di Luca Ricci
Il lungo contiene il breve, il breve non contiene il lungo. Da questo assioma, per così dire, è abbastanza ovvio desumere che un racconto non possa contenere in sé dei romanzi, mentre un romanzo può e in qualche modo perfino deve contenere al suo interno dei racconti. Da un punto di vista narratologico i racconti non sono solo storie brevi, ma sono anche la parte più breve di un romanzo, si configurano cioè come l’unità di misura minima con cui si compongono narrazioni più lunghe. I promessi sposi, che per oltre un secolo è stato visto come il modello del grande romanzo italiano- romanzo tout court e non solo storico-, è sì la storia del matrimonio negato tra Renzo e Lucia, ma è anche la serie di storie che Manzoni somma alla principale, e che spesso, occupando lo spazio di un intero capitolo, ambiscono a una loro compiutezza e autosufficienza (le analessi biografiche di fra Cristoforo, la monaca di Monza, l’Innominato, oppure le vicende storico-sociali come la carestia o la peste). Questo non vale solo per il romanzo in prosa moderno, ma anche per il poema cavalleresco (Orlando furioso, con l’isola di Alcina, il palazzo di Atlante, Astolfo sulla luna) e per il poema classico (si pensi a ciascuna delle avventure di Ulisse ne L’odissea come altrettanti racconti). La narrazione lunga è un container di racconti, e la sua forma slabbrata- flessibile- è il luogo della sperimentazione, laddove il racconto, in quanto sezione aurea o unità minima non ulteriormente divisibile, è invece il luogo di una rivoluzione stabile, nel segno di un disegno compositivo universale che, abbiamo detto e visto, non solo è alla base di tutte le storie, ma compone tutte le storie. Nel corso dei secoli i romanzi sono cambiati molto più dei racconti. Se noi confrontiamo il racconto XLVI del Novellino (1280 circa) intitolato “Qui conta come Narcis [s’]innamorò de l’ombra sua” e il racconto intitolato “Cinquantanove” di Centuria (1979)- paradossalmente sottotitolato proprio «cento piccoli romanzi fiume»- vediamo che sono fatti di una manciata di righe, la storia è costruita attorno a una vicenda e non ai personaggi (che sono come funzioni per veicolare la storia, e non viceversa) e il tema è quello del doppio, dove nel Novellino si riprende direttamente il mito classico di Narciso, mentre in Centuria lo si rivisita in chiave prosaica e triviale (cioè, pop) narrando di un uomo che incontra se stesso a una fermata dell’autobus.
Gli autunnali - per molti e per la comunicazione pubblicitaria: il mio primo romanzo - si è formato attraverso un rapporto costante con la forma racconto. Prima di tutto è dichiaratamente debitore di un racconto di Guy de Maupassant intitolato La chioma (La chevelure, 1884), la storia ossessiva di un uomo che, in chiave feticistica, ama il ciuffo di capelli rinvenuto in un mobile antiquario di una donna sconosciuta (e probabilmente defunta). In secondo luogo Gli autunnali ha subito l’innesto di alcuni miei vecchi racconti, dichiarati nella nota finale al testo: Dedizione?, Il piede nel letto, Amici Immaginari, Una rampa di Scale, Giallaccio romano. É interessante però l’uso che ho fatto di ognuno di questi racconti, cioè qual è la loro interazione effettiva col testo lungo di cui sono andati a far parte. Dedizione? è stato usato in espansione (rappresenta cioè la colonna vertebrale de Gli autunnali); de Il piede nel letto in pratica ho usato solo l’idea (ci sono pochissime parti del vecchio testo confluite nel nuovo testo); Amici immaginari è stato usato tutto, creando uno sbalzo all’interno della narrazione per ottenere l’effetto classico di racconto nel racconto, qui con fini anche celebrativi della stessa forma breve (è il racconto horror di Halloween de Gli autunnali); sia Una rampa di scale che Giallaccio romano sono confluiti nelle sottotrame della storia principale, e sono stati mutilati e modificati in molte parti, compresi i finali, per rispondere alle nuove esigenze narrative. Come si vede l’intrico e il commercio del mio romanzo col racconto è molto più che sospetto, è un illecito conclamato, un esperimento spregiudicato degno del dottor Frankenstein!
Una cosa è un romanzo scritto da un romanziere, tutt’altra cosa è un romanzo scritto da uno scrittore di racconti. Altri due esempi sono Paolo Cognetti con le Otto montagne e Rossella Milone con Cattiva. Entrambi, come me, sono arrivati al romanzo puro dopo una frequentazione assidua con le forme brevi, e non hanno quella bramosia del romanziere tradizionale nel voler raccontare (ed esaurire), magari anche da un punto di vista storico-sociale, tutta la realtà. I romanzi scritti dai raccontisti rinunciano in partenza ad essere quel che un tempo veniva chiamato opera-mondo o romanzo-romanzo o romanzo-fiume o, con l’avvento e l’esaurimento del postmoderno, romanzo-hamburger. Hanno come obiettivo il racconto meticoloso di una sola porzione di realtà, attraverso cui, tra le righe (con una procedura molto cara alla short story, ovvero l’ellissi, la lacuna) guardare e affrontare tutto il resto (nel mio caso il pertugio principale è l’autunno, nel caso di Cognetti la montagna, nel caso di Milone la maternità). É uno scarto non da poco, che mira a impossessarsi anche di un’altra prerogativa molto cara ai raccontisti, e cioè la verticalità, la velocità. É una velocità completamente diversa, e anzi opposta, a quella dei romanzi prodotti in catena di montaggio dall’editoria odierna e globalizzata, che vogliono essere letti e dimenticati, consumati per usare una parola cara a ogni capitalismo, vedi il fortunato caso del giallificio nostrano (con annessi personaggi ricorrenti e serializzazione, romanzetti lampo che seguono sempre lo stesso schema: capitolo 1 presentazione mistero e/o ritrovamento del cadavere, capitolo 2 introduzione investigatore, capitolo 3 ambiente e/o inizio indagine, capitolo 4 vita privata investigatore, capitolo 5 complicazione indagine, capitolo 6 falsa pista, capitolo 7 complicazione vita privata investigatore capitolo 8 risoluzione indagine e/o risoluzione- parziale- vita privata investigatore). I nuovi romanzi nati sulla scorta del racconto- sulla consapevolezza e la frequentazione della forma breve- invece non rinunciano alla densità e alla complessità, ma non si basano più sul vecchio procedimento dell’accumulo di materiali e informazioni, bensì su una rigorosa e spietata selezione del materiale narrativo disponibile (e possibile). Si racconta di ciò che è essenziale raccontare. Com’è evidente, non stiamo parlando di una dimensione spuria e ambigua del testo che c’è sempre stata e che può essere intesa e letta di volta in volta come «racconto lungo» o «romanzo breve» (leggasi i miei precedenti lavori La persecuzione del rigorista e Mabel dice sì). No, qui stiamo parlando di romanzi che per paginazione e prerogative sono incontestabilmente romanzi, ma che funzionano in maniera diversa. I nuovi romanzi, come si diceva un tempo dei racconti di Raymond Carver, sono ridotti all’osso. Il che, si capisce, è un controsenso, ma è anche una delle cose in atto in questo momento nel campo multiforme, magmatico e in divenire (ma fino a quando?), della creazione letteraria.