Tutti i racconti, di Cesare Pavese

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È in libreria, Tutti i racconti, il libro che raccoglie tutti i racconti di Cesare Pavese, edito da Einaudi.
Curato da Mariarosa Masoero, per la collana ET Biblioteca, pubblichiamo un estratto dell’introduzione per gentile concessione dell’Editore.

di Marziano Guglielminetti

Non penso che la «pagina scritta» in preparazione si sottrarrà al destino previsto, del ridursi in cenere. E neppure credo che si tratti proprio e soltanto della pagina poetica, perché la cenere vuole legna e fuoco, materia ed ispirazione. Ed allora bisogna entrare negli anni in cui il meditare sulla scrittura dei racconti, antologizzati o meno che saranno, lascia traccia frequente nel Mestiere di vivere, a mo', se non di prologo, almeno di nota a margine, o di meditazione ulteriore. Al 22 dicembre del '37 appartiene la seguente constatazione: «Ciascuna tua novella è un complesso di figure mosse dalla stessa passione variamente atteggiata nei singoli nomi». Gli esempi addotti non consentono in alcun modo di pensare all'onomastica dei personaggi, ma piuttosto alle categorie che possono raggruppare piú personaggi, trattandosi, per di piú, di novelle «lunghe» (con Primo Amore, dove appaiono «tutti mossi dalla scoperta sessuale», sono citati Notte di festa, «ovvero il festeggiare il Santo» e Terra d'esilio, «tutti confinati»). Qui pure si colloca un'osservazione su un altro modulo importante nella costruzione del racconto, il dialogo, «la tua vera musa prosastica» si garantisce Pavese, «perché in esso puoi far dire le assurdo˘ ingenuo˘ mitiche uscite che interpretano furbescamente la realtà. Il che non potresti fare in poesia»2 . Il racconto esce dal confronto con la poesia, come già sappiamo, però gode ormai di una sua autonomia che ne coinvolge l'ancor gracile, ma ormai distinta forma. La nota del 31 dicembre del medesimo anno, che coinvolge il prediletto Primo Amore, e chiama alla ribalta «l'Idolo, l'Intruso, […] Suicidî», pone come urgente per lo scrittore il problema di uscire dal «far parlare in I persona il protagonista senza preoccuparti di caratterizzarlo persino nel suo modo d'espressione»: in altri termini, occorre «crearlo come personaggio, non lasciarlo un neutro te stesso»1 (il 25 dello stesso mese era parso aprirsi alla possibilità di dar corso a ricordi di sogni torinesi di straordinaria suggestione, stroncati dalla delusione amorosa, e per ciò stesso destinati al diario). Trascorre quasi un anno, ed il 21 settembre del '38 Pavese affronta altri due elementi del racconto di singolare importanza, il «condensamento» e la «distanza»: «Il condensamento di una novella non consiste nel ficcare le notizie una dentro l'altra come le scatole giapponesi, ma nel tono che presenta lo sgorgo dei fatti come qualcosa che avviene pensatamente, a una ragionevole distanza, ed è pieno dei sottintesi suggeriti appunto dalla distanza!» L'esempio contrastante di Due Amici diventa «un infelice compromesso con la drammaturgia che guarda avvenire fatti psicologici attraverso una tecnica “immediata” tutta speciale. Il proprio del raccontare è invece un ripensare avvenimenti piú e meno illuminati, non un lasciarli avvenire sotto una stessa inesistente luce diffusa»2 . A rincalzo, quasi, il 22 settembre, dando esempi concreti, e da evitarsi, «di una pennellata naturalistica (“Faceva un tempo fresco, con un po' di nebbia”)», collocata all'inizio del racconto, ma capace di «provocare pagine e pagine di naturalismo implacabile, documentarie e non piú narrate», Pavese di nuovo distingue la misura del racconto, riproponendo il confronto col teatro; alla «novella che avviene in un breve e temporalmente determinatissimo giro (Notte di festa)» concede le «precisazioni iniziali», di cui ha appena sottolineato i rischi, quando «hanno un taglio e una evidenza scenica e potrebbero venire recitate». Quel che gli sta a cuore, «il vero racconto», ovvero l'immancabile Primo Amore e il non ancora citato e non antologizzato Campo di Grano, «tratta il tempo come materia non come limite e lo domina scorciandolo o rallentandolo e non tollera didascalie che sono il tempo e la visione della vita reale»3 . È poi la volta, sempre nel '38, di due prese di posizione nei riguardi di altri modelli di scrittura narrativa, che possono o meno interferire con la pratica di quella in corso di proposizione: l'una riguarda niente meno che Proust e Lee Masters, messi a confronto nell'ambito ancora della poesia; è sicuramente menzione eccessiva in questa sede, se non fosse che Pavese vi sottolinea la sua estraneità all'«abbandonarsi al determinismo dell'analisi», un altro modo di tirarsi fuori da quello che anche Svevo considerava il rischio naturalistico corso dall'autore della «recherche du temps perdu» (4 novembre). E proprio in questa sede, per altro verso, lasciandosi attrarre nel libro poetico di Lee Masters dal «violento e sicuro gesto che schiaccia e conclude d'imperio tutta una vita», Pavese ritorna su una parolachiave già affiorata, ed ora emersa in questa maniera, dopo la citazione proustiana: «Ma vuoi scegliere un rapido gesto che sia mito, cioè volontario avvenimento imposto sulle deviazioni»1 . A questo punto, il «mito» dovrebbe avviarsi a surrogare l'«immagine», ma, se si sta alla nota del 6 novembre ad un altro dei racconti antologizzati, L'eremita, si apprende che le immagini «sono nel tuo racconto quelle che in un mito sono gli statici attributi di un dio o di un eroe»2 . Non è il caso di pensare che l'accezione classica coinvolga piuttosto i Dialoghi con Leucò, ancora lontani. Il 5 novembre, del resto, Pavese s'è detto appartenente a scelte che risultano attuali, e che prescindono da ricuperi dell'antico: «negli stili passati t'interessa tanto il gioco dell'immagine, il passaggio da essa alla realtà, la loro compenetrazione. Presentisci in quei momenti lo stile novecentesco che è un perenne farsi di vita interiore e là traspare nei momenti in cui soggetto del racconto è il legame di realtà e immagine, cioè il farsi di una realtà˘ interiore espressiva»3 . A chi alluda ora Pavese, non è facile arguire. Annotazioni anteriori non consentono di fare il nome del Leopardi ricuperato dai rondisti a guerra finita e ad avanguardia arrestata; piuttosto, si avanzano i nomi di chi si sarebbe mosso oltre i veristi: Verga medesimo, innanzi tutto, e poi D'Annunzio, Proust e Joyce, condensati in formulette talora scontate («carnalità», «sognería psicologica», «preziosa volgarità»). Poi sarebbe stata la volta dei «ritrovatori dello schema vivente e ritmico che par suscitare i suoi pensieri esprimendoli»1 , ma al di là dell'estensore di questo giudizio, stando al Mestiere di vivere almeno, è lecito non andare, neppure quando appare un'occasione degna di qualche riguardo. Accade in margine a Landolfi, quello della Pietra lunare e della donna-capra, e per il quale di nuovo funziona Lévy-Bruhl, il 19 novembre del '39. Ecco di che si tratta: «Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il mot. del nesso tra l'uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria: il tempo in cui s'intravede una promiscuità dell'uomo con la natura-belva». Palese è qui il ritorno ad una lirica ben nota di Lavorare stanca, la dannunziana Il dio-caprone, una delle censurate, ed alla prosa esplicativa Il mestiere di poeta, dove, ricorda adesso Pavese, si conserva «la prima intuizione dell'immagine motivo del racconto, escogitata per salvarti dal naturalismo»2 . Stando cosí le cose, sembra doversi convenire, provvisoriamente, che il raccontare ed il poetare convergono in questo prendere le distanze dal naturalismo. Al quale, in conclusione, è bene opporre che «fare una novella ha due tempi», metaforicamente cosí distinguibili: «C'è un'acqua che s'intorbida, ci sono dei gesti violenti, dei sussulti, della schiuma; poi c'è una calma, una passività, l'acqua che trema si fa immobile, dirada, si schiarisce, e tutto traspare impreveduto. Il fondo e il cielo eccoli immobili. La novella è avvenuta pacatamente, in questo decantarsi d'ogni moto e impurità» (30 novembre 1938).

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Torino Prima edizione «Biblioteca della Pléiade»

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