo si realizzarono. Mi rasai a zero e mi ritirai in un monastero. Mi attendeva un crudele disincanto. Avevo abbandonato il peccato, ma era il peccato a non abbandonare me. Per di più fu solo allora che capii cosa fosse.
Qui, nel mondo, non conosciamo il peccato. Il peccato è la nostra unica sfera d’abitazione, come gli escrementi per il verme. Il verme non sa cosa siano perché non conosce nient’altro. Per riconoscerlo, vedere il peccato, occorre anche per poco tirare fuori il capo dal fetore putrefatto. E poi di nuovo sprofondare nella fossa ricoperta di impurità! Tale è il nostro destino. I capelli mi sono ricresciuti e mi sono sposato. L’ho fatto con mia moglie, nel matrimonio consacrato in tutti i modi possibili. Non è stato un peccato. Ma che porcheria, Dio Santo!
Sarebbe stato meglio se fosse accaduto allora, tra le mele.
Ricordo bene come ci congedammo. Ma è difficile da raccontare. Dio mio, non stavo affatto andando lontano! Una distanza ridicola: quattro cambi col treno elettrico. Due ore sull’autobus sbuffante, in tutto! Ci potevamo telefonare senza fare il prefisso. La posta. E progetti, ancora progetti per l’estate seguente quando noi due, insieme, ce ne saremmo andati via. Per prima cosa occorreva entrare all’università, nella stessa città, lontano-lontano dalle montagne e dal Terek. E poi, poi, poi…
Ci scrivevamo lettere per davvero. Lettere segrete. Le spedivamo non ai nostri indirizzi, bensì all’ufficio postale, in fermoposta. Le prendevamo di persona e le leggevamo in disparte, di nascosto dagli estranei. E dopo averle lette le distruggevamo immediatamente. Quello era il nostro accordo, quello il gioco.
Nelle lettere continuavamo a fare progetti.
Probabilmente il lettore avrà capito da un pezzo che tra noi niente si è avverato.
E non so nemmeno cosa ci sia stato tra noi.
Se Nastja fosse viva, glielo chiederei. Oggi, trent’anni dopo, sarebbe semplice e senza pericoli. Si potrebbe avvolgere la storia nello scherzo o abbigliarla di nostalgia. Saprei tutto, se Nastja fosse viva. Peccato sia morta.
E la guerra non c’entra. Successe molto tempo prima.

Zio Chamzat e zia Liza, non per niente, avevano rimandato l’ingresso di Nastja all’università. Pensavano che non ci fosse bisogno di alcuna università. La cosa migliore era l’ingresso nella vita coniugale. E una speculazione con prospettiva di crescita era la garanzia per le basi materiali della famiglia. Nell’inverno del 1988 Nastja compiva diciotto anni. In un lampo fu proposta e data in sposa.
Il matrimonio era stato combinato, i giovani non si conoscevano, in compenso però i genitori legarono bene sul terreno del business. In primavera furono festeggiate nozze chiassose. Lo sposo e la sposa erano rimasti in stanze diverse di case diverse, mentre i genitori e gli amici facevano baldoria: bevevano, ballavano e sparavano in aria col fucile.
Infrangendo le leggi della clandestinità, telefonai a Nastja e le dissi che sarei arrivato e l’avrei rapita.
Lei rispose: non farlo. Ti scrivo io.
Nastja per davvero mi inviò una lettera, l’ultima. Mi comunicava che i nostri piani non sarebbero stati revocati. Che io dovevo finire la scuola per poi accedere all’università, come avevamo deciso. E che poi sarebbe arrivata anche lei, Nastja. Per quanto riguardava il marito, beh, era un marito. Non c’era niente di serio: avevano fatto tutto i loro genitori, s’erano agghindati a festa, oltre a qualche stupido rituale d’una volta, ed ecco fatto: un marito. Stupidaggini. Io e te Maksim siamo più intimi di qualsiasi marito e moglie. Io sono tua sorella. Ma questo sarà il nostro segreto.
Al posto della luna di miele o comunque di un viaggio per festeggiare il matrimonio, marito e moglie furono mandati a Baku per una nuova partita di merce. A bordo di una Žiguli, al cui volante sedeva lo sposo novello della mia Nastja. Arrivarono a destinazione tranquillamente, fecero due passi per la città, caricarono la merce. Ma sulla via del ritorno chi guidava perse il controllo e la macchina finì in un precipizio. La Žiguli rimbalzò lungamente da un masso all’altro, ribaltandosi finché non si fermò sul fondo di una gola. Nell’incidente stradale morirono due persone.
Il corpo di Nastja fu trasportato al villaggio. Ma io non andai al funerale. Ce l’avrei fatta se la funzione fosse stata russa, cristiana. Ma là, al villaggio ceceno, le cose andavano diversamente, alla maniera musulmana, in modo veloce e incomprensibile. Non vidi Nastja, non andai da lei a salutarla. Ma non vuol dire nulla. Venne lei da me.
Quello stesso 1988 terminai le superiori e iniziai l’università, in una grande città, come avevamo sognato io e Nastja. Mio padre era fiero di me e non mi mandò alla casa dello studente, bensì mi diede i soldi perché potessi prendere in affitto una camera singola in un appartamento. Mi ambientai bene, apprezzando il valore della comodità e dell’isolamento utile ai miei studi.
Una volta, passata la mezzanotte mi svegliai con la sensazione che ci fosse qualcuno. Aprii gli occhi e vidi Nastja. Era seduta sulla sedia vicino al mio letto e mi guardava con occhi velati da una pellicola biancastra. Il suo corpo era mutilato e putrefatto, ma era lei. Avrebbe potuto dirmi: ciao, Maksim. Fratello mio. Sono io, tua sorella, Nastja. Sono venuta, come avevo promesso. Ti ricordi vero, che ti avevo scritto: i nostri progetti valgono ancora. Neppure la morte ci separerà! Ti ricordi? Avevo anche disegnato di lato un cranio, attraverso il quale sarebbe germogliata una rosa. Invece non mi disse niente. Taceva. E anch’io tacevo. Stavo disteso e tacevo. Mentre i miei capelli perdevano il pigmento castano chiaro, trasformandosi in biondo cenere.
Taceva e io non so perché fosse venuta. Se perché l’avevo sedotta e rovinata. O se, al contrario, perché non le avevo risposto, non mi ero comportato come desiderava. E non l’avevo salvata da una morte crudele. In fondo, se allora fosse accaduto qualcosa, lei non si sarebbe sposata: la verginità era una condizione necessaria, altrimenti la famiglia della sposa sarebbe stata disonorata. Stirpe selvaggia. L’avrebbero mandata in città, all’università, non ci sarebbe stata altra alternativa. Forse non sarebbe rimasta con me, ma si sarebbe innamorata d’un altro. E io lo stesso, avrei amato altre donne. E questa nostra storia, come tra nobili, cugino e cugina, la prima esperienza: capita. La cosa importante è che non sarebbe morta.
O forse no.
Fa lo stesso. Non si può tornare indietro.
Il mattino lei scomparve e io trascinai le mie cose all’ostello e mi sistemai in una camera con quattro persone. Non vidi più Nastja, ma non la dimenticavo. Non c’era ragazza che mi interessasse. A dire il vero ero terrorizzato, avevo paura che non sarebbe piaciuto a Nastja e che sarebbe tornata di nuovo. Non la vedevo ma avevo di continuo la sensazione che fosse da qualche parte vicino. A volte appariva un’ombra. Oppure trovavo sul pavimento della stanza dove ero appena entrato il brandello di un abito finito in polvere. O di un cranio bianco. Una volta vidi sul tavolo un vecchio osso rinsecchito, e svenni. Mi rianimarono e mi spiegarono che era un osso di pollo e per evitare che svenissi di nuovo lo avevano gettato via. Io non mangiavo carne.
Tre anni dopo mi feci monaco. Ci vollero altri tre anni per ottenere il perdono da una colpa che non conoscevo e non ricordavo. E un giorno capii che lei se n’era andata. Smisi d’avere paura. Però fui investito da tutto il mio peccato non consumato. Dapprima cercai di arginare la corrente con la diga di un matrimonio legale, poi tutte le barriere furono lavate via e mi lasciai andare lungo il corso del torbido fiume del vizio. Risultò che non ero affatto un santo, ma il peccatore più naturale e un demone. La natura.
Ne sono successe di tutti i colori. Poi è passato. In fin dei conti tutto scorre.
Nei miei luoghi è iniziata ed è finita dapprima una guerra, poi una seconda. Zia Liza e tutta la famiglia si sono trasferiti nella regione di Voronež, dove aveva ingranato il figlio più grande. Tutti i nostri pian piano se ne sono andati da Kizljar in posti diversi, e anche i miei genitori hanno scelto la grande Russia. Hanno smesso di scriversi. Tutti ora hanno il cellulare, che bisogno c’è di scriversi lettere? Ma comunque non telefona nessuno lo stesso.
Una volta venne da noi Tanja. Era in città per sbrigare delle faccende. Tanja era diventata molto simile a Nastja, le assomigliava così tanto che per me fu terribile. Mi lasciò il suo numero di telefono, ma io ovviamente non le ho mai telefonato.
Ho abbastanza anni adesso ed è giunto il momento di pensare di nuovo a Dio. Non per diventare un grande santo e salvare il mondo, ma almeno per capire come salvare me stesso. E se sia possibile o no. Che cosa mi resta in mano?
Cosa sarebbe successo se avessi peccato con Nastja? Tanto comunque ho peccato lo stesso; l’ipocrisia non mi è stata d’aiuto, ciò significa che avrei dovuto seguire dritto la natura e fare la mia parte. È così o no? Cosa ne sarebbe stato se Adamo non avesse ceduto alla seduzione? O se Yamî avesse potuto corrompere il proprio fratello? Cosa sarebbe stato se Rāvaņa si fosse rifiutato di combattere con Rāma? Sarebbe stato Rāma contento di Rāvaņa o no? O, alzando le spalle, avrebbe detto: beh, vivi pure, piccolo demone codardo. Hai rovinato un poema così bello!
Talvolta ho la sensazione che siamo venuti a questo mondo per interpretare un ruolo, senza aggiungere niente di nuovo. Tutte le improvvisazioni sono pensate in anticipo. Non bisogna cambiare niente. Occorre recitare. E se ti è capitato il ruolo del peccatore, il ruolo del demone, di Rāvaņa: interpretalo con convinzione e abnegazione. Affinché Rāma rimanga soddisfatto di te. Guadagnati gli applausi! Allora, forse, dopo averti ucciso, Rāma ti salverà. In fin dei conti, siamo venuti al mondo per questo, per recitare.