Il quotidiano oscuro di Amparo Dávila


di Debora Lambruschini
 

Leggere Amparo Dávila significa accogliere l’ignoto, aprirsi al perturbante e a un mistero che non verrà quasi mai del tutto svelato. È tornare alle origini della short story – o meglio, al cuento – e agli elementi strutturali che caratterizzano la forma: la cura artigiana delle parole, il non detto, la storia sommersa, le increspature sulla superficie, le svolte inaspettate dei finali, il frammento. Leggere Dávila significa anche riconoscere l’unicità della voce di quella che è generalmente considerata la più grande cuentista messicana, a lungo trascurata dalla critica ma il cui culto letterario è a poco a poco cresciuto, fino a farne una scrittrice popolarissima in patria e da qualche anno conosciuta anche tra i lettori nostrani. In Italia il nome di Dávila è iniziato a circolare nel 2020, anno stesso della scomparsa dell’autrice: è la casa editrice Safarà a tradurre per la prima volta i racconti di questa maestra dell’insolito e del fantastico. Alla prima raccolta, L’ospite e altri racconti, si è di recente aggiunta Morte nel bosco e altri racconti, entrambe sapientemente tradotte da Giulia Zavagna, che segue la prosa mai eccessiva di Dávila, una semplicità apparente che è lavoro di scalpello, di sottrazione, di dosaggio sapiente di parole concrete, aderenti alla realtà e che per contrasto evocano il mondo immaginifico dell’autrice.
L’America latina è un confine geografico e letterario ben noto agli amanti della forma breve, perché il racconto qui ha sempre trovato terreno fertile, accanto alla stessa riflessione teorica che l’ha definito. Basterebbe citare uno su tutti Julio Cortázar, nume tutelare del racconto tra scrittura e teoria letteraria, lui stesso grande ammiratore dell’opera di Dávila. E a una certa tradizione sudamericana – cuentista e non solo – il nome di questa scrittrice è stato più volte accostato: Cortázar appunto, Horacio Quiroga, Elena Garro, Gabriel Garcia Marquez. O, per allargare gli orizzonti geografici, Edgar Allan Poe, Kakfa, Shirley Jackson. Buzzati, oserei perfino dire, per quella vena di realismo magico che ne caratterizza alcuni racconti, l’inquietudine e il surreale che irrompono nel quotidiano.
Nomi che si rincorrono e ai quali in qualche modo la scrittura di Dávila si accosta per un comune sentire, una certa tensione di sguardo, un’etichetta che la critica può apporvi; ma la voce di questa scrittrice è unica nel suo genere e per prima in Messico tratta la questione femminile in stretto rapporto con il contesto sociale e la dimensione domestica spogliandola della patina dell’attivismo, della denuncia sociale, dei proclami, e discostandosi quindi dalle tendenze dominanti. Il perturbante di Dávila si fa domestico – e per questo ancora più intenso – , l’orrore, l’oscurità entra nel quotidiano.

 

Torna con il caffè caldo, lo serve a Marcela, ne prende un po’ anche lui. Il sole entra e illumina la stanza, sono le nove e mezza di mattina di una domenica del mese di ottobre, tutto è reale, quotidiano, reale come la donna che mescola il caffè seduta di fronte a lui, come lui stesso che assapora il riposo settimanale. L’unica cosa fuori posto, a quell’ora, sono le parole, il mondo che lei esprime.

(Musica concreta, p. 74)

 

Un quotidiano appunto riconoscibile, dalle descrizioni minuziose e concrete, materiali, dense di dettagli degli ambienti e degli oggetti che li compongono, in cui l’irrompere dell’elemento irrazionale diviene per contrasto ancora più sconvolgente. Lo spazio domestico non più luogo di protezione e riparo, ma abitato dal mistero, dal pericolo, che opprime e imprigiona.
Corre appena sotto la superficie una tensione sempre più forte, esplode in certi finali che quasi mai svelano davvero il mistero, né sciolgono i nodi: leggere Dávila, quindi, significa venire a patti con questo, confrontarsi con l’ignoto ma non riuscire davvero a penetrarne il mistero, un po’ come la scrittura stessa. Presenze oscure, ossessioni, mostri, che talvolta hanno contorni concreti seppur non possiamo assegnarli un nome, molte altre ci fanno muovere a confine tra verità e allucinazione, veglia e incubo.  

 

Quando lo vidi per la prima volta, non riuscii a reprimere un grido di terrore. Era lugubre, sinistro. Aveva grandi occhi giallastri, quasi rotondi e sempre sbarrati,

che sembravano penetrare attraverso le cose e le persone.

 (L’ospite, p. 23)

 

La descrizione mostruosa è tutto ciò che riusciremo a sapere di questo essere che il marito della protagonista porta a casa di ritorno da uno dei suoi viaggi e che da quel momento turba l’equilibrio domestico, si fa sempre più pericoloso, aggressivo, diviene ossessione. Possiamo provare a figurarcelo in un certo modo, ma non sappiamo davvero che cosa sia, se un animale, un mostro, cos’altro. Ciò che sappiamo è che quasi sempre la casa nei racconti di Dávila è il luogo dell’oppressione, è dove l’equilibrio si infrange e si rivelano le ombre e i lati oscuri del cuore umano, dove quasi mai ci si sente al sicuro.
L’ambiente domestico è uno spazio esplorato spesso nella narrativa, specie nella sua tendenza gotica, che Dávila rimaneggia con maestria e apre a nuovi squarci. E, come da miglior tradizione, l’imprigionamento domestico è soprattutto il modo per raccontare l’oppressione patriarcale, la violenza, gli squilibri.

 

«Sei sempre più isterica, è davvero doloroso e deprimente vederti così… ti ho spiegato mille volte che è una creatura inoffensiva».

Allora pensai di fuggire da quella casa, da mio marito, da lui… Ma non avevo soldi, né avrei facilmente potuto comunicare con qualcuno. Senza amici o parenti a cui rivolgermi, mi sentivo sola come un’orfana. (L’ospite, p. 27)

 

Le storie di Dávila si muovono in spazi chiusi, domestici o meno, ambientazione che intrecciata a una certa modalità narrativa concorre a creare sulla pagina un senso di claustrofobia e imprigionamento che accompagna il lettore fino alla fine. Delle numerose occorrenze possibili la mia mente corre subito a certi capisaldi della short story di fin de siècle, uno su tutti The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman: la casa che diventa prigione, il confine sempre più labile tra verità e allucinazione un nodo che il finale non scioglierà davvero del tutto. Lì è il marito a costringere la moglie al riposo, a una sorta di imprigionamento domestico, per curare quella che oggi definiremmo depressione post partum. Qui, nei racconti di Dávila, l’oppressione ha varie forme, è specchio di una società che giudica, non fa sconti e condanna. Sono le donne quasi sempre a pagarne il prezzo più alto, ma nei racconti di Dávila anche i protagonisti maschili si trovano di frequente a fare i conti con l’orrore: ci svela le loro paure più profonde, l’incapacità di venire a patti con l’irrazionale, la resa, la fuga.

 

Quando restammo soli, mi resi conto che entrambi piangevamo in silenzio. Quelle ombre informi e incarcerate, quella loro lotta disperata e inutile, ci avevano sconfitti.

Entrambi riconoscemmo allora tutta la nostra follia.

Non coprimmo mai più lo specchio. Eravamo stati scelti e accettammo quel destino senza ribellione né violenza, ma con la disperazione che accompagna ciò che è irrimediabile.

(Lo specchio, p. 70)

 

I personaggi accettano il loro destino e, soprattutto, l’irrazionale che sconvolge gli equilibri delle loro vite, scivolando sempre più nella follia, nell’ossessione, un perturbante che si muove nei confini riconoscibili del reale.
La narrazione è tutta rivolta su quel momento in cui tutto cambia, l’equilibrio che si infrange: vediamo i personaggi scivolare sempre più nell’incubo, quasi mai uscirne, ancor più raramente da vincitori. Non ci sono netti schieramenti tra buoni e cattivi, le donne si macchiano di colpe al pari degli uomini, questi ultimi sanno cadere nella follia e nell’isterismo quanto le donne cui quelle etichette sono sempre troppo facilmente applicate.
È in questa terra di confine che si muove Dávila, in cui accoglie l’irrazionale e il mistero. Leggendo i racconti della cuentista messicana ho pensato spesso a Shirley Jackson, tra le maestre indiscusse dell’inquietudine, anche a fronte di una certa etichetta imposta a Dávila «risposta messicana ai racconti di Shirley Jackson»: seppur esistano punti di contatto ci sono però sostanziali differenze tra le due prose, a partire proprio dall’inquietudine che le attraversa e, questo sì, le accomuna. Nei racconti di Jackson l’orrore è nel cuore nero dell’essere umano: è la bambina che forse ha avvelato la sua famiglia, è la moglie che sogna – o forse lo fa davvero – di colpire a morte il marito, è una società tutta che autorizza un macabro rituale; l’orrore di Dávila invece, quando è umano si lega alla follia, alla malattia mentale – altro tema infuocato questo, che l’autrice tratta in diversi racconti – ma è soprattutto presenza sovrannaturale, oscura e intangibile. Anche la voce autoriale è profondamente diversa: la produzione di Jackson caratterizzata da una profonda polifonia e se è vero che quasi sempre la identifichiamo con le tendenza gotiche e l’orrore, è bene ricordare che la sua è una produzione letteraria variegata, spesso attraversata dall’ironia, costruita tra racconti, romanzi, sketch; la prosa di Dávila è saldamente legata al mistero, alla «narrativa dell’insolito, del fantastico», come sottolinea anche Alberto Chimal nella bella prefazione alla prima raccolta, che si declina in storie legate da un fil rouge perfettamente riconoscibile. C’è di certo in comune tra le due la tensione che corre lungo la pagina, l’orrore che sconvolge il quotidiano e una predilezione per l’ambiguità di fondo che resta sospesa, mai del tutto svelata.
E c’è, elemento essenziale, un equilibrio ideale tra racconto e storia sommersa: ciò che emerge sulla pagina (il racconto vero e proprio) è solo una minima parte di quello che resta sommerso, non detto e fino a un certo grado intuibile: uno spazio interpretativo che resterà tutto al lettore.