di Roberto Galofaro
Hacca Edizioni pubblica la raccolta di racconti Gli effetti invisibili del nuoto di Alessandro Capponi, uscito nel Settembre del 2020. L’autore, nato nel 1970, non è propriamente un esordiente, avendo all’attivo già un romanzo (L’amore dei nudi, Salerno editore, 2007) e il resoconto narrativo su Valerio Verbano scritto a partire dai ricordi della madre Carla (Sia folgorante la fine, Rizzoli, 2009). Alla prova con la forma breve sceglie di raccontare fragilità e drammi sentimentali legati da un sottile filo rosso: la pratica del nuoto. Approcciando il libro viene da chiedersi se e quanto possano essere stati d’ispirazione l’inarrivabile pathos del celebre Nuotatore di Cheever o la densità di sguardo della assai meno nota Nuotatrice di Alessandra Sarchi.
L’assunto è dichiarato nel primo dei racconti, Il giorno in cui il signor Alfredo capovolse il mondo:
«La meraviglia della piscina è tutta in una specie di leggenda che alcuni istruttori amavano raccontare, probabilmente dopo averla inventata: ogni uomo che vi nuoti, che lo faccia ogni giorno o non lo faccia da secoli, si trasforma in un altro animale. Così ci sono rane e delfini, certo, e balene, naturalmente, e ci sono cani e perfino insetti, perfino serpi e topi.»
E così è dichiarato anche l’altro filo conduttore della raccolta, ovvero la parentela stretta tra uomini e animali. Quello che lega un uomo o una donna al proprio soprannome è però un’esteriorità cucita addosso dai giudizi altrui, che ha sì la forza di cristallizarsi diventando un destino ma che, tutto sommato, conserva qualcosa di infantile e ingenuo (così quando l’identificazione è dichiarata senza mezzi termini, come nell’incipit di Il topo: «Sia chiaro, era vero che quell’uomo somigliava a un topo: ma soprattutto lo era»). L’accostamento non discende da un’osservazione naturalistica, non da un’idea di mimesi dei regni animali contigui all’umano, più spesso è ricavato da un modo di dire: così nel caso del gambero che nuota al contrario o del pesce all’amo, o della tartaruga senza guscio.
L’animale, insomma, non è interrogato in questi racconti come vicario del sacro e del selvaggio, non è un dio incarnato, né l’alterità atavica che è mossa dagli istinti, è né più né meno un come se: una metafora urbana, nata in un contesto quotidiano e umanissimo.
Così accade nell’incedere goffo di un animale marino imperfetto quale è il tricheco, nella lentezza metodica rivelata dalla scia di una lumaca, nella furtiva impostura del topo. Questa precisa riduzione della metafora animale è indirizzata da Capponi nella ricerca quasi di una favola senza mistica, compiaciuta di piccole cose: una bracciata dall’ampiezza contenuta.
Capponi indugia sugli effetti del nuoto sul corpo (per esempio, alla fine dell’allenamento, ci si sente «la spina dorsale d’acciaio, i capelli ancora umidi rivolti al sole, la pelle profumata, i muscoli schiusi»), si lascia andare a dettagli precisi sull’esercizio del nuoto. Ma quel che ci racconta sono principi di cambiamento, il colpo di reni che dà slancio a un’emersione; l’abbandono di un’abitudine o dell’abitudine cicatrizzata per l’inizio di una vita nuova. È come se in ultimo la sua attenzione fosse tutta per il movimento che porta un’esistenza a virare, cambiare indirizzo e direzione. Le epifanie avvengono come ultime volte e prime volte. Uscite di scena ed esordi. La meschinità che si ritira, la magnanimità che prende il largo.
Se i corpi hanno definizioni precise («il seno, generoso per quanto nascosto da maglioni e felpe ben più abbondanti della sua taglia…»; «aveva perso l’esplosività dei muscoli e trovato morbidezze»), i gesti avvengono in un’aria di incertezza, come impressioni o vibrazioni la cui percezione ambigua aleggia nel dubbio di chi osserva («un’impressione o poco più»; «Alfredo stava piangendo, forse, prima ne era stata sicura ora non più»; «credevo dormisse, e sorridente, e sorrideva davvero»; «nel suo sguardo cominciavano ad essere visibili tracce di fastidio, forse anche di dubbio e di preoccupazione»).
Tutte le piscine sono “piccole” (è forse una sola quella raccontata, visto il ricorrere dell’istruttrice Barbara in più di un racconto, ciò che lega ancora più stretto il nodo della raccolta), perché gli uomini sono pesci d’acqua dolce, abituati a piccole pozze profumate di cloro; prendere il largo è pericoloso: nei fiumi e nel mare i personaggi rischiano il naufragio.
C’è la giornata attraversata a nuoto da una donna di trentasette anni (soprannominata la lumaca all’epoca del liceo perché molto lenta in vasca), che prende a muoversi nuotando da un luogo all’altro della sua vita: l’ufficio, la scuola della figlia, le stanze della casa che divide con il marito, lasciando interdetti e meravigliati gli altri-spettatori. C’è il ragazzo infelice che si ritrova a nuotare sulla Prenestina allagata come una tartaruga miracolosamente uscita dal guscio. C’è il malato che in piedi dinanzi al letto d’ospedale, il filo della flebo attaccato al braccio, si muove simulando un crawl nell’aria, sognando di poter tornare in piscina una volta guarito.
Se la lingua di Capponi scorre senza sussulti, attestandosi su un piano di empatia immediata con i propri personaggi, può forse migliorare la scansione degli eventi. Non aiuta l’indeterminatezza di certi riferimenti temporali: «In quei giorni l’istruttore di nuoto Germano stava preparando una gara di body building: non era certo la sua passione ma […] si convinse di poter trovare nei muscoli una risposta alla crisi di quei tempi.»; «Tra i due, negli anni, c’erano stati momenti di incolmabile distanza e altri di simbiosi […] Non era facile capirsi, non sempre almeno, non in quei giorni sicuramente. […] In quegli anni padre e figlia vivevano […]».
L’andamento dei racconti vorrebbe essere mimetico del lento modificarsi delle intenzioni e delle emozioni che porta i personaggi alla rottura o alla catarsi finale. È però una linea di confine molto netta, con pochi chiaroscuri: di qua il passato, l’errore, il dolore, di là la rinascita, il futuro, la consapevolezza. Il cimento che aspetta Capponi è forse proprio questo: cominciare a lasciare qualche porta socchiusa e ombreggiare le “finestre” dei suoi racconti, ché non sembrino spalancate.