di Debora Lambruschini
Mio padre si tolse il grembiule e posò il forchettone accanto alla griglia. Lo sguardo fisso sulle braci, la faccia inespressiva. Non c’era rabbia, solo una vecchia angoscia che sembrava ritornargli addosso come se lui sapesse che quei brevi intervalli di felicità non erano altro che maschere del suo vero destino.
(“Un gruppetto di amici”, p. 68)
«Brevi intervalli di felicità»: nelle storie di Sam Shepard non c’è spazio per la consolazione. Attore, commediografo, scrittore premio Pulitzer (nel 1979, per “Il bambino sepolto”), Shepard è il cantore dell’America di frontiera, brutale e desolata, che si illumina di squarci di bellezza inaspettata; di uomini e solitudini, sogni infranti e un destino già scritto a cui sembra impossibile opporsi. Sospeso nel tempo, è immutato il fascino della frontiera, del West: una provincia malinconica, dove ogni cosa è avvolta dalla polvere del deserto, gli spazi sono sconfinati e tutto porta su di sé tracce di abbandono e decadenza, che sia un diner in mezzo al nulla o una pompa di benzina in pieno deserto. Attraverso il paradiso, quaranta storie di spietato realismo, è un tassello importante nella ricostruzione bibliografica dell’autore e prosegue l’opera di riscoperta e traduzione di Shepard da parte de Il Saggiatore, dopo “Il grande sogno” e “Hotel Chronicles”. Sono storie crude e dense di malinconia, minimaliste, in cui si avverte il gioco autobiografico dell’autore: il confine si fa labile, la narrazione avvince il lettore e la parola sempre misurata, scarna, inchioda alla pagina, insinuandosi sotto pelle, attraverso un lavoro di sottrazione reso abilmente dalla traduzione di Andrea Buzzi. Non c’è spazio per la consolazione, si diceva, la malinconia il fil rouge che lega le storie. Si avverte nei racconti di Shepard, nella sua sensibilità letteraria, l’eco dell’umanità dolente di Denis Johnson, un comune interesse per quelle vite ai margini, antieroi alle prese con la dipendenza dall’alcol, la solitudine, la sconfitta. Il West di Shepard appare sospeso nel tempo nonostante non manchino i riferimenti temporali, lontanissimo dall’epopea e dalla grandiosità della sua leggenda: sono i titoli di coda di quel mito, ogni cosa ricoperta di ruggine e polvere. L’ambientazione che non può essere semplice sfondo, ma protagonista alla pari – e forse anche più – di quegli uomini che tentano disperatamente di sopravvivervi. Allevatori, mezzosangue, ragazzini mandati a imparare un mestiere, mandriani, eccentrici attori: un’umanità che non può esistere altrove, non in questa forma, respira la polvere e abitua lo sguardo agli spazi sconfinati; le mani rese ruvide dal lavoro incessante, le lunghe distanze da percorrere a cavallo o su macchine scassate, da una desolazione a un’altra. Come da miglior tradizione, è nei silenzi, in quegli spazi vuoti della narrazione, che si compie il miracolo del racconto. Se la frontiera è il cuore pulsante della raccolta, è nelle descrizioni dell’ambiente che la scrittura si apre a un lirismo inaspettato, tanto nella fugacità di un attimo di bellezza e meraviglia, quanto nella desolazione di un luogo:
Era una di quelle mattine in cui la California settentrionale mostra davvero il suo volto paradisiaco. Non c’è schifezza umana che possa impedire di vederlo. Candidi aironi che planano sulle paludi. Falchi appollaiati sui pali di cinta, che osservano il traffico. Holstein che pascolano nella lussureggiante erba verde smeraldo. (“Pellicina”, p. 92)
Ma è solo un istante, prima di avvertire di nuovo quel «nodo di dolore che non riusciva a trovare uno sfogo», l’angoscia di fronte a un destino ineluttabile.
Non tutti questi quaranta racconti hanno la stessa forza, non tutti resteranno memorabili. Eppure, la struggente malinconia e bellezza di alcuni è sufficiente a raggiungere vette narrative di rara efficacia.
“La natura alla natura”, è il ritratto di una stagione, un’età, in cui iniziano a delinearsi le vite che saranno, ma ancora per un attimo sospesi in quei giochi tra ragazzi, i battibecchi, i sogni ingenui, l’avventura. Anche qui, tuttavia, lo strappo è inevitabile ed ecco che un cancello chiuso alle proprie spalle sembra assumere un più profondo significato, in una scena di così chiara impronta cinematografica da fissarsi nella memoria come se davvero fosse il fotogramma di un film visto molto tempo prima.
Ancora dei ragazzini, in “Attraverso il paradiso”, che dà il titolo alla raccolta e in cui ritroviamo uno dei temi ricorrenti nella narrazione, la perdita e il rapporto padre figlio:
Il padre di Crewlaw era morto bruciato nel letto di un motel. La storia era questa.
Nient’altro che questo con cui far partire il racconto. Non è importante scandagliare le ragioni per cui il padre si trovasse in un motel, il fallimento di quella vita, l’alcol. Resta l’avventura, lo sfregio della morte, del vuoto con cui dover fare i conti. L’esplosione, non soltanto metaforica.
Di padri e figli, di mancanze e assenze, è impregnata tutta la raccolta, specie nelle sue pagine migliori: la mancanza di un padre che non si è mai conosciuto o perennemente distante, una distanza che è prima di tutto emotiva, incolmabile, con cui nemmeno da adulti si potrà venire a patti:
A Price sembrò di avere di nuovo nove anni. Aveva paura che gli scappasse un altro grido, senza nessuna ragione, o di sprofondare in quella orribile ferita che si portava dentro per non aver mai avuto un padre. (“Polvere”, p. 156)
È uno squarcio in un racconto che sembra parlarci di tutt’altro, ma alla fine è a quelle poche parole, brutali e assolute, che torneremo e anche in questo sta, a mio avviso, la grandezza di Shepard. Scava sotto pelle, ci costringe a guardare ragazzini già irrimediabilmente perduti, uomini soli, compagni manchevoli. Pochi personaggi femminili in un mondo che sembra popolato quasi solo di uomini, eppure quelle donne che vi compaiono colpiscono per la forza del personaggio: una forza fisica, carnale, magnificamente impersonata dalla giovane a cavallo di “Polvere”, quasi selvaggia, con «i suoi occhi violenti, splendidi», o la moglie in fuga di “A ciel sereno”, che lascia il marito e la vita fino a quel punto vissuta, perfino il proprio nome.
Nell’ultima parte della raccolta, il gioco meta letterario si fa ancora più importante e distinguere l’invenzione dall’episodio autobiografico è impresa ardua, per quell’io narrante in prima persona che indossa le vesti dell’attore e che inevitabilmente ricolleghiamo a Shepard stesso. Poco importa a mio parere scandagliare i racconti a caccia di spunti autobiografici e se qualcosa la scrittura e tanti anni di lettura ci insegna è che in ogni narrazione c’è un pezzo di noi e, allo stesso tempo, ogni cosa è finzione. Quello che conta, quello che resta, è il personaggio ideale chiamato a chiudere questa raccolta: non poteva essere che un attore, eccentrico e malconcio, a farci prendere congedo da quelle strade polverose, dal rumore di uno sparo, dall’odore dell’alcol e del sudore. Dopo, solo i titoli di coda.