di Alfredo Zucchi
“L’inconscio funziona come una fabbrica e non come un teatro (problema di produzione, non di rappresentazione).”
(Deleuze-Guattari, prefazione all’edizione italiana di Mille piani)
Il genere aveva iniziato a deperire
La storia delle frizioni – degli adescamenti, erotici, agonistici e persino dialettici – tra documento e invenzione è forse la storia stessa della letteratura. Tra i numerosi cambi di paradigma che caratterizzano questa storia – che la rendono comprensibile e raccontabile attraverso il giudizio a posteriori, come solo è in grado di fare il discorso dimostrativo quando si spoglia di ogni orpello, si guarda allo specchio e dice a se stesso: «Io non posso fare che questo, ed è già tanto»[1] – ce n’è uno su cui posa lo sguardo Danilo Kiš: è la storia di Flaubert e della fine del romanzo realista.
È la storia della fine di un modello, della «forma della finzione caduta in disuso» (“Due variazioni su Flaubert” in Nuova Prosa 40, 2004, p. 22). Fino a Flaubert, dice Kiš, la letteratura rappresenta un insieme unitario, la totalità del mondo e dell’essere. Poi la caduta: “la letteratura ha perso la propria superiorità, la propria imparzialità, la propria integrità” (p.21). “Il mondo si era frantumato in mille pezzi” (p.21) e allora l’ossessione dello scrittore francese, l’angoscia dello stile è, per Kiš, un tentativo disperato di restituire la totalità proprio attraverso i cocci rotti, i frammenti.
Flaubert, scrive Kiš, identifica le cause alla base della crisi del genere realistico: narratore onnisciente e ritratto psicologico, “vale a dire la convenzioni letterarie più temibili e tenaci” (p.23), ma non riesce a superarle del tutto: si spinge, di fatto nell’esotico, proprio per liberare i propri personaggi dal determinismo psicologico in cui il lettore li avrebbe altrimenti incasellati, per comparazione con gli standard psicologici dell’epoca; c’è un accenno, dice Kiš, di trasformazione del narratore onnisciente in narratore inaffidabile. Se Flaubert fosse riuscito a superare quei due ostacoli, “la letteratura non avrebbe dovuto attendere un centinaio di anni prima che apparissero le Finzioni di Borges” (p.23).
E cosa sono le Finzioni di Borges? Diciamolo ora e togliamoci ogni sasso dalla scarpa: un libro, forse il primo, in cui la natura delle frizioni tra documento e invenzione diventa il tema stesso della narrazione. Questo tema, dice Borges, è la forma moderna della letteratura fantastica.
Questa non è la storia delle nostre emozioni.
La tradizione delle biografie fittizie – di cui fanno parte, tra gli altri prima di Borges, i Retratos reales e imaginarios di Reyes e le Vite immaginarie di Schwob – discende a sua volta dalla prosa enciclopedistica e dai ritratti biografici. Questa tradizione, per mezzo dello stratagemma delle false attribuzioni, trasforma l’erudizione e l’archivio – la volontà di verità, esattezza e universalità dell’enciclopedia – in vettori speculativi che spingono la narrazione fuori dal genere realistico, nel calderone astratto della letteratura fantastica. Lo scrittore argentino si inscrive in questa tradizione con la Storia universale dell’infamia, e si premura di spingerla ben oltre i propri confini con Finzioni.
La falsa attribuzione è un riferimento – operato con tutto il rigore che il caso impone – a un documento che non esiste se non nel dominio della finzione. Questo documento, in Borges, è quasi sempre un libro. Così operano gran parte dei racconti di Finzioni: un libro fittizio entra nel dominio del reale e se ne impossessa (è il caso de A First Encyclopaedia of Tlön, in “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”); o invece è un inganno nell’inganno: la Storia della setta degli Hasidim è l’esca con cui il gangster Red Scharlach si vendica del detective Erik Lönnrot.
In Borges, la frizione tra documento e invenzione si manifesta dunque attraverso la falsa attribuzione, ed è il tema stesso della narrazione. Così Borges supera e stravolge tanto il ritratto psicologico (il libro fittizio è decisamente più importante del soggetto che lo maneggia: “questa non è la storia delle mie emozioni: è invece la storia di Uqbar, di Tlön e dell’Orbis Tertius”, Ficciones, 2001, p.19) come il narratore onnisciente: non si dà, in Borges, narratore che non sia inaffidabile; l’inattendibilità, l’ambiguità sono la sua ragione d’essere; questa inattendibilità non dipende da specifici tratti psicologici: essa deriva dal tema della narrazione: il libro – il documento, il libro fittizio – è ben più importante del soggetto che lo maneggia – dell’uomo reale, cui non compete altro che l’interpretazione.
Il modo in cui Kiš si posiziona a sua volta nel solco tracciato da Borges è uno dei tre temi di questo articolo. Massimo Rizzante, nel saggio “Dell’ideale enciclopedico”, nota come “l’enciclopedismo di Kiš”, ovvero il suo ricorso allo stratagemma della falsa attribuzione e in generale alla tradizione borgesiana, sia “più un’arte della composizione che non un’arte della combinazione. In Kiš il gioco formale non diventa mai esercizio di stile sulle eventuali interpretazioni del mondo. […] Invece di un esercizio di stile su un tema le cui possibilità di interpretazione sono già inscritte in un codice – sia esso storico o retorico –, l’opera di Kiš è tutta una lunga e infinita variazione, una lunga e infinita esplorazione dell’uomo a partire dalle sue ossessioni, ossessioni nelle quali la frontiera tra storia personale e privata e storia pubblica e umana è cancellata per sempre” (Nuova Prosa 40, 2004, p.124).
Al netto del tentativo, da parte di Rizzante, di neutralizzare la portata politica dell’arte della combinazione, facendo di essa un innocuo “esercizio di stile”[2], ci sono nelle sue riflessioni degli spunti importanti. C’è, in effetti, una differenza, una variante, una novità che Kiš introduce in quello che Ricardo Piglia, nel ciclo di conferenze televisive “Borges por Piglia”, chiama metodo borgesiano. Questa differenza non ha tanto a che vedere con il procedimento, quanto con il suo oggetto: il documento che interagisce con la realtà, in Kiš, non è un libro: è la Storia stessa; una storia in cui, in effetti, i confini tra pubblico e privato sono scomparsi. Questa è la storia a cui Kiš continuamente allude:
“Io sono uno scrittore bastardo. Non vengo da nessun luogo.
Non sono uno scrittore ebreo come il maestro Singer. Gli ebrei, nei miei libri, non sono che letterarietà, straniamento, nel senso del Formalismo russo (ostranenie). Questo perché il mondo degli ebrei dell’Europa centrale è un mondo scomparso, un mondo di ieri, e come tale si trova nel campo di una realtà non-reale. Nel campo, quindi, della letteratura”
(Kiš, “L’ultimo bastione del buon senso”,
in Nuova Prosa 40, p.27).
Una realtà non-reale: si entra in una dimensione che sembra quella del sogno. Lo sembra poiché siamo stati forse abituati – male, molto male – a scindere sogno e realtà e a farne un’opposizione dualistica. Non sono queste le chiavi per leggere la faccenda come si deve: sforziamoci allora, per un momento, di omettere la realtà, e di considerare unicamente il trio che segue: archivio, sogno e finzione.
Da questo sogno non ci si risveglia che nella morte.
L’archivio, come nel racconto “Enciclopedia dei morti” (Kiš, Enciclopedia dei morti, 1988), è la Storia stessa: è tutta la storia che può essere rinvenuta, catalogata, inventariata, compresa e raccontata. Tuttavia il suo segno più intimo, la sua verità (la verità, in una finzione, esiste; in una finzione breve, è la vertigine che chiude il testo; vertigine presagita e annunciata fin dalle prime parole del testo stesso) non pertiene al mestiere e ai metodi dell’indagine storiografica: è la manifestazione di una correlazione inspiegabile, come in un sogno, eppure effettiva: così Dj. M., in “Enciclopedia dei morti”, dipinge motivi floreali a partire da un preciso momento della sua vita. Nelle ultime pagine che lo riguardano, nell’Enciclopedia, in quell’archivio che è l’enciclopedia, si trova un disegno di Dj. M, la raffigurazione di un “fiore strano”, la cui forma sembra “la rappresentazione schematica del mondo dei morti” (p.68). La forma di questo fiore strano, secondo il dottor Petrović, interpellato per l’occasione dalla narratrice del racconto e figlia di Dj. M., è proprio quella del sarcoma che si era formato negli intestini di Dj. M. “La sua [di Dj. M.] ossessione di dipingere temi floreali coincideva con la progressione del male” (p.69).
Il segno più intimo dell’archivio sembra venire da un sogno – di sicuro proviene da una realtà non-reale: questa realtà non-reale è il dominio della finzione, della letteratura. Le due figure – archivio e sogno – comunicano poiché partecipano degli stessi elementi costitutivi. Non è un caso allora che la dimensione onirica rivesta un ruolo così importante nell’opera di Kiš, come d’altra parte in quella di Borges: non come l’elemento oppositivo del dualismo sogno-realtà (assunto desueto, tenace e temibile come le figure del narratore onnisciente e del ritratto psicologico nel romanzo realista); al contrario: come un esempio e un modello rappresentativo; e ancora di più come un deposito e un archivio.
Tuttavia, se abbandoniamo la figura della realtà, e rinneghiamo il dualismo sogno-realtà, dobbiamo disfarci anche del sogno. La letteratura, la finzione, infatti, ha le proprie regole. Non si tratta allora di imitare la grammatica dei sogni, ma di attingere all’insieme di immagini ed eventi che l’attività onirica produce; di più: di assegnare a queste immagini la valenza del documento. D’altra parte, come in Borges il libro è più importante di chi lo maneggia, in Kiš il materiale archiviato conta di più di chi l’ha generato (prodotto o sognato):
“Era un sogno? Era il sogno di un sonnambulo, un sogno nel sogno, e perciò più reale di un semplice sogno, perché non verificabile in base alla coscienza, giacché da un sogno simile ci si sveglia di nuovo in un sogno? O era magari un sogno divino, il sogno dell’eternità e del tempo? Un sogno senza illusioni e senza dubbi, un sogno con una sua lingua e con i suoi sensi, un sogno non solo dell’anima ma anche del corpo, un sogno della coscienza e del corpo a un tempo, un sogno dai confini chiari e netti, con una sua lingua e una sua sonorità, un sogno che si può palpare, un sogno che si può verificare con il gusto, con l’olfatto e con l’udito; un sogno più forte della veglia, un sogno quale fanno forse solo i morti, un sogno che non si lascia smentire dal rasoio con cui ti tagli il mento, perché ti uscirà subito il sangue e tutto quello che fai non fa che confermare lo stato di veglia, nel sogno sanguina la pelle e sanguina il cuore, in esso si rallegra il corpo e si rallegra l’anima, in esso non ci sono altri miracoli all’infuori della vita; da quel sogno non ci si risveglia che nella morte”
(“La leggenda dei dormienti” in Enciclopedia dei morti, pp. 76-77).
Lo specchio dell’ignoto.
Come avviene allora la correlazione – apparentemente inspiegabile – tra i documenti (eventi e immagini) di un tale archivio?
Anche qui è Ricardo Piglia a fornirci la riposta adeguata: questa correlazione avviene “in modo molto semplice e diretto” (“El último cuento de Borges”, Formas breves, Anagrama, 2000, p.49).
Si tratta di spogliare la Storia – quella realtà non-reale – di ogni elemento privato; di spersonalizzare l’archivio – come un sogno oggettivo: puro deposito di immagini ed eventi –; di fare dell’uomo stesso una cavia per produrre immagini da archiviare; di ridurre le variabili e le forze in gioco ai loro tratti più essenziali e cominciare a scendere, a scavare. In questo movimento discendente verso l’essenziale sta il segreto della finzione, ci suggerisce Kiš – questo movimento diventa la forma stessa della finzione.
“La ragazzina accosta il piccolo specchio al viso, ma per un istante non vede niente.
Per un istante soltanto. […]
La ragazzina guarda nello specchio che ha accostato vicinissimo agli occhi quasi fosse miope […] Allora vede, subito dietro di sé, cioè dietro lo specchio – perché dietro di lei non c’è niente, non c’è nessuna strada – una fangosa strada di campagna su cui avanza un barroccino. Sul sedile anteriore è seduto suo padre […]”
(“Lo specchio dell’ignoto”, in Enciclopedia dei morti p. 98 e 105).
[1] È raro, senza dubbio, ma accade anche questo. Di fatto, è proprio quando accade questo che la Storia si muove, che l’orizzonte, cristallizzato per inerzia, si smuove. Va notato come in questo caso “bagno di realtà” ed “epifania” sembrano coincidere quasi perfettamente.
[2] “L’arte della combinazione” ha invece una natura eminentemente politica: sembra un gioco, in realtà ben altre cose sono in gioco. Scrive Ricardo Piglia: “qui entrano in gioco in modo diretto nella letteratura le relazioni sociali e alcune correnti della critica attuale vedono proprio nella parodia, nell’intertestualità, un trucco per separare la letteratura dai conflitti sociali: si tratterebbe di un mero gioco di testi che si autorappresentano, che si legano l’uno all’altro in modo speculare. Tuttavia, questa relazione tra i testi, che in apparenza è il culmine dell’autonomia della letteratura, è determinata in modo diretto e specifico dalle relazioni sociali. Nei suoi meccanismi segreti, la letteratura rappresenta le relazioni sociali, le quali a loro volta determinano l’insieme delle pratiche letterarie e le definiscono. Il fondamento per me è questo: la relazione con altri testi, con testi altrui, con la letteratura già scritta che funziona come condizione di produzione, si incrocia e si determina attraverso le relazioni di proprietà. In questo modo, lo scrittore affronta in modo diretto e specifico la contraddizione tra scrittura sociale e appropriazione privata, la quale si manifesta in modo eclatante nelle questioni suscitate da casi quali plagio, citazione, traduzione, parodia, pastiche, apocrifo. Come funzionano i modi di appropriazione in letteratura? Questa per me è la questione centrale” scrive Piglia in “Parodia y propriedad” (Crítica y ficción, 1986, pp. 42-43, i corsivi tutti nostri), e forse da questa prospettiva andrebbe pensata “l’arte della combinazione”: come un transfert totale della cosa politica in quella linguistico-letteraria. Per avvicinarsi al cuore del conflitto bisogna infatti scavare e discendere (verso le strutture elementari e microscopiche, fino a non trovare niente), non appianare e risalire.