Di Debora Lambruschini
Armonia. Cura artigiana. Vita. Sono le parole che più di tutte descrivono la scrittura di Richard Ford, un gigante della letteratura statunitense contemporanea, e che trovano forse maggior compimento nei suoi racconti. La precisione, la cura della parola, la cesellatura delle frasi, sono proprie della forma breve e Ford con la sua scrittura scarna e minuziosa crea sulla pagina storie di rara bellezza che si inseriscono nel solco di quella tradizione che l’ha preceduto e di cui egli stesso è diventato negli anni uno dei capisaldi. Leggo Ford da molto tempo e in occasione della recente pubblicazione di Scusate il disturbo (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani) ho iniziato a riflettere su quali siano le ragioni di tale incanto, quel patto fra me lettore e lui scrittore che non possono spiegarsi solo con considerazioni critiche sull’opera. Ciò che personalmente mi lega al mondo di Ford è il suo sguardo sul mondo e le persone, la straordinaria capacità di osservare dettagli all’apparenza insignificanti e lì dentro vedere la vita; di guardare le fragilità e le debolezze dell’uomo e mostrarle al lettore senza falsi moralismi; di fotografare un luogo, un ambiente, con assoluta precisione. E ora, con Scusate il disturbo – ma in fondo già con gli ultimi libri pubblicati – è la certezza che Ford sappia vivere e scrivere le età della vita, ogni volta nuova, ogni volta diversa, anche dove riappare il suo personaggio più celebre, Frank Bascombe. Un piccolo miracolo già questo, riuscire a non restare incastrato in un personaggio: la quadrilogia su Frank, di cui il secondo romanzo (Il giorno dell’Indipendenza) valse a Ford il PEN e il Pulitzer, ha accompagnato autore e lettori per diversi anni divenendo uno dei più importanti cicli letterari, ma intervallato dalla scrittura di altri romanzi e storie di pari valore in cui salda e ben riconoscibile la voce di Ford si presta ai cambi di narrazione, fino al racconto intimo e privato dei genitori (Tra loro) e della perdita dell’amato padre.
Continuando a indagare le personali ragioni che fanno di Ford uno dei miei autori contemporanei di riferimento c’è, quindi, il riconoscimento di uno sguardo sulle cose, la capacità di cogliere un certo tipo di dettagli, l’equilibrio della scrittura sempre misurata e straordinariamente resa dalla sua voce italiana, Vincenzo Mantovani, e un fil rouge che possiamo rintracciare in ogni narrazione. Ford è, infatti, uno scrittore molto fedele a se stesso che riesce tuttavia a non ripetersi, bensì ad aggiungere sfumature e sguardi nuovi sul mondo che ha scelto di ritrarre. La middle class nordamericana, la precarietà delle relazioni, le fragilità dell’uomo, i luoghi con cui le storie si intersecano; il velo della nostalgia e della perdita che molto spesso attraversa le pagine: sono i perni dell’universo fordiano, riconoscibili anche nelle dieci storie che compongono questa raccolta, ma in qualche modo sempre nuovi. Lo sguardo questa volta è tutto rivolto verso uomini di mezza età, appartenenti alla classe media – quando non molto agiata – e colti l’attimo dopo in cui qualcosa si è incrinato. Alle prese con divorzi, con il lutto, con la perdita, a fare i conti con il passato e le proprie scelte. Con le conseguenze, quindi, della vita. I piani temporali si alternano, mentre mutevoli sono anche i luoghi in cui le storie non sono semplicemente ambientate ma ne diventano parte, dal Maine al Canada, passando per New York, la Louisiana, fino all’Europa. E l’Irlanda, un sentimento e uno stato d’animo prima ancora che un luogo fisico. Dieci racconti di cui due hanno l’ampiezza – di sguardo ancor più che di spazio – della novella, perfettamente organizzati in una raccolta organica, dal piacevole stampo tradizionale. Mutano le situazioni, i protagonisti, i luoghi si diceva, ma l’impianto della raccolta è ben riconoscibile e anche per questo capace forse di avvicinare il lettore meno avvezzo alla forma breve.
A pervadere le storie un senso di profonda malinconia, la memoria che si fa nostalgia, la perdita di qualcuno molto amato e che segna uno spartiacque nella propria vita; è l’uomo che fa i conti con la propria caducità, con l’imperfezione degli affetti, con tutto ciò che viene dopo un certo punto di rottura.
Esiste un’infelicità così grande che la sola paura di provarla fa lega con la felicità.” Significava, si chiese, che la felicità non sarebbe mai più stata alla sua portata? Oppure, che col dolore come sua lega, la felicità sarebbe tornata più intensa di prima? Una lega. Due sentimenti che si combattono tra loro. Ecco quale sarebbe stata la sfida della sua perdita: imparare da questo.
(“Mantenere il controllo”)
È il confronto con il lutto, il dolore di chi resta che si intreccia a sentimenti complessi: la vedovanza complicata dal suicidio con cui la moglie ha deciso di mettere fine alla propria vita e alla malattia, in una casa che non è la propria ma quella scelta ogni anno per le vacanze, un gesto, questo, che in qualche modo voleva essere premuroso ma che in realtà non sembra aver sortito l’effetto immaginato. In una nuova casa, a un anno dalla scomparsa, l’uomo affronta il proprio dolore, la solitudine, il rapporto con il mondo e la mutevolezza delle persone. Il ricordo, il passato, si arpiona alla realtà presente ma è soprattutto la riflessione sul dolore, su come viene percepito all’esterno a rendere particolarmente interessante la storia.
Voleva farle capire che non era inconoscibile, ma solo una persona riservata, a molti strati, come aveva detto sua madre. Cosa c’era di male, in questo? Il dolore non doveva essere per forza più naturale per lui che per lei. Possibile che tutto dovesse succedere soltanto sulla superficie visibile?
(“Mantenere il controllo”)
Poche righe, uno squarcio. Un dolore che indaga anche il rapporto complesso con la figlia, che la perdita non ha mutato ma, al contrario, ha forse acuito le distanze, tanto con il padre quanto con la madre scomparsa. Il dolore non appiana le divergenze, non modifica il ricordo.
La vedovanza – o una forma simile di perdita – ritorna in altri racconti, un fantasma che ossessiona l’autore e gli permette di scrutare dentro il cuore di questi uomini, le loro paure, le miserie, le meschinità quotidiane, le molteplici forme del dolore, l’assenza. È la perdita improvvisa di una moglie amatissima e per il poco tempo che le è stato concesso, i desideri inespressi, la presenza fugace nel mondo. È un vecchio amante, da cui ci si è separati tanti anni prima e da cui tornare per un ultimo saluto, un viaggio che è inevitabilmente anche ripercorrere le scelte fatte, le attese, gli addii e tutta la vita che c’è stata in mezzo.
Il passato e le sue possibilità si insinuano in molte storie, talvolta con nostalgia, per qualcosa che è sfuggito e l’incontro casuale con una donna un tempo amata e poi lasciata andare fa riaffiorare il ricordo; un amore giovanile, un’avventura in Islanda, e ben presto sono già visibili le crepe nella loro relazione che immediatamente mutano l’immagine dell’altro:
Quel mattino avevano fatto l’amore, in un modo non proprio memorabile. Lei aveva cominciato a esprimersi con meno parole di quante fossero necessarie. Come se non ci fosse bisogno di dirsi granché, e questo fosse ovvio. Era, pensò lui, pretenziosa e infatuata di se stessa. Partire era una buona idea. Avrebbe perso quello che si poteva perdere. In quella luce cruda il viso di lei mostrava una grossolanità che lui non aveva notato, ma che – supponeva – avrebbe finito per detestare.
(“Niente da dichiarare”)
È il cuore degli uomini il vero centro nevralgico di queste storie, di cui Ford ci mostra mutevolezza, sentimenti, ambiguità. L’occhio dell’autore indaga con lucida perspicacia ciò che accade dopo un lutto, dopo la fine di una relazione e che si rivela mediante dettagli solo all’apparenza insignificanti, momenti minimi eppure densi di senso. Quei dettagli su cui si intreccia la scrittura sempre misurata, scarna, curatissima, di Ford.
E capace di creare la vita, ancora una volta, sulla pagina.
La vita era questo e solo questo. Una superficie. Era questo che potevi star certo che fosse. Che andava benissimo, perché in realtà non ci aveva mai pensato come a qualcosa di molto diverso, anche se si era sforzata di usare altre parole. “Qualcosa di solido”, ad esempio.
(“Seconda lingua”)