Il mondo in soggettiva

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di Modestina Cedola

In rete grazie alla digitalizzazione degli archivi di alcune biblioteche è possibile sfogliare vecchie riviste letterarie. Il numero è ampio e gli argomenti di cui trattano anche. Nelle prime pagine dei numeri iniziali ogni rivista riporta una sorta di dichiarazione di intenti sul proprio ruolo. Pur conservando le loro specificità quasi tutte sono accomunate dalla volontà di raccontare la realtà. Attraverso editoriali, approfondimenti, racconti e conversazioni tentare di raccontare il mondo da cui sono emerse (la rivista letteraria come isola era un concetto caro a Alba De Cespedes fondatrice di Mercurio). Il racconto della realtà è mestiere assai complesso e pretende idee chiare e voce decisa. Narrare il presente significa anche scegliere. Spostare lo sguardo dove nessuno lo posa, portare a galla situazioni scomode, dare voce a chi non ne ha, rompere tabù e liberare dalle maglie strette.

Qual è la realtà che ci viene raccontata oggi attraverso le riviste letterarie? In quale mondo ci inoltriamo leggendo i loro racconti?

Sbirciare l’idea di mondo che ha ogni rivista è cosa da fare principalmente su internet dove le riviste (anche le cartacee) presenziano. Siti, blog e social sono diventate una vera e propria appendice da usare per lanciare idee e linguaggi. A differenza dell’editoria le riviste letterarie hanno da subito trovato nelle nuove tecnologie un alleato dimostrando la rara capacità di reinventarsi e adattarsi totalmente. Non solo racconti ma anche grafica e illustrazioni, post, meme e dirette come strumenti preziosi per veicolare storie e coinvolgere direttamente i lettori.

La forma breve è la più utilizzata. Ci si muove indicativamente tra le seimila e le venticinquemila battute. È un numero di battute più ridotte di quelle che canonicamente si associano alla forma breve, forse è dovuto alla diffusa riduzione di attenzione per la lettura. Racconti brevissimi richiesti espressamente come nel caso di Pastrengo o Narrandom. Qualche tentativo di flash fiction c’è stato negli anni ma senza continuità (In una scatolina impolverata giaceva Pizzaballa[1]). Anche le forme lunghe sono più rare e nella maggioranza dei casi si sceglie di pubblicarle a puntate.

Il mondo raccontato dalle riviste è un mondo visto in soggettiva. Predomina l’uso della prima persona. Come a dire: lettore, la mia vita è la tua vita. “Sono seduta scomoda di fronte a lei, al tavolo del salotto, col busto inclinato di lato, una gamba che piomba dritta al pavimento senza arrivarci mai, l’altra sotto al sedere. La maestra Franca mi brontola se lo faccio a scuola, una volta l’ha scritto sul mio diario e la parola ‘scomposta’ mi ha fatto sentire un numero che invece di crescere diventa piccolissimo”[2]

L’editing è un campo minato per le riviste. Due macro schieramenti contrapposti e nel mezzo una folla che non si pronuncia espressamente. Riviste letterarie che non fanno editing o un editing leggerissimo e scelgono racconti che per loro sono già pronti per la pubblicazione (‘tina, Malgrado le mosche e per una serie di ragioni da qualche tempo anche La Nuova Verdə) e riviste che hanno più persone che se ne occupano e più livelli di editing. Leggenda vuole che Narrandom abbia l’accortezza di inviare un editing dei racconti scartati agli autori e alle autrici che ne hanno piacere.

La relazione con se stessi e con gli altri è il centro di molti dei racconti pubblicati dalle riviste letterarie. Un rapporto conflittuale tra le proprie aspirazioni e la vita che ci si trova a condurre. Sogni infranti, ricordi di infanzie scombussolate. Un corpo sfatto che si muove a passi lenti. Non cadere come massima ambizione. “Quella sera avverti una fitta di solitudine e incertezza. Il pensiero d’aver sbagliato ti raggiunge. La tua vita deve ancora cominciare, eppure è già pronta a sbandare al primo bivio. Ti domandi se altri, nel palazzo, condividano un’ansia simile, sempre in agguato. Pensi che, in fondo, non lo scoprirai mai, perché non conoscerai nessuno, potresti crepare e saresti licenziata prima del ritrovamento del corpo”[3]

Le relazioni familiari quasi sempre sghembe poche volte davvero in armonia. Una famiglia disfunzionale si direbbe oggi. Padri assenti, madre assillanti, fratelli stronzi e sorelle lontane. Adulti diventati involucri di bambini infelici e spaventati. “Mia madre mi diede una spinta. Quella fu la prima e ultima volta che mi toccò[4]

L’amore non è mai romantico, poche volte erotico, quasi sempre sordo alle esigenze dell’altro. L’innamoramento, invece, è puro. La fine della relazione disastrosa ma tra le più raccontate in varie declinazioni. La coppia come incontro di solitudini che si accompagnano tra le brutture quotidiane. Un sentimento raccontato con molta tenerezza e poca passione. “Ti ho chiesto di sposarmi, dici, e invece niente, era per comprare un vibratore. Vorrei dire non mi hai chiesto di sposarti, mi hai detto un giorno che ci avevi pensato, ma non me lo stavi chiedendo, sapevi che mi sarebbe venuto il panico. Eravamo naufragati già sei o sette volte, vorrei dire, non mi pareva che ci fossero i presupposti per rilanciare. Vorrei dire che non avrei preso il tuo cognome in ogni caso, sono finiti gli anni Cinquanta[5]

Chi ne esce meglio è l’amicizia che pare porsi esattamente al centro tra amore e famiglia. Rapporti liberi e paritari dove ognuno può essere quel che è, dove ci si accoglie e si perdona quando si ferisce o si è feriti. “Per fortuna, il dolore tra noi non ce lo dobbiamo spiegare. E dentro questa cosa, io e Andrea, ci possiamo sentire finalmente vincibili. Nella pancia, i nostri due buchi prendono aria, si tengono in vita. Lascia fare Lara. Lascia fare Andrea.”[6]

Cade il tabù dei disturbi mentali. L’ansia, la depressione, il disturbo ossessivo compulsivo, l’anoressia, il comportamento suicidario, l’autolesionismo e i vari disturbi di personalità vengono raccontati dal punto di vista interno. “se chiudo gli occhi, il mio cervello guasto mi presenta soltanto randomiche istantanee raffiguranti mutilazioni, violenze efferate inenarrabili e volti non umani, mostruosi, deformi maschere mortuarie, figure lugubri provenienti dal mio essere perennemente in affanno durante il giorno, sotto stress, paranoico, tormentato, perennemente sull’orlo dell’attacco di panico, che arriva facendosi strada dal braccio destro per espandersi nel petto e immobilizzare il corpo dal terrore”[7]

I disturbi di ansia e la solitudine trovano nel lavoro un alleato perfetto per continuare ad alimentarsi. Il lavoro è meschino, ripetitivo, logorante, giudice e carceriere di recluse esistenze. Non c’è gratificazione né ambizione, nessuna solidarietà tra colleghi né umanità da parte dei superiori. Tanti piccoli pezzi di un ingranaggio dove ognuno può essere facilmente sostituito da chiunque. Ambienti ostili in cui passare la maggior parte del tempo. A fine mese pochi soldi e tanta frustrazione da riversare su chi sta intorno. La rabbia prende poco spazio tutto occupato dalla rassegnazione. Subire, eternamente subire per poi scoppiare all’improvviso e diventare mille scintille. “Di nuovo al suo posto di lavoro, seduto, in una pausa analgesica. Quel lavoro umiliante, che un cugino di Agata gli ha offerto per solidarietà cristiana, come l’ha definita lui stesso. Prepara le buste di coriandoli per il carnevale, in un ingrosso di giocattoli, guadagnando quattro centesimi al pezzo. Prende un pugno di quei dischetti colorati da un gigantesco sacco di diversi chili, li inserisce in un sacchetto trasparente, lo pesa con accuratezza (tra i novanta e i centodieci grammi), lo sigilla sprigionando una puzza di plastica bruciata che gli invade le narici e avanti così per sette ore al giorno, cinque giorni a settimana; per soli due mesi di stipendio. Quando chiude gli occhi vede ammassi vorticosi di coriandoli”[8]



Una rivista è anche il luogo in cui allargare la prospettiva. Allargare lo sguardo da noi a chi ci cammina accanto. La stramberia diventa il punto di osservazione privilegiato. La devianza raccontata per interrogare un nuovo pezzo di mondo. Il giudizio crolla inesorabilmente per lasciare il posto alle storie.

Rispetto alle proprie antenate, le riviste letterarie attuali hanno messo completamente da parte lo scopo politico, sono poche e isolate le riviste che parlano espressamente del loro impegno in tal senso. Riescono comunque a farsi portatrici di un disagio generazionale che invade ogni spazio vitale. È il singolo a prendersi tutto lo spazio. Un individuo mai pago e perennemente sulle spine. Un diffuso senso di malessere e precarietà che aleggia sui nostri tempi e che accomuna tutti. Voci aperte e libere in cerca di un proprio posto nel mondo. L’equilibrio vacilla, tutto può cambiare da un momento all’altro. Non c’è sogno. Non c’è speranza, solo l’illusione di poterne uscire seminando leggerezza. Una bizzarra nostalgia che non guarda indietro né avanti ma che resta bloccata qui nel presente.

La realtà raccontata dalle riviste appare complessa e sfaccettata composta da micro mondi che potrebbero anche non entrare mai in collisione tra loro. Muoversi nello stesso spazio, nello stesso tempo, senza mai sfiorarsi. Il ritratto fedele di una società in cui la parola futuro è scomparsa dal vocabolario.

 



[1] Figurina di Mario Greco su Tuffi, link: https://tuffirivista.com/2018/01/09/figurina/
[2] Muffa di Barbara Guazzini su micorrize, link: https://www.micorrizelitlab.it/2020/10/27/muffa/
[3] Le cose che capitano di Matteo Pascoletti su L’Inquieto; link: https://www.linquieto.it/le-cose-capitano/
[4] Benzina di Federica Rigliani su Risme La rivista che non devi spolverare, link: https://506c881a-a5fc-4b79-925b-e60b08bf27fe.filesusr.com/ugd/e1f9c4_0b424a005a4e479c94f16af1b6d7da06.pdf
[5] Kaboom di Stella Poli su Narrandom, link: https://narrandom.it/2020/06/17/kaboom/
[6] Se mi lasci fare, vale di Sara Mariotti su inutile, link: https://rivista.inutile.eu/2017/09/mi-lasci-vale/
[7] Il nuovo vicino di casa di Paolo Gamerro su La Nuova Verdə, link: https://verderivista.wordpress.com/2018/02/05/il-nuovo-vicino-di-casa/
[8] Scarpe Strette di Marco Corvaia su Altri Animali, link: http://www.altrianimali.it/2020/12/01/scarpe-strette-2/

L'Io inenarrabile, di Matteo Moca



di Matteo Moca

Nel Novecento, con fuochi prematuri che già segnano le opere di alcuni autori che vivono a cavallo tra i due secoli, il racconto di sé diventa, pian piano ma inesorabilmente, impossibile. Situazione paradossale, tragico specchio di un'umanità che non può più dire con certezza chi è.  Lo scrittore si scontra con un'impossibilità, quella di una scrittura in grado di rendere sulla pagina la sua storia in maniera completa o, quantomeno, soddisfacente. Il critico Peter Szondi è stato molto preciso al riguardo, mettendo in luce proprio l'incompletezza che segna questo tentativo di raccontare scrivendo che non è tragico “l'annientamento in sé”, quanto piuttosto “il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento: la tragicità non si compie nel declino dell'eroe, ma nel fatto che l'uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi”. Nel quadro così delineato, la salvezza auspicata da un racconto riuscito di sé, quella che Tommaso Landolfi chiamava “salvazione”, è la stessa strada dove lo scrittore, l'eroe a cui fa riferimento Peter Szondi, soccomberà per sempre. Se questo è visibile in larga scala nei romanzi che segnano l'epoca, una simile insufficienza è evidente anche nel racconto breve che si pone come significativo epifenomeno dell'intero processo di scoperta dell'incompletezza dell'io e che testimonia, come una spia lampante, come il tentativo di scrivere sé stessi necessiti di paradigmi nuovi. Emerge allora nelle narrazioni la necessità di appoggiarsi a qualcosa di diametralmente opposto alla razionalità geometrica del racconto di sé che abitava le opere dei secoli precedenti, la necessità quindi di uno spazio mediano, qualcosa in cui proiettare ciò che, direttamente, non si riesce più a vedere. Anche in questo senso quindi va inteso il ricorso all'immaginazione, al demone del distanziamento dalla realtà che abita i tentativi di scrivere sé stessi, un rimando a qualcosa che va oltre le spire del reale e che può assumere, di volta in volta, i caratteri di una narrazione quasi fantastica, di una narrazione che si situa al confine oppure che dal reale muove per cogliere proprio questa impossibilità. Un peso ovviamente decisivo all'interno di questo panorama frastagliato è imputabile alla rivoluzione portata dalle scoperte della psicoanalisi che smontano pian piano ogni certezza umana, anche quelle più intime che riguardano il conoscere sé stessi. Scrive Lacan al riguardo: “La scoperta freudiana ha esattamente lo stesso significato di decentramento che comporta la scoperta di Copernico. Essa può esprimersi abbastanza bene con la folgorante formula di Rimbaud – i poeti, che non sanno ciò che dicono, è ben noto tuttavia dicono sempre le cose prima degli altri – Je est un autre”. La folgorante formula di Rimbaud ripresa da Lacan è emblema della difficoltà ineludibile di raccontare il proprio Io, mosso da forze che lo stesso soggetto non riesce a conoscere. Lacan, all'interno del suo percorso di ritorno a Freud, si sofferma assai spesso su questo argomento, sottolineando ancora la portata di una simile rivoluzione: “Io so quel che dico è ciò che non posso dire. E questo precisamente da quando c'è Freud, e l'inconscio da lui introdotto. L'inconscio non vuole dire niente se non vuol dire questo: che qualunque cosa io dica e in qualunque posto mi sostenga, anche se mi sostengo bene, non so quel che dico”. Ciò che diventa complesso per lo scrittore è allora trovare una parola scritta capace di ricalcare la vita vissuta.


Se si pensa al primo gruppo a cui si faceva riferimento, e quindi a una tangenza con la narrazione fantastica, può venire in mente il racconto di Tommaso Landolfi Cancroregina dove la narrazione diaristica, che farà poi mostra particolare di sé in Rien va, Des mois e LA BIERE DU PECHEUR, si contamina con la narrazione più apertamente fantastica creando una commistione formale da cui è difficile uscire. In questo racconto infatti, dopo la narrazione precisa e dettagliata dell'avventura che ha portato il protagonista a quel punto del viaggio nello spazio a bordo di un'astronave, il narratore fa seguire un diario che ha il compito di trasmettere al lettore il deteriorarsi della sua mente. Il narratore si trova solo nel ventre di Cancroregina, fantastica astronave, dopo aver ucciso l'inventore, e durante il viaggio verso la Luna tiene un diario. Si tratta per certi versi di un racconto fantascientifico strictu sensu, con lo scrittore che rispetta gli stilemi del genere per poi però improvvisamente caricarli di un significato ambiguo che porta il lettore a chiedersi chi sia a dire “io”, a maggior ragione quando si trovano nel testo del diario tenuto dal protagonista elementi che torneranno a fare bella mostra di sé nei diari dello scrittore Landolfi, dando probabilmente testimonianza di un ulteriore tentativo di diffrazione autobiografica, qui operata all'interno del racconto breve, quasi come prova generale di quell'insufficienza che i diari testimonieranno in maniera ancora più lampante.
Il ricorso ad elementi che rimandano al genere fantastico è presente anche in Anna Maria Ortese, scrittrice che ha infarcito la sua opera e i suoi personaggi di rimandi autobiografici, scegliendo un filtro immaginifico per poter sopportare di trascrivere il dolore e il male che vedeva nel mondo. Esemplare è da questo punto il breve racconto Folletto a Genova, dalla raccolta In sonno e in veglia dove figurano almeno altri due racconti in cui l'emergenza autobiografica trova risvolti magici, ovvero Sulla terrazza sterminata e La casa nel bosco, un racconto dove lo spostamento autobiografico operato da Ortese assume contorni ben definiti con la sua connessione con elementi onirico-fiabeschi. Il personaggio che dà il titolo al racconto è una creatura a metà tra bambino e folletto, un essere che condensa su sé la sofferenza che Ortese vede nel mondo e di cui sentiva personalmente le pene (basta leggere, oltre ai suoi romanzi, gli scritti raccolti per esempio in Le piccole persone), una sofferenza che risponde ai meccanismi inceppati della società. La vicenda si svolge in un clima complesso che mescola l'allucinazione con una descrizione precisa dei luoghi: la protagonista descrive il suo arrivo a Genova per una pratica all’ufficio del demanio, con tanto di orario di arrivo e di uscita dall’ufficio, con una precisione che è spesso elemento ricorrente nei racconti che appartengono al genere fantastico. La protagonista però non nasconde un sentimento di “smarrimento” che la porta a muoversi per la città in maniera confusa, a dimenticarsi di andare alla stazione per tornare a casa e a non distinguere nettamente ciò che si presenta alla sua vista: lo stesso accadrà anche con il folletto che apparirà immediatamente dopo, elemento che appartiene per eccellenza a uno stadio incerto tra sogno e realtà e il cui statuto, come succede nel racconto, è impossibile identificare con precisione e senza errore. Questo smarrimento nasce nella protagonista anche a seguito del clima politico che vive (“la gravità dei fatti politici è talora insostenibile. E dire politici è usare un eufemismo. Si tratta di una guerra, o stato di malessere, dell’incedere di una instancabile e martellante violenza che striscia come un fuoco su tutta la terra”), segnato dalle macchinazioni di paesi più potenti nei confronti di un paese più povero, una situazione che la invita a interrogarsi sul proprio privato e su come il pubblico incida nel privato, in un meccanismo che quindi porta un evento del mondo fenomenico, insostenibile per la sua violenza e per le conseguenze che provoca nelle esistenze individuali dei più fragili, a scatenare una scrittura che attraverso il filtro fantastico denuncia e critica una tale condizione: “La vita sulla Terra mi sembrava, a questo punto, non dirò insopportabile (tale stadio era superato), ma proprio priva del minimo interesse, come una pietra che rotoli dall’eternità verso un’altra eternità di pietra”. È chiaro quindi quale sia l’innesco di questa situazione, la violenza imperante nel mondo, un elemento che affonda con forza le sue radici nel reale, nell’universo politico contemporaneo”.

Nel racconto poi queste relazioni sproporzionati tra stati si replicano nei rapporti che legano i vari personaggi: la narratrice raggiunge la casa della sarta Ruperta Ramo che vive una vita abbrutita con il marito Eulalio, un “matrimonio sbagliato” dove i due sono legati “oltre l’odio di lei e la mitezza di lui, dalla solitudine”, e assiste a un litigio tra i due che ha come oggetto la permanenza nella casa del folletto, di nome Stellino, “una creatura assurda, vestita di una mantelletta fatta di vecchi giornali” che prova ad avvicinarsi a Ruperta per essere ferocemente rifiutato: “fece per arrampicarsi penosamente verso l’oggetto dei suoi pensieri; ma la donna, toltasi una scarpa, gliela lanciò contro”. Nelle descrizioni della narratrice emerge come Stellino sia un piccolo essere indifeso che subisce le angherie ingiustificate della donna, intenzionata non solo a cacciarlo di casa, ma anche a ucciderlo, nello stesso modo in cui Ortese sentiva su di sé le sofferenze dei più fragili, come nella guerra di cui parla all'inizio. Non è infine casuale la scelta della città in cui è ambientato il racconto, Genova dove Ortese, che visse un’esistenza travagliata dal punto di vista economico e per i continui spostamenti geografici, trascorse parte della sua vita.
Se agisce dunque in Folletto a Genova questo meccanismo filtrante, che quindi porta il lettore a ricercare tra le maglie oniriche del racconto (che si chiude con una meravigliosa metamorfosi) gli elementi autobiografici ortesiani, e quindi i caratteri di una narrazione autobiografica che occulta sé stessa; un procedimento simile può anche abitare narrazioni che partono da un motivo autobiografico per poi pian piano abbandonarlo e tingerlo di mistero. È il caso del racconto Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, scrittore sempre abitato da un dubbio, dalla continua oscillazione tra letteratura e vita reale: “pensai che era meglio scrivere di un giovanotto che si ferma in mezzo alla piazza, piuttosto che essere un giovanotto che fa ciò che si dovrebbe scrivere, e continua ad andare a zonzo”. Il protagonista del racconto, Giacomo Disvetri, personaggio delfiniano per eccellenza, “apatico e privo di simpatie. Senza titoli di studio e poco amante delle arti”, è un impiegato di banca che inizia ad avvertire la preoccupazione per la mancanza di una moglie. Dopo alcune infatuazioni, si innamora perdutamente della figlia di un docente universitario che conosce durante le vacanze al mare, Isabella, da lui soprannominata La basca. Nell'introduzione alla raccolta che raccoglie il racconto, Delfini dà al lettore notizia della reale ispirazione per la protagonista di questo racconto: “Fu in un giorno di primavera del 1937, alla stazione di Firenze mentre aspettavo il solito treno per Bologna. Non mi parve bella, ma ne scoprii subito una grazia indiscutibile. Lei, che ricordava, pur non somigliandole, quella Madonna del Greco, pareva essere, vivente all’improvviso e nell’infanzia, la più adorata signora della mia vita. Nel discorso potei raccogliere una parola: «entonces»”. Si tratta della stessa parola, “entonces”, che il personaggio di finzione da lui creato, Giacomo, sente dire da Isabel prima di scappare di fronte a lei, tanto e subitaneo è il suo innamoramento. Per Giacomo, così come per lo scrittore, è avvenuta una folgorazione, la Basca della stazione di Firenze è l’Isabel del racconto e così, in questo cortocircuito tra reale e romanzesco, fiorisce intorno a lei “una narrazione che non è più un ricordo ma una possibilità”. Nel racconto il Ricordo della Basca, dove una chiamata del passato sta al centro del racconto, Delfini presenta l’evento fattuale della sua vita, l’esperienza vissuta alla stazione di Firenze, ma lo fa trasformandola in qualcosa di molto più dolce e profondo, con la realtà reinventata che supera quella effettiva. In Delfini dunque, tutta la realtà è riassorbita dalla scrittura, tutta la vita si fa racconto.
Se in questi casi un collegamento con la realtà rimane comunque presente, seppur trasfigurato in maniere diverse, ci sono anche casi dove nello scavo autobiografico del racconto breve, il materiale narrativo si trasforma in qualcosa di inafferrabile e scarno, che sembra aver cristallizzato qualsiasi legame con il vissuto. È il caso, per esempio, delle due novelle più latamente autobiografiche di Samuel Beckett, Compagnia e Mal vu mal dit, due opere in cui il processo di radicalizzazione nell'utilizzo della parola sembra raggiungere alcuni dei suoi vertici, dove l'astrazione della parola si accompagna a un processo in cui gli elementi autobiografici sono tutt'altro che diretti e immediatamente percepibili. In una situazione narrativa articolata in 56 capoversi, il flusso della voce di Compagnia che costituisce il cuore del testo viene continuamente interrotto e spezzato dalle transizioni prodotte dalla dimensione temporale della memoria. Anche nel testo di Beckett si resta impigliati in una sorta di cortocircuito in cui diviene molto difficile scindere l'autobiografia dalla finzione e individuare i confini dell'una e dell'altra. Il racconto, inoltre, assume un aspetto particolare che in parte giustifica lo statuto finzionale che alcune delle reminiscenze sembrano assumere. Lo scritto di Beckett infatti può essere ridotto a una struttura duplice che condensa due attività del pensiero: la memoria di ricordi infantili e adolescenziali che fanno luce sugli stati psichici e fisici dell'uomo attuale e un inventario autobiografico che segna le tappe significative della propria storia personale. Sotto questa duplice forza sono inseriti il lungo travaglio della madre e l'assenza del padre al momento della sua nascita, le lezioni di nuoto date dal padre e il tuffo dalla cima dell'albero in giardino per atterrare sui rami più bassi. La struttura che domina il racconto di questi due diversi modi di raccontare la vita dell'uomo è condensata nell'incipit dell'opera che espone la situazione in cui questi ricordi sono nati: “Una voce arriva a qualcuno nel buio. Immagina”. Si tratta di una voce che pare rivolgersi a qualcuno nell'oscurità, ma è difficile capire chi pronuncia la frase e a chi sia rivolta, un'ambiguità amplificata anche dal verbo della seconda frase, dalla peculiarità della lingua inglese che presenta in “imagine” un pronome intercambiabile e che quindi rende possibile interpretare il verbo sia come un imperativo rivolto al lettore sia come un'esortazione che l'autore rivolge a sé stesso. Il fatto eclatante, all'interno di un racconto che, come detto, si snoda sul ricordo della propria vita passata, risiede però nella scelta di Beckett di rifiutare esplicitamente di dire Io, di narrare in prima persona e quindi di mostrare la scrittura delle proprie memorie. Tale impossibilità è riferita immediatamente da Beckett, fin dalle prime pagine: “L'uso della seconda persona caratterizza la voce. Quello della terza quell'altro maledetto. Potesse parlare quello a cui e di cui la voce parla ci sarebbe una prima. Ma non può. Non sarà. Non puoi. Non sarai”. È in questo dolore che nasce la compagnia, nel tentativo che compie un soggetto di dire Io, di enunciare la sua presenza e attraverso la quale, come in uno specchio, possa affermare la propria esistenza.  Ecco che allora in Compagnia il percorso di astrazione giunge al suo apice, alla svolta che segna un punto di non ritorno, con la voce del protagonista definitivamente separata dal personaggio. Beckett paradossalmente utilizza un punto di vista esterno, poiché ormai è l'unico possibile, l'Io di Beckett, fin dall'inizio molto debole, fa gli ultimi passi verso la sua dissoluzione definitiva. In un racconto in cui la memoria falla e i ricordi sono avvolti in un vortice confuso, com'è possibile, viene da chiedersi, che esista ancora un Io, un Io senza memoria ovviamente.

Il racconto del sogno come rifugio archetipico della scrittura autobiografica

di Matteo Moca

Come può la letteratura raccontare la vita? Quali possono essere le tecniche e i punti di vista che uno scrittore sceglie per raccontare sé stesso? Quali i filtri che mascherano, offuscano o sfocano i contorni della vita reale nel suo passaggio sulla pagina? Sono questi solo alcuni degli interrogativi che la scrittura autobiografica può generare in chi volesse indagare il rapporto tra letteratura ed esistenza, tra arte e vita, provando a rintracciare quegli spiragli che naturalmente si aprono nel processo di fissazione della materia mobile quotidiana nel libro. In La coscienza di Zeno, opera che magnificamente mette in scena la cesura che esiste tra il racconto della propria vita e la realtà nel momento in cui la prima prova a essere scritta, c'è un passaggio particolarmente evocativo perché racconta come naturale la rinuncia a ogni successo e lo sgretolamento di qualsiasi fiducia nella scrittura quando questa dovrebbe raccontare la vita. «Una confessione in iscritto è sempre menzognera» scrive Zeno rivolgendosi al suo psicanalista: davanti all'accusa del dottore di aver falsificato il racconto della propria vita, Zeno risponde quindi che non si è trattato di una menzogna intenzionale perché se la sua confessione è intessuta di elementi menzogneri, questo si deve proprio alla scrittura che trasforma l'esperienza vissuta, poichè vita e scrittura sono due mondi che non possiedono il medesimo linguaggio. E lo stesso Zeno darà una spiegazione linguistica a questo fatto, paragonando vita e scrittura a due lingue differenti, sottolineando quindi i problemi intrinseci di traduzione.
Il racconto autobiografico sembra allora reggersi su un'impossibilità ontologica, parlare di sé stessi senza mentire è impresa irrealizzabile. La formula rimbaudiana «Je est un autre» e la scoperta freudiana di come la difficoltà di raccontare il proprio Io sia ineludibile - poiché questo è mosso da forze che lo stesso soggetto non riesce a conoscere - funzionano come meccanismi sincronici che allontanano lo scrittore dal racconto vero di sé. Ma se alla stessa tensione sono legate narrazioni estese e complesse (dall'operazione monstre di Karl Ove Knausgård a tutte quelle narrazioni dove la vicenda personale viene amalgamata con finzioni e riflessioni metaletterarie), identico discorso vale per le narrazioni breve, sottoposte quindi alla stessa condizione. Seppure quindi la letteratura non possa fare a meno di constatare questo inevitabile fallimento, gli scrittori non hanno comunque mai abbandonato la via del racconto di loro stessi sia perché, inevitabilmente, in ogni pagina scritta c'è un distillato, più o meno lampante, della vita di chi scrive, sia perché la narrazione autobiografica genera un'attrattiva intramontabile, negli scrittori per esempio per la sua possibilità curativa e per il suo afflato confessionale, nei lettori per l’opportunità di conoscere il mondo che si cela dietro lo scrittore. Se quindi la menzogna è inestirpabile dal racconto, alcuni autori scelgono proprio di utilizzare le possibilità offerte dalla letteratura per arrivare, attraverso percorsi più articolati e per niente lineari, al racconto, vero, di sé stessi.

È il caso delle raccolte di sogni che, nella loro brevità e nel loro affondare nei luoghi più profondi dell'Io, possono essere annoverate tra le possibilità che il mezzo letterario offre per raccontare sé stessi, narrazioni in cui gli itinerari onirici sfociano e combaciano con quelli autobiografici, anzi si tratta forse degli unici momenti in cui l'autobiografia, inconsciamente, emerge senza filtri sulla pagina. Molti scrittori si sono dedicati alla trascrizione dei propri sogni, alcuni continuando linearmente ciò che la loro opera già suggeriva (per esempio Georges Perec o Franz Kafka), altri invece ritrovando nel racconto onirico una possibilità di libertà e di racconto autobiografico che le altre opere non erano in grado di rivelare (è il caso, per esempio, di Graham Greene). Parlare di questo tipo di narrazioni pone il lettore davanti a una materia impossibile da definire in maniera univoca, perché il sogno stesso si trasforma in mezzo letterario e quindi si sogna anche per scrivere (in Sono nato lo stesso Perec parla di questa diffrazione, scrivendo come all'inizio i suoi sogni trascritti sulla pagina fossero “impacchettati con troppa cura, troppo levigati, troppo puliti, troppo chiari”, lontani da un'esperienza di “sola scrittura”) e il sogno viene plasmato dalle stesse fisionomie e forme che caratterizzano il racconto. Ma non per questo, cioè per la forza onirica che fa emergere, come ha rivelato Freud, ciò che è più vero e nascosto del nostro Io, il racconto del sogno deve essere considerato come una narrazione lontana dalle possibilità autobiografica, mentre deve essere compiutamente interrogato come uno degli strumenti che gli scrittori utilizzano per piegare la narrativa breve alle forme più segrete e autentiche del racconto autobiografico.
Georges Perec per esempio, che in Sono nato non a caso cita la frase di Svevo riportata in precedenza («“una confessione in iscritto è sempre menzognera”, all’epoca mi nutrivo di Svevo» scrive Perec) e la cui opera è quasi continuamente un tentativo di scrivere sé stesso e riempire i vuoti della sua esistenza attraverso la scrittura, ispirato dalla pratica dello scrittore Michel Leiris, raccolse tutti i sogni che affollarono le sue notti tra il 1968 e il 1972 in un volume La boutique obscure, tradotto in italiano da Ferdinando Amigoni per Quodlibet. La bottega oscura contiene 124 sogni di Perec minuziosamente annotati e che, nel loro complesso, offrono al lettore l'intero itinerario onirico-autobiografico di uno scrittore che, per tutta la sua vita e in tutta la sua opera, intrattenne con l'inconscio un serrato corpo a corpo. Passato da bambino dall'analisi con François Dolto e, da adulto, dallo studio di Jean-Bertrand Pontalis, Perec assegna al sogno e all'universo che esso costruisce la stessa importanza dell'opera narrativa, costruendo in questo libro una vera e propria raccolta di racconti che continuamente comunica con la sua vita razionale e con i suoi altri libri: ecco allora che il lettore potrà avvicinarsi alle manie e alle ossessioni dell'autore leggendo una sua biografia dell'irrealtà dove, ovviamente, dovrà tenere conto della diffrazione tra il testo, cioè come il racconto viene rievocato e trascritto dal sognatore, e il sogno in sé. Ma anche questo vuoto si rivela interessante perché se il lettore darà ascolto ai piccoli spazi bianchi che si creano tra ciò che della biografia viene rievocato nel sogno e quella reale dell'autore, verranno a galla i temi caratteristici e le parti più interessanti della sua opera, oltre che la natura più profonda di questa scrittura autobiografica breve. Ci sono, per esempio, dei sogni che rimandano ai campi di sterminio nazisti, quello in cui perderà la vita la madre che fu deportata appena prima di affidare il piccolo bambino alla zia, ci sono ricordi di relazioni amorose più o meno felici, così come il ricordo di amici e scrittori frequentati nella Parigi degli anni Sessanta e Settanta, ma anche i dubbi e i dilemmi che affollano la mente dell'uomo adulto o l'edificazione della città di una vita, Parigi, di cui questi sogni costruiscono una cartografia onirica segnata dai luoghi più importanti della sua vita razionale. Ecco quindi che questa raccolta di sogni rappresenta per l'autore un tentativo di ricostruire, in maniera indiretta, ma non per questo meno autentica, la sua insostenibile vicenda personale segnata dalla ferita originaria, dal bianco dell'abbandono della madre che occuperà ogni spazio della sua vita e della sua opera. Questi racconti, perché alla fine per la loro compiutezza di questo si tratta, offrono l'opportunità di costruire un'autobiografia notturna compiuta, che proprio attraverso i meccanismi del sogno e della narrativa breve, più appropriata per indagare i momenti fuggevoli del ricordo e dell'inconscio, permette di avvicinarsi a quell'indicibile che ha segnato la vita e l'opera di Perec.

Come Perec, anche Franz Kafka ha disseminato tra le sue opere a carattere maggiormente personale come lettere e diari, racconti di sogni. Come nel caso di Perec risulta difficile distinguere anche in Kafka quanto il sogno venga addomesticato dalla scrittura (potrebbe valere per lui quello che Perec scrisse rispetto ai suoi racconti: «credevo di annotare i sogni che facevo: mi sono reso conto, assai presto, che sognavo solo per scrivere i miei sogni»), ma è indubbio come la permeabilità nella sua opera tra i vari stati della coscienza tinga di un grande interesse questi racconti che, in alcuni casi, sembrano offrire una limpidezza e una decifrabilità maggiore rispetto ad altri suoi racconti brevi. Questo probabilmente deriva anche dallo statuto particolare della scrittura kafkiana, sempre sommersa dentro un materiale metafisico che sembra lontanissimo dalla realtà pur abitandovi dentro (lo stesso Kafka noterà tale natura: «Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore ha fatto cadere tutto il resto fra le cose secondarie e lo ha orrendamente atrofizzato»), che in questi sogni (raccolti in un libro unico, purtroppo fuori catalogo, da Sellerio con la cura di Gaspare Giudice) finisce per occupare una zona diversa, più decifrabile appunto perché, come nel caso di Perec, si situa tra la scrittura “razionale” (quella dei racconti e dei romanzi) e la vita. «Lo scrivere un'autobiografia sarebbe una gran gioia, perché procederebbe con tanta facilità come la scrittura dei sogni» annota Kafka nel suo diario nel 1911, mettendo in evidenza come il dettato onirico possa offrire quindi la stessa materia autobiografica di un racconto della propria vita a cui però lo scrittore deve riuscire a dare ascolto («Non posso dormire. Soltanto sogni, niente sogno»). Nella folta raccolta di racconti di sogni di Kafka, così come in Perec, emergono importanti elementi autobiografici che come fantasmi tornano ad abitare l'inconscio dello scrittore (la madre attraverso un paio di occhiali, occasione che gli offre il sogno per tornare sull'ambiguità del rapporto con lei, gli animali e gli uomini-animali, esseri simbolici portatori per natura di un'idea di fuga, ma anche simboli di una certa esperienza del mondo o la letteratura con un sogno abitato da un'opera di Schnitzler, autore per il quale Kafka non aveva particolare simpatia); oppure l'esplosione degli affetti e dei desideri irrealizzati della vita diurna (come i sogni con protagonista Emma Bauer, sorella di Felice a cui era molto legato, oppure la presenza di Napoleone nel mondo notturno come simbolo di tutto ciò che a Kafka in vita è negato). Assumono poi un'importanza fondamentale, anche per la loro lunghezza e natura articolata che davvero fa dimenticare che si tratti di materiali onirici, i racconti che hanno come protagonista l'amata Felice Bauer, analizzati anche da Blanchot, dove emerge per alcuni tratti l'incomunicabilità e i sentimenti che le lettere non del tutto sono in grado di raccontare.
Ma il racconto del sogno può essere anche un elemento sorprendente rispetto al resto dell'opera di uno scrittore, che non si immaginerebbe frequentatore così assiduo del mondo onirico considerando la natura lucidissima della sua opera diurna. È il caso di Graham Greene che in Un mondo tutto mio (pubblicato recentemente da Sellerio con la traduzione di Chiara Rizzuto) ha raccolto poco prima di morire, il libro è l'ultimo pubblicato in vita da Greene, una selezione dei sogni che per decenni annotò ogni notte (e anche qui, come nei casi precedenti, si genera quel meccanismo per cui diventa non sempre facile distinguere tra il sogno sognato e il sogno trascritto: «Una volta che ci si educa a tenere una matita e un quaderno vicino al letto», scrive Greene, «si sogna per lo meno quattro o cinque volte per notte»). È vero che, come annota Vittorio Lingiardi nella sua prefazione e la compagna di Greene Yvonne Cloetta nell'Introduzione, il sogno ha in realtà spesso una funzione decisiva nelle sue spy-story (si pensi per esempio a ciò che accade in Il console onorario), ma il lavoro su molti quaderni con la trascrizione dei propri sogni rappresenta un passo ulteriore in Greene, perché è la prova plastica di come il suo interesse fosse rivolto verso un mondo onirico capace di riempire dei vuoti che la veglia invece deve lasciare aperti. Anche in Greene il sogno si compone attraverso una precisa natura narrativa, come una storia breve che, pur con tutte le sfumature del sogno, ha un inizio e una fine: «Sono come sceneggiati a puntate, vanno avanti per settimane. Alla fine formano un tutto. Se si riesce a ricordare un sogno per intero, il risultato è un senso di divertimento pronunciato al punto da illuderti di essere catapultato in un mondo diverso». A differenza dei sogni di Perec o di Kafka, quelli di Greene non sembrano immersi in un universo fumoso e confuso, mentre si nutrono della stessa chiarezza che caratterizza la sua opera romanzesca, ma di quel mondo costruiscono un universo parallelo, il «mondo tutto suo» che figura nel titolo e che Greene riprende da una citazione di Eraclito riportata in esergo («I desti hanno un mondo unico e comune, ma ciascuno dei dormienti si ritira in un mondo tutto suo»). Il legame con la realtà è sottolineato dallo stesso Greene che nella sua introduzione scrive che questo libro «in un certo senso è un’autobiografia» sottolineando come tra il mondo segreto del sogno e quello reale esisteva una demarcazione molto sottile e sfumata. Diviso in sezioni che organizzano e ordinano il materiale differente e composito (sono assenti le parti che hanno a che fare con l'amore e la sessualità, ma ci sono comunque Alcuni scrittori famosi che ho conosciuto, Capi di stato e politici, sogni di guerra, i viaggi che hanno costellato tutta la vita dell'autore, Animali parlanti o Malattia e morte), questo libro offre, per usare la definizione di Lingiardi, «un’autobiografia della propria irrealtà, piena di realtà» e rappresenta, ancora una volta, quella possibilità di raccontare senza filtri, anche se in maniera obliqua, la propria vita scegliendo la narrativa breve.
Nei casi quindi di Perec, Kafka e Greene, ma molti altri si potrebbero trattare, da Dolores Prato a Arthur Schnitzler, da Antonio Tabucchi a Borges, emerge bene come il sogno che nella trascrizione sulla pagina assume la forma di una composizione breve, di un racconto, funzioni da un lato come luogo di esplosione di quelle tensioni autobiografiche che non riescono a trovare pieno compimento nella produzione di altro tipo, ma dall'altro acquisisca anche la funzione di rifugio radicale e primordiale dove provare a fissare una sostanza altrimenti intangibile, volatile, pronta a scomparire («Il tempo – scrive Gadda in una splendida pagina del Pasticciaccio – in cui diremmo si distendano i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d’uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra»). L'impressione è che la scrittura del sogno agisca come rifugio archetipico della scrittura autobiografica, luogo in cui la materia fulminea dell'onirico che offre improvvise rivelazioni allo spirito di chi sogna prova a essere fermata perché, forse, in grado di sciogliere i nodi più complessi della vita diurna, i traumi e i segreti che ne caratterizzano lo scorrere.

Chi ha paura del racconto? Un'indagine tra i lettori.

di Modestina Cedola

Guardando agli ultimi fatti editoriali sembra che il racconto sia più vivo che mai. Nello spazio di pochi mesi sono nate numerose collane che mettono al centro il racconto. Industria&Letteraura ha lanciato la collana “L'invisibile” diretta da Martino Baldi che vuole mostrare tutte le potenzialità del racconto lungo. “Cuspidi” collana diretta da Diletta Crudeli per Moscabianca Edizioni propone racconti di autori italiani e stranieri accompagnati da illustrazioni. Edizioni Arcoiris è già al secondo volume della collana “Trema” a cura di Emauela Cocco. Raccolte di racconti che hanno come tema il raccapricciante, il fantastico, l’inquietante e il fantasmatico. Da pochi mesi è nata una nuova casa editrice, Tetra, che pubblica solo racconti brevi, sotto la direzione editoriale di Roberto Venturini. Al Premio Chiara di quest'anno si sfideranno tre autori affermati, non raccontisti puri, che hanno deciso di affidare alla forma racconto le loro ultime fatiche letterarie. Sto parlando di Michele Mari (Le maestose rovine di Sferopoli, Einaudi), Antonio Pascale (La foglia di fico, Einaudi) e Alessandra Sarchi (Via da qui, minimum fax). Il giornale Domani a maggio ha lanciato il suo inserto culturale Finzioni che pubblica al suo interno anche racconti (nel primo numero racconti di Antonio Delfini, Teresa Ciabatti, Jennifer Egan, Chiara Tagliaferri, Ginevra Lamberti, Letizia Pezzali, Viola Di Grado, Eleonora Marangoni; ma anche di Tiziano Scarpa, Nicola Lagioia, Luca Ricci).
Eppure la percezione di una distanza dei lettori dai racconti è ancora molto forte. Ho provato a creare un piccolo campione per indagare le abitudini di lettura di chi li legge e ho chiesto ai lettori più titubanti di provare a spiegarmi perché non riescono ad amarli.

Cosa tiene, dunque, lontani i lettori dalla lettura di un racconto?

Tra le possibili risposte quella di aver mutuato un'abitudine alla lettura esclusivamente basata sui romanzi “perché non mi hanno mai educata a farlo, sto iniziando ora”, la sensazione di avere poco tempo per riuscire ad entrare in piena sintonia con ciò che si sta leggendo “preferisco le narrazioni lunghe, non riesco ad entrare immediatamente nelle storie”, la mancanza del legame con i personaggi “per le loro insite caratteristiche, come la brevità e l'approfondimento minore della trama, non riesco a legarmi ai personaggi. Dunque posso amarli per lo stile, per l'idea avuta dallo scrittore, o per i messaggi che vogliono trasmettere, spesso ugualmente profondi. Ma non riesco ad approcciarmi con particolare entusiasmo perché so che non mi resteranno forti legami. Per me il legame con i personaggi e con la storia stessa è fondamentale”, il non riuscire ad accumulare dettagli della storia durante il cammino “probabilmente perché finiscono in fretta, non ho il tempo di farmi trasportare e quando finisco di leggere vorrei sapere più cose che invece nessuno mi racconterà”, o al contrario averne talmente troppi da imbrigliare la fantasia del lettore “forse la descrizione dei personaggi è troppo specifica a volte, preferirei scoprirli durante la lettura”.
Per la frammentarietà “la cosa che mi disturba è che mi sembra di non avere il tempo di entrare dentro la narrazione che poi già finisce, ed è faticoso poi ricominciare ogni volta da capo a ogni racconto”. Per la sensazione che fa sembrare i meccanismi più esposti “Per quanto riguarda i racconti singoli, magari pubblicati su rivista, mi sembrano sempre dei noiosissimi esercizi di stile. Quando sono costruiti male sono brutti, quando sono costruiti bene mi sembrano troppo costruiti mentre per esempio in un romanzo con molta struttura, anche visibile, mi sembra un pregio”.
Nell'eterno duello che li vede quasi sempre sconfitti “preferisco i romanzi” e messi da parte senza appello “mi lasciano insoddisfatto”.

La scoperta nel tempo del libro ideale “non leggo raccolte di racconti generalmente. In passato ho fatto eccezione giusto per Cechov, Carver e Foster Wallace. Il punto è che guardo con sospetto anche i romanzi brevi... tendenzialmente non li leggo, sono attratto dai tomi, romanzi almeno dalle 300 pagine in su”. Per alcuni è un disinnamoramento passeggero “non so perché ma li leggo sempre meno. Forse la lettura frammentaria per una che già legge a bocconi non è il massimo”. Per altri un amore finito e ormai metabolizzato “Prediligo i romanzi, anche imponenti, da sempre, anche se ho parecchie raccolte di racconti, come Poe, Carver ecc. Ma raramente poi leggo tutti i racconti della raccolta. Sarà che mi sono allenata con Dostoevsklj e Proust che ero ancora nana. In ogni caso, non mi avvince molto la forma breve, mi mancano le pieghe nascoste della storia, dei personaggi. Ed è lo stesso motivo per cui amo poco i cortometraggi, soprattutto quelli di 2/3 minuti. E anche i corti teatrali mi danno la stessa sensazione. Anche se a volte trovi dei capolavori. Come nei racconti”. E c'è chi continua a provarci con risultati alterni “amo i racconti brevi ma faccio fatica a leggerli se si perdono in troppi dettagli descrittivi sul luogo o sulla natura. Faccio fatica se hanno un incipit debole e la mia attenzione cala. E per altri e più motivi”.

Per chi, invece, ama i racconti la brevità è un modo per godersi la storia tutta e subito. “Sono attratto dalla forma breve ( racconto o romanzo breve) perché mi piace l'idea di leggermi un racconto tutto in una volta come se fosse un film o un videoclip. mi piace scrivere e leggere per immagini. I romanzi molto lunghi mi danno noia, così come i film di tre ore o le canzoni più lunghe di 3 minuti, credo sia anche questione di abitudine” e magari di prendersi il tempo per passare a quella successiva anche se appartiene alla stessa raccolta “non leggo mai un racconto dopo l'altro. Lascio che passi del tempo. Non amo la raccolta come contenitore”.
L'approccio del lettore al libro di racconti cambia notevolmente. Non bisogna necessariamente arrivare all'ultima pagina perché “ogni racconto ha bisogno di un suo tempo vuoto attorno”.
È come se il lettore di racconti riuscisse ad affidarsi completamente allo scrittore e si lasciasse trasportare. Una sorta di qui ed ora applicato alle storie “ciò che amo è vedere cosa è stato scelto, tra una moltitudine, per raccontare molte cose in poche pagine: lo sguardo di sguincio, la prospettiva, l'inquadratura”.

Volevo cercare di capire quanto scarto ci fosse tra amanti del racconto e non. Per riuscire ad avere maggiori informazioni ho creato un sondaggio (13 domande con risposta secca) e l'ho fatto girare sui social per provare ad avere un campione più variegato possibile. Complice la mia bolla (composta per lo più da lettori forti di racconti) e la scarsa permeabilità dei gruppi facebook di lettura, il sondaggio non ha raggiunto l'obiettivo prefissato. Il 98% dei miei intervistati, infatti, legge i racconti. Un dato che non può essere in nessun modo uno specchio della realtà ma che mi ha permesso di capire meglio le abitudini di lettura e di scelta dei lettori che abitualmente leggono racconti.
Solo meno del 5% dei lettori intervistati afferma di non aver acquistato racconti nell'ultimo anno. Il restante 95% è così diviso: il 44% ha acquistato da uno a tre libri, il 33% da quattro a sette libri, l'8,5% da otto a dieci libri mentre il 10% ha acquistato oltre dieci libri.
Se diamo uno sguardo, invece, alla composizione delle librerie personali l'82% dei lettori appartenenti al campione ne ha riservato un terzo ai racconti. Il 68% acquista libri pubblicati da case editrici indipendenti medio piccole.

Un terzo degli intervistati segnala di avere difficoltà a trovare racconti nelle librerie.

Il 77% preferisce le raccolte di racconti al racconto singolo. L'85% cerca libri che raccolgono i racconti di un solo autore a discapito delle antologie. Nonostante la preferenza sia verso autori classici e/o già affermati, il 39% dei lettori si mostra curioso nei confronti degli autori emergenti.
Parlando di racconti non potevano mancare le riviste letterarie su cui il 24% degli intervistati dichiara di leggere la maggior parte dei racconti.

Due dati molto interessanti riguardano la percezione degli intervistati: l'86% vorrebbe che le case editrici pubblicassero più racconti e il 75% è sicuro che i lettori abbiano una diffidenza nei confronti della forma racconto.


La vitalità delle case editrici è in linea con la voglia dei lettori di leggere ancora più racconti e di poter avere la possibilità di scegliere tra un'offerta variegata e di qualità. I ritmi sempre più veloci che impongono spazi, tempi e un'attenzione sempre più ristretta potrebbero alla lunga premiare la forma racconto. Probabilmente un ampliamento dell'offerta editoriale riuscirebbe ad intercettare anche quei lettori che non riescono ad abbandonarsi alla forma breve, garantirebbe una maggiore copertura nelle librerie e un'abitudine del lettori nei confronti dei racconti.

Immagini e parole: il labirinto dell’identità contemporanea

di Matteo Moca

Diversi sono i valori che le immagini assumono all'interno di un testo letterario e possono dipendere, per fare giusto una delimitazione preliminare, da due fattori: il tipo di documento figurativo di cui si tratta (la fotografia, il disegno o l'illustrazione) e, ovviamente, dal tipo di testo letterario che accompagnano (racconto, romanzo, poesia, reportage o altro ancora). Già solo da questa arbitraria distinzione emergono bene i molteplici incroci che si possono creare e la conseguente pluralità di risultati, inafferrabile e impossibile da classificare in maniera netta e decisiva. Se però si volesse provare a restringere il campo delle possibilità, potrebbe essere interessante partire da una delimitazione letteraria, facendo per esempio riferimento alla narrativa breve e valutando, in alcuni casi specifici, quale possa essere il valore, aggiunto o meno, dell'immagine rispetto al testo. Credendo negli aspetti multiformi che la narrativa breve può assumere, e quindi non solo il racconto propriamente detto, ma qualsiasi forma dall'estensione ridotta diretta al dispiegamento di una storia, si potranno fruttuosamente affiancare le brevi epifanie joyciane illustrate da Vittorio Giacopini, le fotografie di Francesco Pernigo per l'autobiografia per intérieurs Asterusher: autobiografia per feticci di Michele Mari, o le immagini che costellano i versi che si fanno prosa di Claudia Rankine in Non lasciarmi sola. Si tratta quindi di libri dal valore e dagli aspetti letterari molto differenti, ma questo non impedisce di fare un discorso complessivo sulla funzione dell'immagine nel testo anzi è, quasi paradossalmente, un modo per favorire un simile discorso perché può offrire l'occasione per mettere in risalto un aspetto quanto più generale e valutarne, in maniera e in situazioni diverse, l'incidenza. C'è però, in effetti, un elemento che accomuna questi testi ed è che le immagini che ne costellano lo svolgimento non sono opera dell'autore che scrive, elemento che porta anche a riflettere sul valore editoriale che questo legame tra testo e immagine riveste e quanto questa relazione possa arricchire il testo e offrire spunti ulteriori al lettore.
Partire dalla recente raccolta Epifanie di James Joyce (pubblicate da Racconti con la traduzione di Carlo Avolio e contributi di Avolio, Enrico Terrinoni e Vittorio Giacopini) risulta particolarmente adatto a questo scopo perché si tratta del libro dove la distanza temporale tra i brevi testi joyciani e le illustrazioni, opera di Vittorio Giacopini, è più ampia. Come noto le Epifanie sono una serie di brevi frammenti che lo scrittore irlandese scrive tra il 1900 e il 1904, cioè fino al momento in cui Joyce non deciderà di essere un esule permanente in Europa tornando a Dublino solo in pochissime occasioni, prima di abbandonare il progetto per dedicarsi a Dubliners e al Portrait of the Artist as a Young Man, che usciranno rispettivamente nel 1914 e nel 1916. Eppure questi testi non solo, come la critica ha messo in luce, figurano come momenti centrali dell'apprendistato dello scrittore sia per quanto riguarda i temi (la città di Dublino giusto per fare un esempio macroscopico) che l'idea teorica generale (il tentativo, per esempio, di rivelare con pochi tratti la quidditas, l'essenza degli oggetti), ma sembrano prestarsi in maniera naturale a un continuamento visivo proprio per la loro natura frammentaria e incompleta.

Enrico Terrinoni nel suo saggio introduttivo, parlando dello «scrivere epifanico» di Joyce, di questi scritti che anticipano ogni opera compiuta successiva, tira in ballo il concetto dell'ekphrasis, la descrizione verbale di un'opera d'arte visiva. Parlando di uno dei maestri assoluti dell'ekphrasis, Roberto Longhi, lo storico dell'arte André Chastel ha scritto che questa analisi-descrizione «ha il compito di mantenere o di riportare lo spirito a temperatura elevata», ma se per la pittura le immagini sono il linguaggio muto che dà la possibilità a chi osserva di descrivere a parole ciò che l'occhio cattura, qui Giacopini compie piuttosto un percorso inverso e, se realmente aderente alla realtà della pagina come in questo caso, forse ancora più difficile. Una sorta di ekphrasis al contrario, il tentativo di dare a una materia che già parla una voce differente che non sia però semplice apparato accessorio, ma provi piuttosto a visualizzare «segreti decifrati», come scrive Terrinoni, che naturalmente, proprio per la loro natura bozzettistica e volutamente incompleta, si prestano a essere illustrati, continuati. Se infatti Joyce è quell'artefice della parola di cui parla a ragione e con estrema fascinazione Terrinoni (la lingua è fatta di particelle minime che si incontrano e compongono la materia, e così per Joyce le lettere sono «il microcosmo in cui si riflette in maniera quasi frattalica il macrocosmo della sua scrittura» scrive Terrinoni nel recente Su tutti i vivi e i morti) e l'epifania è la testimonianza dello sforzo di ridefinire il mondo attraverso la parola, i disegni di Giacopini provano a offrire allo battaglia di Joyce con le parole un'altra arma simbolica, quella del tratto visivo che in questo volume evoca continuamente lo stile joyciano concentrando la sua attenzione su particolari, nient'altro che parole appunto, che ne diventano il tagliente contraltare. Ma il lavoro di Giacopini, leggendo il suo bel saggio che chiude il volume, L'occhio di Joyce, sembra anche obbedire a un'esigenza autoriale dello scrittore romano che attraverso le molte illustrazioni di queste epifanie tratteggia la sua lunga frequentazione con l'opera joyciana, ponendo l'attenzione su oggetti particolari che segnano la sua lettura dell'opera dello scrittore irlandese e costruendo una sorta di autobiografia critica per immagini che risulta, proprio affiancando il testo, perfettamente riuscita. Nel suo bel saggio Giacopini scrive che se anche il tempo degli epigoni di Joyce è finito, «di certo non si è concluso il bisogno di fare i conti con un autore il cui passaggio sulla terra ha cambiato semplicemente tutto» e aggiunge che «dopo Joyce, dopo l'Ulisse, la letteratura è diventata futile. Non c'era più niente da dire» ma, chiosiamo, forse c'è ancora qualche elemento da disegnare.
Se appunto nel libro di Joyce si tratta di disegni, la faccenda è diversa nel libro di Michele Mari dove la natura delle immagini è fotografica: Autobiografia per feticci recita il sottotitolo di Asterusher (pubblicato da Corraini) e i feticci sono proprio gli ambienti, gli oggetti, i dettagli, i cassetti delle case abitate dall'autore o dove lui si è trovato a scrivere, in un libro che si configura come una vera e propria galleria autobiografica per immagini. Dentro la ricchezza dei riferimenti letterari che costellano le pagine di Mari, la sua Autobiografia per feticci riesce a compiere perfettamente quella fusione tra testo e immagini facendone un unico corpo che tenta di raggiungere l'essenza più profonda delle cose, cioè sfiorare il fantasma che la fotografia è in grado di evocare e la scrittura di solleticare. «L’essenza dell’immagine – ha scritto Maurice Blanchot – è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell’idea dell’interiorità; di essere senza significato, pur evocando la profondità di ogni possibile senso» e in queste pagine, sempre mantenendo la sua inafferrabilità, l'immagine grazie al supporto dei testi tenta di scovare una sua natura più concreta e tangibile: così i brevi testi che accompagnano le immagini di Asterusher acquisiscono la forma di un contraltare che faciliti il tentativo di trarre suggestioni in grado di agevolare la via dell'interpretazione. «Luce, e forza; forza, e luce. Misticismo e sacre scritture, salute e cosmica energia. Mi chiedo però se queste industriali didascalie siano qui risemantizzate al sevizio dei libri, o se viceversa, contrapponendovisi, li irridano»: questo scrive Mari sopra a una fotografia che cattura un particolare di una biblioteca riassumendo una delle forme che assume questa relazione tra testo e immagine, insubordinata, per certi versi anarchica, che emerge in tracce fisiche che si dissolvono nella scrittura, in un processo quasi opposto rispetto a quello di Giacopini, ma uguale nello stabilire un'identità ambigua del mezzo letterario che così come nel racconto La casa di Asterione di Borges, a cui il titolo del libro di Mari rimanda, assume la forma di un labirinto dove, com'è naturale che sia, non è possibile conoscere ciò che si parerà davanti, come neanche il suo abitante sa, in fondo, quale sia la sua natura.

Il libro della poetessa americana Claudia Rankine si situa quasi in una zona di mezzo dentro questo discorso a maglie larghe che ha incluso James Joyce e Michele Mari. Non lasciarmi sola (tradotto da Isabella Ferretti per 66thand2nd) è innanzitutto un testo magistrale nel mettere in crisi le definizioni letterarie: Rankine sfonda il muro che prova ancora a separare la poesia dalla prosa e così  Non lasciarmi sola si può leggere come una serie di brevi racconti dall'andamento saggistico su argomenti differenti (dal cancro al seno al lutto per un figlio perso, dalle macerie del terrorismo alla persecuzione razziale), vuoi per l'assenza degli a capo che regolano normalmente il dettato poetico, vuoi per il linguaggio cronachistico che connota i vari capitoli in cui si snoda il libro. Non lasciarmi sola è «una risposta all'11 settembre e all'era Bush» ha detto Rankine in un'intervista parlando del libro uscito in origine nel 2004, e nelle varie parti del libro l'attenzione della scrittrice si appunta sul razzismo, sulla solitudine, sulla morte, sulla malattia, sulla politica statunitense, tutti argomenti che però richiamano a uno stato generale di paura, secondo Rankine fomentato dal governo, che muove proprio dal colore della pelle per addentrarsi poi in maniera sottile tra le pieghe dell'esistenza quotidiana. Una televisione che ha sullo schermo le formiche bianche che testimoniano un'assenza di sintonizzazione campeggia sulla copertina e la stessa televisione, opera di John Lucas, torna ripetutamente tra le pagine del libro, un'immagine che riesce a potenziare il racconto di Rankine semplicemente con la sua ripetizione che non fa altro che amplificare il messaggio sotteso dalle parole della scrittrice: l'ossessione comunicativa che costella ogni momento della nostra quotidianità è presente attraverso le immagini ripetute di Lucas (talvolta sulla televisione campeggiano frasi o battute che seguono ciò che il testo suggerisce), ma l'immagine della televisione diventa anche un elemento funzionale alla natura stessa del libro poiché sembra suggerire l'interdipendenza, nell'epoca contemporanea, tra il testo scritto e l'immagine e l'impossibilità, nel voler essere contemporanei, di dividerli. Se si prendono ad esempio le pagine che Rankine dedica alla vicenda di James Byrd, uomo afroamericano ucciso da tre suprematisti bianchi in Texas nel 1998 probabilmente per il solo motivo di aver avuto il coraggio di trasferirsi in una zona dell'America dove non era benaccetto, questo meccanismo si svela nelle sue forme perché Rankine scrive di come Bush non ricordasse se i colpevoli fossero due o tre, sintomo di un disinteresse verso la questione («non ricordi perché non te ne frega niente» chiosa Rankine): ma ciò che sorprende è che Rankine non fa mai il nome di Byrd di cui inserisce solo un ritratto fotografico, come a dire che, dove la parola non arriva, per la violenza insita negli atteggiamenti umani o per l'impossibilità della parola di raccontarla, forse può correre in aiuto un medium ulteriore, l'immagine.
I libri di Joyce, Mari e Rankine testimoniano allora modalità diverse attraverso le quali il testo breve può entrare in contatto con l'aspetto figurativo non funzionando mai come orpello o come arricchimento visivo, ma come necessario completamento. Le strade percorse dagli autori, e da coloro che ne hanno arricchito il risultato finale, con l'unione di testo, disegno e fotografia sembrano inerpicarsi nello sforzo di rintracciare una rievocazione concreta e visiva di ciò che il testo prefigura, in un tentativo che sembra dunque suggerire come questi mezzi ulteriori, ancillari ma non sottoposti alla scrittura, provino a osteggiare le resistenze che l'atto di scrivere può generare.

La filiera della fiducia. I racconti in numeri

di Modestina Cedola


Se c'è una cosa su cui tutti sono d'accordo in editoria è che le case editrici pubblicano pochi racconti.
Nel 2016 tra lo stupore generale nasceva Racconti edizioni. Fondata da Emanuele Giammarco e Stefano Friani, è una casa editrice indipendente che ha scelto di pubblicare solo racconti. Sul loro sito spiegano così l'idea che ha dato l'avvio alla loro avventura editoriale:

 

Su di essa pendeva un pregiudizio – i racconti non vendono – e provare ad affrontarlo forse ci ha legittimato a impossessarcene. È un’idea bellissima e valeva la pena provare. Racconti: la prima casa editrice in Italia a pubblicare soltanto short stories. E perché no?

Varrebbe la pena chiedersi perché, in tutti questi anni, non siano state impiegate e concentrate energie soltanto nel racconto. Perché la brevità, un limite ma anche uno stimolo per lo scrittore e la sua creatività letteraria, non sia stato considerato allo stesso modo uno sprone per la creatività editoriale. Abbiamo provato a rispondere e non ci siamo riusciti”.

 

È una questione, dunque, a cui finora, e probabilmente ancora per lungo tempo, non troveremo risposta. Sulla scorta dell'esperienza di Racconti edizioni che hanno deciso di prendere in mano la situazione senza aspettare di avere risposte facili, ho provato a cercare dei dati che mi aiutassero a capire meglio. Ingenuamente convinta che smanettando qua e là avrei trovato i dati per provare a capire la fondatezza di questo pregiudizio, ho provato a digitare su Amazon la parola “racconto”. Nella pagina di ricerca mi sono apparsi un numero spropositato di risultati. Ovviamente falsati perché Amazon, come qualsiasi altro store digitale, non avendo una categoria racconti seleziona tutti quei libri che hanno la parola “racconto” nel titolo. Non solo racconti, dunque, ma anche romanzi, memoir, saggi e reportage. Abbandonato Amazon l'unico modo era sbirciare i cataloghi delle case editrici per capire effettivamente quanti racconti avessero pubblicato. Armata di foglio excel e buona volontà ho cominciato a navigare i siti degli editori, ma ben presto mi sono accorta che reperire le informazioni non era affatto facile. In molti casi nella scheda del libro non si parla espressamente di racconti ma di storie, o viene usata la parola romanzo anche se si tratta di una raccolta di racconti a tutti gli effetti. Reperire la data di pubblicazione in certi casi è parecchio difficile. Spesso i libri sono divisi per collana, poche volte è chiaro cosa contenga una collana. Un numero limitato di siti permettono di reperire il catalogo e alcune volte l'ordine con cui vengono caricati i libri non è lineare (non è un ordine cronologico, non è alfabetico, non è per collana). Provata dalla navigazione, ma non sconfitta, ho deciso di costruire un piccolo campione. La mia curiosità, seppur consapevole della non validità di questo esperimento, a questo punto era troppa e in qualche modo bisognava soddisfarla.

Le case editrici che ho scelto sono medio piccole e indipendenti: Atlantide, Clichy, Codice edizioni, effequ, Iperborea, Marcos y Marcos, minimum fax, NN Editore, Nottetempo, Polidoro e Sur.
Tutte le case editrici prese in considerazione hanno pubblicato racconti nel corso del 2021, anno a cui d'ora in avanti faremo riferimento. Nella sezione narrativa il campione delle case editrici scelto ha pubblicato 172 titoli di cui 23 tra racconti e raccolte di racconti. A guidare una classifica ideale troveremmo effequ che ha scelto di riservare ai racconti il 40% delle proprie pubblicazioni di narrativa. Seguono Codice Edizioni (34%), Iperborea (18%) e minimum fax (15%). Le raccolte di racconti pubblicate hanno un andamento costante durante tutto l'anno con una maggiore concentrazione nel mese di novembre. Solo tre titoli sono composti da racconti di autori vari mentre gli altri sono raccolte di racconti di un unico autore. Quindici titoli su ventitré provengono dalla narrativa straniera.
Dodici sono scritti da uomini mentre nove da donne.
Sei dei libri sono stati scritti da autori e autrici considerati ormai dei “classici”, come ad esempio Louisa May Alcott per Clichy, Ricardo Piglia per Sur, Salvatore Di Giacomo per Polidoro e Flannery O'Connor per minimum fax. Solo due delle raccolte di racconti sono scritte da esordienti (Tutti i nomi di Dio di Anjali Sachdeva edito da Codice Edizioni e Dolce casa di Wendy Erskine edito da Atlantide).
Qualche curiosità anche su Racconti edizioni. Ovviamente i racconti rappresentano il 100% del catalogo (lo so, è scontato ma vederlo così scritto fa un certo effetto). Degli otto titoli pubblicati nel 2021 sei sono di autori e autrici stranieri. I titoli si dividono esattamente a metà tra scrittori e scrittrici. Due le esordienti: Giulia Sara Miori con Neroconfetto e Kali Fajardo-Anstine con Sabrina & Corina; alle quali si potrebbe forse aggiungere anche Daniel Orozco con “Orientamento” primo e suo unico libro.

Se volessimo tracciare un profilo potremmo azzardare che una casa editrice sceglierà di pubblicare una raccolta di racconti di un unico autore, già affermato, probabilmente straniero (il mercato estero resta sempre un valido test per le vendite).
Le scelte editoriali e strategiche acquistano un senso quando i libri arrivano ai lettori. Qualche anno fa durante un corso di editoria una docente disse che i libri esistono se presenti in libreria. Questa semplice verità mi ha portato a fare alcune domande ai diretti interessati. Ho contattato quattro diverse librerie per capire quale fosse il loro rapporto con i racconti e quale invece l'atteggiamento che riscontrano quotidianamente nei loro lettori. Per avermi aperto il loro mondo ringrazio Antonello Saiz e Alice Pisu della libreria Diari di Bordo di Parma, Claudio Moretti, Flavio Biz, Sabina Rizzardi (e la cagnolina Olympia) della libreria MarcoPolo di Venezia, Mattia Garavaglia e Chiara Gaspari de la Libreria del Golem di Torino e Giorgia Sallusti della libreria Bookish di Roma. Per prima cosa chiedo ai librai in quale ordine tengano i libri nella loro libreria e se esiste uno scaffale dedicato ai racconti. A parte Bookish che ha previsto un'organizzazione in senso geografico dei libri, le altre librerie hanno organizzato i libri per casa editrice per sottolineare il progetto di ognuna, racconti compresi. MarcoPolo mi confessa che fino a qualche anno fa esisteva nella loro libreria uno scaffale dedicato ai racconti. Inoltre Golem e Bookish mi citano Racconti edizioni, che diventa a tutti gli effetti uno spazio dedicato ai racconti. I librai mi confermano che pur non avendo un loro spazio specifico i libri di racconti il loro spazio se lo prendono eccome con notevoli risultati anche in termini di vendite. Giorgia di Bookish “Direi che i racconti rappresentano circa il 10-15% dei libri presenti. Credo che dipenda dal fatto che a me piacciono molto e quindi li cerco specificatamente tra le letterature di tutto il mondo: la selezione di Bookish è figlia delle scelte personali della libraia. Per quanto riguarda le vendite, sono congrue con la percentuale, o forse addirittura un pochino più alte perché io stessa tendo a consigliare i libri che apprezzo di più, e non di rado sono raccolte di racconti”.
Conferma che arriva anche da La Libreria del Golem “i racconti sono un 25% e da noi si vendono parecchio perché Mattia è un patito lettore di racconti.
Antonello e Alice mi raccontano che trattano “solo case editrici indipendenti e il numero di libri di racconti presente è proporzionale al numero di racconti pubblicati per ciascuna casa editrice. Essendo la nostra una libreria di proposta tendiamo a non fare resi e tenere a catalogo ogni uscita anche a distanza di tempo. Per cui è considerevole il numero di raccolte di racconti presenti”.
Sulla stessa linea anche MarcoPolo che ama i racconti e che “quando le nostre case editrici pubblicano libri di racconti, decidiamo di leggerli e, come per tutti gli altri libri, se selezioniamo e teniamo il libro in libreria, ci rimane per molto tempo, anni”. In qualche modo anche i librai (quelli indipendenti, attenzione), confermano le percentuali emerse dal piccolo campione per cui possiamo affermare che i racconti in libreria non solo esistono ma tengono anche parecchio duro.

Sono curiosa però di sapere qual è il rapporto che i loro lettori hanno con la forma breve. Il coro è unanime: il lettore medio è diffidente nei confronti dei racconti ed è sempre necessario un primo passaggio dalla forma romanzo. Una volta acquisita però la fiducia del libraio la diffidenza iniziale si smorza fino ad alcuni casi di felice innamoramento per i racconti.
Ne è convinta Giorgia “dal mio punto di vista, diffidente al primo approccio ma poi torna per trovare nuove raccolte di short stories, è sempre così”, a cui fanno eco Mattia e Chiara la diffidenza può esserci ma può anche essere sgominata facilmente, basta invitare a leggere qualche pagina, per vedere se lo stile, il ritmo e la storia catturano. Se la voce dell'autore piace, ciò che racconterà, nella sua varietà e diversità, catturerà chi legge”.
Insisto sulla diffidenza dei lettori perché è un tema che mi incuriosisce parecchio e mi chiedo allo stesso tempo se esista allora un lettore ideale di racconti. Per i Diari di Bordo “non esiste un lettore ideale di racconti, esistono lettori appassionati di storie belle e la forma breve può essere un ottimo contenitore per queste narrazioni. La diffidenza di cui si parla la conosciamo bene, ma è una forma di pregiudizio facilmente superabile se il libraio è in grado di conoscere con una buona divulgazione autori di narrazioni brevi”. Di parere simile anche La Libreria del Golem “pensiamo che non esista un lettore ideale di racconti, ma potenziali lettori di qualsiasi cosa. A volte i racconti riescono a “sbloccare” lettori in crisi, per la brevità della lettura e l'autoconclusione, altre volte i racconti vanno incontro all'esigenza di una narrazione più condensata e più lirica rispetto a quella del romanzo. Quante raccolte di racconti ci sono, con il loro stile e la loro lingue, tanti sono i potenziali lettori che possono incontrare. Claudio, Flavio e Sabina attingono alle loro esperienze personali e si mettono nei panni dei lettori “noi librai e libraia siamo stati prima di tutto lettori e lettrici di racconti americani e, forse sono quelli che consigliamo di più, per esempio in libreria c'è da sempre l'altarino dedicato ad Andre Dubus, insieme ad alcuni autori nordici come per esempio Stieg Dagerman, Il viaggiatore resta uno dei racconti più perfetti e amati di sempre a nostro parere. Lettori e lettrici ideali di racconti sono coloro con cui forse abbiamo instaurato un rapporto di fiducia e consiglio, ai quali ci sentiamo di dire Vai oltre la reticenza o la diffidenza, perché un racconto perfetto è difficile da trovare e quando succede è meraviglioso. Un po' di reticenza c'è, per la poca lunghezza”.
Giorgia punta tutto sulla curiosità “la persona ideale per questa lettura è quella che sa apprezzare le infinite possibilità di una storia breve, qualcuno che voglia assaggiare in una raccolta unica i multiformi talenti di una scrittrice o di uno scrittore” e riporta anche la sua esperienza con il gruppo di lettura che tiene con la sua libreria “nel gruppo di lettura di Bookish, Lettorǝ anonimǝ, non è raro leggere raccolte di racconti, a volte scelte da me, a volte dalle persone del gruppo. Non si tratta di una lettura collettiva, che rimane uno spazio privato, solo in un secondo momento messo in comune attraverso il dibattito che segue la lettura del libro. La discussione che ne esce fuori è spesso brillante, dinamica, soprattutto se la raccolta era ben costruita: i racconti contenuti in un buon libro si parlano l’uno con l’altro, e il gruppo di lettura lo avverte e ne fa un’esperienza omogenea. È capitato con Ted Chiang, con Bryan Washington, con Raymond Carver. Una lettura condivisa permette di apprezzare di più una raccolta che non un romanzo, forse perché ciascuno può notare qualcosa o intripparsi con una storia anziché seguire il filo rosso dell’intreccio romanzesco”.

 Pare di capire, dunque, che una delle cause di questa diffidenza nei confronti dei racconti possa ascriversi ad una mancata confidenza dei lettori con gli stessi. Anche nei lettori forti molto spesso si riscontra una mancanza di abitudine alla lettura delle short stories. Le case editrici pubblicano racconti, principalmente affidandosi a nomi di autori e autrici già conosciuti per poi proporre anche esordienti. Una sorta di lenta fidelizzazione del lettore che passa anche attraverso le librerie. Un lettore che mai come nel caso dei racconti ha bisogno di una guida per avvicinarsi alla loro lettura. Leggere racconti diviene una sorta di atto di fiducia nei confronti di chi ha già percorso quel cammino che si stenta ad intraprendere. Forse potrebbe essere interessante, oggi che sono caduti gli argini e i contatti sono più diretti, indagare tra i lettori per capire cosa li spinge lontano dai racconti e trovare una chiave affinché la forma breve non faccia più paura.

L'approdo. Il rapporto tra case editrici e riviste



di Modestina Cedola

A chi cerca consigli su come arrivare a pubblicare il proprio libro, google offre 84.600 risultati. Blogger, editor, articolisti, scrittori (aspiranti e non), forum, gruppi Facebook, giornalisti, ognuno pronto a condividere i suoi preziosi consigli e a svelarvi i retroscena dell'inaccessibile mondo editoriale. La cosa su cui tutti concordano è che non esiste un'unica strada per la pubblicazione. Una mail che attira l'attenzione nella casella di posta elettronica strabordante di manoscritti. Un corso di scrittura. Un premio letterario. Un amico lettore che vi segnala alla persona giusta. Un romantico invio attraverso il postino. Un progetto creativo online. Una partecipazione a un concorso. Un racconto su una rivista letteraria.

Le variabili sono infinite. Le circostanze alle volte ci mettono lo zampino. Il testo è l'unica vera determinante.

In particolare, negli ultimi anni, sulla scia dei primi anni duemila, si è fatta sempre più strada l'idea che scrivere racconti su riviste letterarie sia il passo certo per l'approdo in editoria. Complici alcuni preziosi consigli di Vanni Santoni e Matteo B. Bianchi ascoltati male o recepiti solo in maniera parziale, si è diffusa la convinzione errata di un legame diretto tra la pubblicazione in rivista e la pubblicazione editoriale, dando per scontato una sorta di propedeuticità delle riviste. Confinandole nell'anticamera dell'editoria. Errore che coinvolge indistintamente una parte dell'editoria, aspiranti scrittori e scrittrici e anche alcune riviste. Dimenticando che chi dall'esperienza in rivista è arrivato a pubblicare (esistono, sono un bel numero anche se marginale rispetto al totale delle pubblicazioni in Italia), nella maggior parte dei casi ha scritto in riviste attente alla creazione di un proprio linguaggio e con una linea editoriale originale improntata alla sperimentazione. Interessanti a questo proposito le esperienze di Luciano Funetta, Maddalena Fingerle e Alfredo Palomba. Altro esempio illuminante in questo senso è il Premio Campiello Opera Prima. Francesca Manfredi, Valerio Valentini, Marco Lupo e Veronica Galletta hanno in comune non solo la vittoria del premio ma anche i trascorsi in diverse riviste letterarie. Quattro vincitori provenienti da riviste letterarie nelle ultime cinque edizioni rimane al netto di false illusioni una circostanza notevole. Ci tengo a sottolineare che gli scrittori e le scrittrici citate finora non hanno all'attivo solo la pubblicazione su rivista ma hanno ampliato e incastrato una serie di esperienze per trovare la loro voce e renderla riconoscibile e vicina ai loro lettori.

Ma esiste, dunque, un legame diretto tra riviste letterarie e case editrici?

Scrivendo questo articolo ho pensato sarebbe stato utile avere un piccolo campione da intervistare. La speranza era di poter attingere a un campione più vasto, purtroppo, e non sarà una novità,  alcune delle mail che ho inviato non sono andate a buon fine. Per fortuna, non era la vastità del campione ad interessarmi ma la possibilità di avere delle esperienze diverse da poter raccontare. Per questo ringrazio infinitamente Graziano Gala (Sangue di Giuda, minimum fax), Valentina Maini (La mischia, Bollati Boringhieri), Paola Moretti (Bravissima, 66thand2nd), Gianluca Nativo (Il primo che passa, Mondadori), Claudia Petrucci (L'esercizio, La Nave di Teseo), Francesco Spiedo (Stiamo abbastanza bene, Fandango), Alfredo Zucchi (La memoria dell'uguale, Polidoro editore), le case editrici effequ e Wojtek e le agenzie letterarie Otago e Pastrengo.

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Minimo comun denominatore le riviste letterarie.

Degli intervistati quanti effettivamente sono stati contattati direttamente da una casa editrice che è rimasta colpita dai loro racconti?

Alla mia domanda solo Valentina Maini e Claudia Petrucci hanno risposto affermativamente. Paola Moretti, invece, pur non avendo ricevuto nessun tipo di contatto diretto con le case editrici è riuscita ad incuriosire alcune agenzie letterarie con i suoi racconti sulle riviste. Esperienza confermata anche dall'agenzia letteraria Pastrengo, a sua volta fondatrice di una rivista letteraria di racconti brevi, che privilegia lo scouting su riviste letterarie per scandagliare nuove voci. Dello stesso avviso anche Otago per i quali “è un buon modo per leggere voci nuove e, peraltro, già sottoposte al filtro di una redazione, quindi è una ricerca più facile rispetto all’andare a pescare fra le migliaia di proposte che arrivano via email”.

Per Graziano Gala “la scrittura su riviste è stata propedeutica. Io penso che senza la radiocronaca di un diretto Lecce-Milano comparsa su Inchiostro di Puglia non ci sarebbe stata minimum fax, credo che quel racconto lì in qualche modo mi abbia cambiato i corridoi di camminamento. Allo stesso modo penso sia stata fondamentale la finale di Verde rivista, tenuta proprio nella sede della casa editrice: le riviste italiane sono sacrosante, bisognerebbe trattarle meglio e tenerle in gran conto”.

E le case editrici intervistate, invece, come si pongono nei confronti delle riviste letterarie? Per Wojtek essere lettori di riviste letterarie è fondamentale. “Siamo stati influenzati moltissimo dalle pubblicazioni di Crapula e di Verde, da lettori, trovavamo un’urgenza e un’autenticità difficilmente riscontrabile in proposte letterarie a volte un po’ ingessate”. Dello stesso avviso effequ che le definisce il loro osservatorio principale sia per la saggistica che per la narrativa.

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Prendendo in considerazione la mole di lavoro delle case editrici e della corposa produzione con cui sono bersagliate da aspiranti scrittori e scrittrici, è plausibile che non riescano ad essere in maniera costante ed approfondita aggiornate sulle riviste letterarie. Anche quando la rivista letteraria non diventa un tramite diretto per attirare l'attenzione, mi chiedo se, come esperienza, abbia una qualche rilevanza per le case editrici una volta acquisito il proprio esordiente. Alfredo Zucchi mi dice che è stato rilevante averne fondato una “Antonio Russo De Vivo, con il quale ho co-diretto Crapula per anni, mi segnalò a un agente, Antonia Santopietro, con cui Antonio, tra il 2016 e il 2017, aveva cominciato a collaborare. Questo incontro mi ha permesso, con qualche fatica, di trovare un editore per La bomba voyeur. Una cosa simile è accaduta con un libro di saggi che dovrebbe uscire a settembre: le stesse persone mi hanno aiutato a trovare collocazione per un testo che altrimenti sarebbe rimasto sepolto”. Spesso nella bolla editoriale si sente parlare di nomi che girano, “il mio editor mi sfotte bonariamente perché mi si trova(va) ovunque“ scherza Paola Moretti che continua a raccontarmi il suo arrivo alla pubblicazione: “per l’incontro con la mia casa editrice è stato determinante un concorso indetto da 66thand2nd a cura di effe (ndr. rivista letteraria)“.

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Francesco Spiedo, al telefono, mi svela che per alcune case editrici avere pubblicato su rivista è la prova che hai dimestichezza con molte delle cose editoriali o, almeno, che non sei uno sprovveduto in questo senso. Percezione che mi conferma anche Pastrengo: “dipende da casa editrice a casa editrice. In linea di massima, un autore che ha già pubblicato in rivista è un profilo tenuto un po’ più in considerazione rispetto a un esordiente assoluto, soprattutto se, nel tempo, è riuscito a crearsi un suo piccolo pubblico di riferimento. Ma non c’è nessun legame diretto tra pubblicazione in rivista e pubblicazione editoriale. Il vero discrimine lo fa sempre il testo che si va a presentare alla casa editrice: se il romanzo è buono o se non è buono”.

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Per molti scrittori e scrittrici le riviste letterarie rappresentano l'inizio della loro storia seria con la scrittura. Confrontarsi con la pagina, con se stessi, con una redazione, con un editing e con un pubblico. Avere la possibilità di scambiarsi esperienze con altri scrittori, allenare la capacità di affrontare uno sguardo altrui e di lasciare andare le proprie storie. Molti affermano che senza di loro non avrebbero mai cominciato a scrivere un romanzo o a credere di poterlo fare. Per Graziano Gala è “una questione di formazione umana: quando si riceve un editing da una rivista, una proposta al cambiamento o al miglioramento del testo bisogna essere felici, inginocchiarsi e ringraziare. È lì che si cresce, che si gettano i semi: nell’emendare, nel migliorare, nel cambiare porzioni di testo e rimescolarle. Personalmente devo dire grazie a Risme: stavo per mollare tutto, loro accettando un mio racconto mi diedero la forza di perseverare. Tante cose sono accadute – ne sono convinto – grazie a quel racconto”.

Sia Wojtek che effequ guardano attivamente al mondo delle riviste. Molte delle persone da loro pubblicate sono state scelte perché i loro scritti online avevano colpito gli editori. Oltre ai romanzi pubblicati, entrambe le case editrici hanno scelto nelle loro antologie scrittori e scrittrici scoperti grazie alle riviste letterarie (per effequ “Odi”, “Future” e “Circospetti ci muoviamo” in uscita a luglio 2021; per Wojtek “Vocabolario minimo delle parole inventate” a cura di Luca Marinelli).

Farsi un nome, come dicevamo prima, con i racconti pubblicati sulle riviste letterarie per poi esordire nella maggior parte dei casi con un romanzo, è un pensiero che sfiora un po' tutti gli attori di questa commedia. Sembrerebbe, così, che anche ai racconti venga assegnato il ruolo di palestra. Cominciare con la forma breve per prendere poi sicurezza verso la forma lunga dimenticando però che il racconto prevede delle sue complessità specifiche.

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Chissà se avrà provato a proporre una raccolta di racconti? È una delle mie curiosità più frequenti quando apprendo di uno scrittore o di una scrittrice, di cui ho letto racconti sulle riviste letterarie, che sta per pubblicare un romanzo con una casa editrice. Sarà una libera scelta di chi scrive separare le riviste dal percorso editoriale o sono le case editrici restie alla pubblicazione dei racconti a influenzare, magari anche indirettamente, le proposte? Rischiando di passare per indiscreta ho sottoposto a tutte le persone intervistate la questione. Graziano Gala confessa un tentativo “Sì, ma in condizioni che con il senno di poi definirei davvero poco propizie. È stata un’esperienza formante, come tutte, ma mi piacerebbe rifarla in condizioni altre, ecco”. Gianluca Nativo svela un atteggiamento diffuso in editoria senza però chiudere la porta a nuove possibilità: “prima del romanzo, avevo proposto una mia raccolta di racconti solo a piccoli editori che in catalogo avevano già pubblicato raccolte di racconti di autori italiani. L’interesse c’era ma il lavoro era molto lungo e soprattutto limitato a pochi editori. In molti mi hanno consigliato, se interessato alla pubblicazione, di lavorare su un romanzo: avrebbe reso le cose più facili. E così è stato. Lavorare sui racconti però ti permette di dialogare con un settore sì ristretto, ma con una dedizione che difficilmente troveresti nel resto dell’editoria”. Paola Moretti si sofferma, invece, sulle difficoltà dello scrivere una raccolta di racconti: “Non ho mai proposto una raccolta di racconti perché in tutta franchezza trovo difficilissimo comporla! Ci sto provando da anni, nei buchi tra un progetto e l’altro e nei periodi di calma, ma un conto è scrivere un buon racconto che deve stare da solo in mezzo a tanti altri racconti eterogenei, un altro è scrivere dieci-dodici racconti buoni che devono coesistere, quindi essere legati da un seppur fatuo qualcosa, in una raccolta di cui si è l’unica autrice. Mi piacerebbe riuscirci prima o poi, ma per ora niente mi sembra mai buono abbastanza. Credo che tra tutti i racconti che ho scritto negli ultimi cinque anni solo tre li pubblicherei senza remore. Magari tra 15 anni arrivo ad averne 12!”. Claudia Petrucci mi confida “No, non ancora. Ho una raccolta in cantiere ma, idealmente, dovrebbero precederla altri due romanzi – perché ho deciso così”. Per Francesco Spiedo la notizia dell'interessamento di Fandango è arrivata mentre stava lavorando ad una raccolta di racconti che ha momentaneamente accantonato ma che vorrebbe riprendere in un futuro. Alfredo Zucchi ha pubblicato la sua raccolta di racconti dopo aver esordito con un romanzo (La bomba voyeur, Rogas Edizioni). “Il manoscritto di La memoria dell’uguale è stato richiesto in lettura da qualche editore nel tra il 2018 e il 2019. Prima di incontrare – felicemente – Polidoro, credo che almeno uno di questi editori lo abbia effettivamente letto. L’incontro con Polidoro, per il tramite di Antonio Esposito, è stato invece mediato sia dalla mia previa esperienza su rivista, sia dalla mia incipiente esperienza nella redazione di Wojtek Edizioni”. Allargo la visuale per capire i margini di una eventuale proposta di pubblicazione in editoria per una raccolta di racconti a Pastrengo: “Nel panorama editoriale attuale, le case editrici di qualità interessate alle raccolte di racconti sono davvero poche. Al netto di qualche illustre eccezione, per un’agenzia letteraria è molto complicato lavorare su una raccolta, soprattutto se l’autore in questione non è un nome già noto. Anche noi, che siamo grandi amanti del genere, dobbiamo andare con i piedi di piombo e accettare di lavorare solo su raccolte che ci colpiscono in pieno. Proprio in virtù di questa situazione siamo davvero orgogliosi del nostro Giuseppe Zucco, che ha pubblicato a inizio 2021 la raccolta I poteri forti con NNE”.

Sull'antica questione della diffidenza editoriale nei confronti dei racconti entra a gamba tesa Otago: “va considerato, e non si può non farne i conti, che se gli editori preferiscono i romanzi alle raccolte di racconti, è più probabile che riusciremo a vendergli un romanzo piuttosto che una raccolta di racconti. Questo è giusto che l’autore lo sappia, ma non dipende da noi, dipende da quello che gli editori vogliono pubblicare. Eh sì, per il momento mi pare sia ancora così: gli editori preferiscono pubblicare romanzi che racconti”.

Parlando con loro mi accorgo che a molti piacerebbe poter pubblicare una raccolta di racconti anche se consci delle difficoltà sia creative che editoriali che un lavoro del genere comporta. Faccio mio un piccolo sogno di Graziano Gala “Mi piacerebbe un giorno ci fosse una collettanea di racconti scritti da quell’intera generazione partita dalle riviste in questi anni: lo han fatto quelli di Wojtek a curatela Marinelli, chissà che non possa ricapitare. Una sorta di Qualità dell’aria in presa diretta, volta a capire dove stanno finendo i confini”.

Personalmente, pur non considerando le riviste come propedeutiche alla pubblicazione, mi capita spesso di leggere autori e autrici e immaginare di ritrovarli tra gli scaffali delle librerie. Penso a Riccardo Meozzi e alla sua eleganza nella costruzione della prosa. Agli intrecci tra lingua italiana e dialetto di Noemi De Lisi. Alla capacità di Stella Poli di raccontare le emozioni. Alla scomodità che mi dà leggere Alessio Mosca. Alla facilità che ha Sharon Vanoli di giocare con le parole. Alla vivacità di Giulia Sara Miori (proprio nel Giugno del 2021 Racconti Edizioni ha pubblicato la raccolta di Giulia Sara Miori ‘Neroconfetto'. [n.d.r]) Alle storie di Riccardo Dell'Aquila capaci di trasportarti lontano. Alla maturità di Rachele Salvini.

Chissà se qualcuno nella bolla editoriale si sta già occupando di loro. Chissà se un giorno scriveranno un romanzo o una raccolta di racconti.

Il racconto esploratore di probabilità

di Matteo Moca

In uno dei suoi saggi più famosi e importanti, Cibernetica e fantasmi, oggi raccolto in Una pietra sopra, Italo Calvino si interroga sulla «narrativa come processo combinatorio»: in questa conferenza, ovviamente ancora interessante per gli argomenti trattati, Calvino indaga l'uso del linguaggio nei primi insediamenti umani, riconoscendo come la narrazione e il racconto delle storie nascano dall'utilizzo di un numero limitato di parole per costruire nuovi orizzonti narrativi, e constata la sproporzione tra il numero di parole a disposizione dell'uomo, limitate, e le esperienze possibili nel mondo, illimitate. «Il narratore – scrive Calvino – cominciò a profferire parole non perché gli altri gli rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l’una con l’altra, generarsi una dall’altra»: il narratore inizia allora a esplorare le possibilità «implicite» del linguaggio, combinando le figure e le azioni da cui venivano fuori poi delle storie in potenza sempre diverse. Ecco che quindi, secondo la concezione di Calvino, la letteratura e le possibilità del racconto si intrecciano sin dai primordi con la combinazione e le permutazioni, mezzi attraverso i quali fuggire dalle maglie limitate del vocabolario in un processo che collega quindi il racconto di una storia alle possibilità, anche matematiche, della sua realizzazione. Calvino fa il nome di Queneau e cita ovviamente l'OuLiPo, l'Officina di Letteratura Potenziale fondata dallo scrittore francese con François Le Lionnais e che ha accolto al suo interno anche Georges Perec, Jacques Roubaud e lo stesso Calvino: questo gruppo di scrittori, lanciati verso la ricerca di strutture e schemi della narrazione, rappresenta forse il caso più classico della relazione tra scienza e scrittura, per le operazioni messe in campo nella scrittura, ma anche per il racconto inteso anche come gioco e possibilità di esperimenti combinatori e probabilistici.
Le pratiche narrative dell'OuLiPo sono solo uno dei modi attraverso i quali la letteratura accarezza il mondo scientifico e, proprio a partire da questa esperienza, si possono evidenziare due direzioni di questo rapporto, da una parte quella praticata dal gruppo francese, cioè immaginare il dispiegamento di metodi matematici all'interno del processo di scrittura, dall'altra l'idea che attraverso la letteratura le scienze possano trovare un racconto avvincente per i suoi protagonisti e per le sue teorie. Ma questa è, ovviamente, una distinzione arbitraria e generale perché molti sono anche gli incroci tra queste due traiettorie, per esempio la creazione di vicende d'invenzione, o surreali, che vengono però costruite attraverso l'intreccio di piani complessi che rispondono anche a un sostrato matematico-scientifico, rendendo quasi impossibile distinguere le due origini della scrittura.
E se già quindi questa classificazione si presta a ulteriori distinguo, ma si tratta d'altronde di un'ineluttabilità che adombra ogni fatto letterario, importante è anche la scelta della forma narrativa, con differenze sostanziali e conseguenze diverse tra il romanzo e il racconto. L'impressione è che la forma breve, con la sua capacità di celare non detti, di non svelare tutto e di lasciare uno stato di sospensione nel lettore, risulti particolarmente consona a queste scritture che accarezzano la scienza, come testimonia una tradizione esemplare, che oltre a Queneau comprende, per fare un solo nome, anche Borges: un interesse che questa declinazione del racconto tuttora riscuote nella letteratura contemporanea.
Raymond Queneau è un esempio molto importante per questo discorso: scrittore, poeta, matematico, Queneau inizialmente prende parte al movimento surrealista, ma presto però si allontana da Breton per divergenze rispetto all'esaltazione dell'inconscio e dell'automatismo, pur mantenendo sempre il gusto per la provocazione, per i giochi di parole e per gli aspetti misteriosi del quotidiano. Troppo spesso la critica ha tenuto divisi due dei piani che compongono la sua opera perché se le idee dell'OuLiPo lo hanno portato a sottoporre la sua scrittura a varie contraintes, non si può comunque dire che Queneau non scelga di addentrarsi, seppure in modo ironico, in una ricerca esistenziale e anche metafisica che, come alcuni lettori hanno notato, anticipa le visioni di Sartre e Camus. Questo mi pare interessante perché questi scrittori “matematici” vengono troppo spesso ridotti a autori cervellotici che sperimentano metodi scientifici in letteratura senza alcun interesse ulteriore. Si pensi a un altro autore, Geroges Perec che per esempio elabora una scrittura basata sul lipogramma in La Disparition, un romanzo interamente redatto senza la lettera “e”, dove però non c'è pericolo di tecnicismo virtuosistico gratuito per la gravità della materia, la Shoah e le vicende biografiche dello scrittore. Di Georges Perec Quodlibet ha appena pubblicato una raccolta di testi brevi, Cantatrix sopranica L. e altri scritti scientifici (a cura di Roberta Delbono): oltre al testo iniziale che dà il nome alla raccolta, e che è uno splendido scimmiottamento del metodo e del linguaggio scientifico per descrivere le conseguenze del lancio di pomodori su una cantante d'opera con la dimostrazione del teorema che più pomodori arrivano più le cantanti urlano, si susseguono testi brevi, assimilabili a piccoli racconti, dove Perec immagina un mondo scientifico che non esiste: esemplari entomologici fantasiosi come la “Coscinoscera” o scienziati inesistenti dalle biografie spiritose e possibili come Léon Bourp e Marcel Gotlib, sono ancora una volta la testimonianza della possibilità d'invenzione e di combinazione tra scienza e invenzione che appartengono alla letteratura e che possono essere declinate anche nel racconto fantasioso di natura scientifica.

Da questo punto di vista il libro di Perec è un campione imprescindibile, oltre che rappresentazione plastica delle possibilità dell'OuLiPo, ma la letteratura breve può anche trovare un compromesso tra verità della scienza e finzione della narrazione, ed è quello che accade in uno dei libri che ha fatto maggiormente discutere negli ultimi mesi, Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamìn Labatut (pubblicato da Adelphi con la traduzione di Lisa Topi). Il libro dello scrittore cileno è composto da sei testi che possono essere ridotti alla forma del racconto e ognuno di questi, seppure con sfumature diverse, parte da verità della scienza riguardanti alcune delle maggiori personalità scientifiche del Novecento, materiale su cui si innesta l'invenzione letteraria, con scene di finzione, pensieri, incontri e riflessioni immaginati dall'autore. Quando abbiamo smesso di capire il mondo è quindi anche un libro che sposta le coordinate teoriche della narrativa breve: se volessimo forse fare un esame tecnicamente preciso della natura di queste prose troveremmo forse alcuni spazi bianchi rispetto all'obbedienza al genere, ma questo sta anche probabilmente a testimoniare il tentativo di oltrepassamento di cui lo scrittore vuole farsi portatore. Tra i testi della raccolta, dedicati alla scoperta del blu di Prussia, al rapporto tra scienziati e armi di distruzioni di massa o a scoperte matematiche che provocano incredibili black-out nella mente degli studiosi, ce n'è uno che credo rivesta un'importanza decisiva per questo discorso, quello dedicato al fisico Werner Carl Heisenberg. Il racconto, che dà il titolo alla raccolta, è incentrato sul soggiorno a Helgoland del giovane Heisenberg che, in quell'occasione, inizia il ragionamento che rivoluzionerà il mondo della scienza con le sue imprescindibili scoperte: ma gli incontri e gli eventi che Labatut racconta sono debitori anche di quella fiction senza la quale, a detta dello stesso autore, la letteratura perde molto del suo valore. Se allora ci si volesse ricollegare alle idee di Calvino in Cibernetica e fantasmi, ecco che il libro di Labatut va a inserirsi proprio dentro l'universo di possibilità che si apre alla letteratura: giocando sulle storie e sulle scoperte che hanno segnato il Novecento e con cui ancora la scienza fa i conti, la fiction e il verosimile, spalancano alla letteratura lo stesso inconoscibile che hanno generato queste scoperte.
Questo procedimento probabilmente si compie in maniera decisiva proprio nel racconto breve che con le sue possibilità di lasciare sempre un non-detto decisivo per l'interpretazione non fa che aumentare il ventaglio di probabilità per il lettore, in un gioco a due che già nel momento della scrittura prende in considerazione il fruitore del testo, con la sua lettura e i suoi ragionamenti. Ci sono poi, a differenza di Labatut, dei racconti che invece inventano storie di scienziati bislacchi: se da questo punto di vista inimitabile punto di riferimento sono i brevi ritratti di Juan Rodolfo Wilcock raccolti in Sinagoga degli iconoclasti (dove possiamo trovare il chirurgo Charles Wentworth Littlefield dotato di uno straordinario «potere tromboplastinico» o l'ingegnere Hans Horbing autore di una teoria che vede nell'origine della terra lo sbriciolarsi di una piccola luna), anche autori contemporanei insistono su creazioni letterarie di questo tipo.

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Si può pensare per esempio ai racconti di Paolo Albani (tra l'altro membro dell’Oplepo, Opificio di Letteratura Potenziale, versante italiana dell’OuLiPo), autore prolifico e sempre desideroso di sondare i limiti del racconto, della lingua e, quindi, della letteratura, e alla sua raccolta I mattoidi italiani dove ancora una volta vengono trasposti sulla pagine alcuni scienziati bizzarri che nella loro vita hanno sostenuto idee alquanto eccentriche, senza però mai andare in manicomio. Un libro dall'andamento e struttura quasi enciclopedici, in cui nei brevi racconti si possono leggere le idee del linguista Carlo Cetti, desideroso di «smagrire» il dizionario italiano o quelle di Alberto Corva, che invece credeva possibile, nel giro di pochi anni, diffondere la comunicazione attraverso il pensiero. Anche in questo caso Albani prende le misure da uomini realmente vissuti, ma a differenza di Labatut, ovviamente anche per l'eccezionalità bislacca di queste biografie, non c'è troppo bisogno di fiction, perché i racconti sono già di per sé eccezionali e non hanno quindi necessità di un processo narrativo, ma sono comunque ulteriore testimonianza di come la narrativa breve possa offrire uno sfogo a questo tipo di racconto.
Ritornando al racconto su Heisenberg in Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Labatut, si può considerare come il miscuglio omogeneo di fiction e verità porti il lettore a instaurare con la storia una relazione anche “fisica”, poiché viene invitato a muoversi all'interno della storia e anche a muovere i suoi pezzi. Ci sono situazioni in cui invece la collaborazione del lettore si fa ancora più concreta: si può pensare per esempio al recente libro di Dario De Marco, Storie che si biforcano (Wojtek edizioni), dove l'autore porta i celebri sentieri che si biforcano a fare un ulteriore passo concreto: viene infatti chiesto al lettore di muovere fisicamente il libro, di ribaltarlo per poter completare le storie che si susseguono nel corso della raccolta, una ventina, e che si sdoppiano proprio a partire da piccoli elementi che ne modificano l'andamento. Il lettore è quindi invitato a intervenire nel flusso del racconto perché queste storie che si biforcano danno al racconto un'ulteriore possibilità: non ci si trova davanti solo a una delle molteplici possibilità che, sempre sulla scia di Calvino, la narrazione offre a chi scrive, ma se ne apre un'altra, ulteriore. Due possibilità su un numero pressoché infinito non è certo un risultato che permette di controllare questo spazio indefinito, ma un po' come nella forma del libro-game (di cui è importante esempio il recente libro di Carlo Mazza Galanti pubblicato da Il Saggiatore, Cosa pensavi di fare?) al lettore sembrerà di poter perseguire un risultato che, all'apparenza, dipende anche da lui, dalla sua scelta di giocare con lo scrittore e con i suoi racconti. De Marco, così come Alfredo Zucchi nella raccolta edita da Polidoro editore, La memoria dell'uguale, prova a trasferire sulla pagina scritta l'impressione che per ogni scelta che facciamo, per ogni avvenimento che accade ce ne siano altri, innumerevoli, che non accadono e che quindi non riguardano le nostre esistenze e restano solo nell'universo delle possibilità. Umberto Eco in Lector in fabula, sulla scorta degli studi sulla teoria della ricezione di Wolfgang Iser e della cosiddetta “Scuola di Costanza” e prendendo le mosse da un altro suo importante libro sul tema, Opera aperta, indaga proprio come esista una cooperazione tra autore e lettore che influenza in maniera decisiva la fruizione e l'interpretazione del testo: l'attenzione variegata del racconto rispetto all'universo scientifico (ritratti veri o immaginari, racconti che sfidano il lettore a completare le smagliature di senso, il gioco probabilistico e linguistico) mostra proprio come la letteratura breve possa farsi possibile esploratrice di questo universo di probabilità.

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Il racconto come dispositivo di osservazione

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di Matteo Moca

Come i manuali di narratologia insegnano, il racconto è un componimento narrativo breve formalmente pensato per una lettura ininterrotta e dedicato a un'unica vicenda. Inutile dire quanto provare a circoscrivere con precisione la natura teorica del racconto possa portare a definizioni lacunose, chiaro specchio di una complicazione più generale, quella del concetto di letteratura. Percorrere questo itinerario è chiaramente fuori dalla portata di questo articolo, ma un paio di punti possono ugualmente essere messi in luce, senza nessun desiderio di completezza, perché le forme letterarie sono specchio dei diversi movimenti della letteratura che a sua volta si muove assecondando i cambiamenti della società. Provare quindi a seguire questi cambiamenti e confrontarne gli elementi centrali con i dispositivi letterari può essere una via per immaginare una risposta un po' meno evasiva al rapporto tra forme e contenuti.
Tra i lettori più attenti riguardo a come si muove la contemporaneità e quali sono i suoi vizi e le sue caratteristiche più importanti, un posto d'eccezione spetta sicuramente a Mark Fisher. Il critico, morto suicida nel gennaio del 2017, ha un'influenza decisiva in molti ambiti culturali, come d'altronde dimostra anche il suo interesse per mezzi espressivi diversi come la letteratura, il cinema, la televisione e la musica. E se, come accade spesso in questi casi, capita che si citino autori senza averli letti limitandosi a saccheggiare poche frasi dall'usura semplice («è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo» sembra essere il riferimento più importante di Realismo capitalista), ancor più spesso può succedere che costrutti teorici dall'indubitabile importanza finiscano per essere strattonati per calzare a pennello sulle letture più disparate. Il rischio ovviamente è presente anche per Fisher, in particolare per una sua definizione che risulta in effetti appropriata per il tempo che viviamo, quella di weird (The Weird and the Eerie: Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax con la traduzione di Vincenzo Perna) che rimanda alla mente quella di “unheimliche” di matrice freudiana (interessante, tra l'altro, che la spiegazione freudiana prenda le mosse proprio da un racconto, L'uomo di sabbia di E.T.A. Hoffmann). La definizione di Fisher è un'etichetta appropriata in molti contesti e in effetti la sua abilità teorica sta proprio nell'identificare dei grandi sommovimenti nella società contemporanea e dare a questi una forma e una definizione. Nell'introduzione al volume dedicato al weird, Fisher lo definisce come qualcosa che ha «a che vedere con l’attrazione per l’esterno, per ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune», un'attrazione che comporta solitamente «una certa dose d’inquietudine, magari anche timore» perché ciò che si nasconde fuori non è sempre qualcosa di benevolo, anzi, «l’esterno ci mette a disposizione un’abbondante dose di terrori», anche se poi Fisher continua insistendo sul fatto che i terrori non esauriscono ciò che c'è da dire sull'esterno. Eppure l'impressione è che il terrore messo a disposizione dall'esterno rappresenti un'attrattiva importante per la narrativa contemporanea e così ci ricolleghiamo a quello che si diceva prima rispetto al rapporto tra letteratura e luoghi di discussione della società contemporanea. Se si restringe lo sguardo, accontentandosi di una campionatura più ristretta, l'unica possibile in questo frangente, si potrà notare come la narrativa breve si prenda volentieri in carico il racconto di questo esterno inquietante, che prende forme ovviamente molto diverse, ma riconducibili a una sorgente comune che ha molto a che fare anche con «l'interno» fisheriano.


Possono essere molti gli esempi, a conferma della pervasività del tema, ma un buon punto di inizio può essere una raccolta di racconti di David Peace, scrittore inglese tra l'altro letto e commentato anche da Mark Fisher che confrontando la sua straordinaria epopea romanzesca Red Riding Quartet e il romanzo GB84 con la sua idea di realismo capitalista scrive di come una delle differenze tra queste opere sta nel passaggio «from religion and theodicy (there must be a God to make good all that suffering, all those atrocities)» del primo «to politics (there must be a better way to live than this)» del secondo. La sua raccolta Fantasma (Il Saggiatore) sembra appartenere più al primo tipo, immersa com'è in un soprannaturale spaventoso, ma è interessante anche per il gioco letterario che sottende i vari racconti perché protagonista è il fantasma dello scrittore Rynosuke Akutagawa, padre della narrativa breve giapponese moderna, definito da Peace un raccoglitore di storie, storie anche antiche che vengono poi reinterpretate in chiave moderna. A Peace qui interessa, attraverso la descrizione di azioni operate da un qualcosa che è al di là della percezione ed è legato all'arte del narrare, proseguire sulla strada del racconto della fine della modernità verso il paludoso e deludente presente ma, a differenza dei suoi romanzi, lo fa con storie brevi attraversate da fantasmi: «Ho scritto bugie come se fossero vere e la verità come se fossero bugie, e ci ho sempre creduto» si trova scritto nella Supplica di Red Riding Quartet, quale dunque lo statuto di questi racconti se non il tentativo di raccontare attraverso lo strano, esterno alla percezione ma nello stesso tempo afferente al reale, ciò che abita i nostri giorni?
Rintracciare queste atmosfere nella narrativa breve apre a un gruppo di scritture numerose e diverse, come per esempio i racconti di Shirley Jackson pubblicati recentemente da Adelphi con il titolo La luna di miele di Mrs Smith. In questa raccolta, composta da racconti editi e inediti, dove si ritrovano matrici e temi che caratterizzano la scrittura di Jackson e nutrono opere come La lotteria o L'incubo di Hill House, mi pare interessante il fatto che lo strano e l'inconsueto appaiano anche in racconti non direttamente riferibili alla temperatura di quelle narrazioni, come testimonia bene il racconto che dà il nome alla raccolta, presente in due versioni differenti: Jackson sembra suggerire che per trovare il mostruoso e l'orrore non serve andare troppo fuori dal mondo percepito, unendo così in un unico polo la distinzione di Fisher tra esterno e interno spaventoso, perché il soprannaturale può essere già dentro il reale e pure il lettore lo può riconoscere nella vicenda se si impegna nel riempimento dei non detti e dei risvolti impliciti, operazione non difficile, e qui sta uno dei nuclei di questo discorso, perché riempire questi vuoti vuol dire semplicemente far riferimento all'esperienza individuale all'interno della società contemporanea.
E se, come scrive Fisher, questi elementi esterni dalla realtà non per forza devono essere terrificanti ma possono anche essere aspetti che creano un semplice disordine rispetto alla normalità, una sorta di confusione ermeneutica, possiamo inserire in questa nobile, inclusiva e tremolante linea anche la recente raccolta di Alfredo Zucchi La memoria dell'uguale (Alessandro Polidoro Editore), dove vengono messi in gioco temi che vanno proprio a erodere le classiche coordinate della percezione, sfidando, attraverso il mezzo letterario, il reale. Infatti i protagonisti di ognuno dei racconti, avvolti in un andamento narrativo e teorico che ricorda le Finzioni di Borges, sono testimoni di una messa in discussione dello statuto di realtà: Zucchi prova a immaginare che il mondo che noi ci troviamo ad abitare rappresenti solo una delle possibili combinazioni di spazio e tempo: se le cose stanno così, vuol dire che esiste in un mondo già dallo statuto incerto una serie di possibilità che rimangono escluse e queste Zucchi prova a immaginare. Anche in questo caso i racconti non perdono mai il contatto con la realtà, muovendosi invece sulle complesse linee che ne segnano i confini: ancora un incontro tra dentro e fuori, tra il mondo come lo conosciamo e un altro che pare mostrare solo alcuni spiragli che la narrativa breve, come in questo caso, volentieri prova a riempire.
Danilo Soscia nelle sue raccolte di racconti pare interessato proprio a indagare questi fantasmi che gravitano attorno al reale attraverso una via peculiare ed estremamente interessante incentrata sulle biografie. In Atlante delle meraviglie (minimum fax) per esempio Soscia ricostruisce delle biografie infedeli, ancora sembra essere Borges il nume tutelare, di personaggi vari e straordinari come Teseo, Gesù, Rimbaud, Marco Polo, Gramsci, ma immaginando personaggi oscuri che intrecciano le loro vite, falsi e reali nello stesso tempo, agenti di un mondo ucronico che però non si distacca poi così tanto da quello che siamo abituati a vedere. Anche in Gli dei notturni. Vite sognate del ventesimo secolo (sempre minimum fax), Soscia si cimenta in narrazioni incentrate su donne e uomini celebri come Aldo Moro o Marilyn Monroe, Saddam Hussein o Mario Schifano, Tommaso Landolfi o Anna Magnani, ma utilizzando un'angolatura straordinaria, quella del sogno, mettendo in scena nei brevi racconti della raccolta gli universi onirici di questi personaggi. In entrambi questi casi, dove ancora una volta la scrittura si nutre dei non detti e di aspetti conturbanti, la narrazione breve sembra essere lo strumento migliore per dispiegare la forza narrativa: le «ipnografie» che compongono Gli dei notturni assumono un valore proprio nel loro affiancarsi, nel loro costruire una galleria oscura, modo per dare a una materia frammentaria, come quella del sogno e della nostra percezione imperfetta del reale, un forma più organica.
Alla fine di questa rassegna certamente incompleta (e, tra gli altri, si possono inserire per restare tra le traduzioni recenti in italiano, L'ospite e altri racconti di Amparo Dàvila pubblicato da Safarà o i grotteschi racconti di Viscere di Amelia Gray per Pidgin) emerge in ogni caso come l'interesse per i fantasmi e per il weird, in maniera imprecisa traducibile come lo strano o l'inquietante, rischiando comunque di perdere un po' del connotato astratto della definizione, attraversi la narrativa breve contemporanea. Certo rimane una domanda, a cui è complicato rispondere, riguardante la ricezione del grande pubblico di questi temi: se infatti, come si è provato a dimostrare, questo tema si inserisce in pieno nelle pieghe della società contemporanea, nei vizi e nelle storture visibili attraverso un'osservazione puntuale della quotidianità, le narrazioni che seguono questa strada complessa sembrano non aver ancora trovato un pubblico ampio interessato, se non in rari casi come quello di Shirley Jackson, anche se rimane indubbia l'attenzione critica: non è poco e può essere certamente un primo passo per veicolarne i contenuti.