Victorio Ferri racconta una storia, di Sergio Pitol

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Il 22 Febbraio 2018 gran vía porterà in libreria, tradotto da Stefania Marinoni La pantera e altri racconti, del messicano Sergio Pitol, uno dei grandi classici viventi e maestro indiscusso della letteratura latinoamericana.
Pubblichiamo uno dei racconti della raccolta, con un piccolo estratto dalla prefazione di Enrique Vila-Matas.

 

Dalla prefazione

Hai messo in moto la follia
di Enrique Vila-Matas

 

9 agosto

«Mi dica, come definirebbe lo stile del Pitol scrittore di racconti?» mi ha chiesto Raquel Garzón il giorno in cui mi ha telefonato a casa. Ho risposto con un’altra domanda: «Ha letto Notturno di Bukhara, uno dei racconti più belli e perfetti che siano mai stati scritti?» Le ho spiegato che, terminata la lettura di Notturno di Bukhara, sono rimasto per un bel po’ a chiedermi se fossi arrivato alla fine e questo mi ha spinto a rileggere il racconto più volte finché ho capito che quell’insieme di frammenti o dettagli di cui è composto aveva paradossalmente trasformato il racconto in una storia chiusa, completamente sigillata se non per un mistero che ho capito di non poter mai risolvere.
«Ci sono racconti in cui Pitol sembra raccontare tutto» mi ha fatto notare Raquel Garzón. «Racconta tutto e lascia un mistero da risolvere, che è un altro modo di raccontare tutto. Lo stile di Pitol consiste nel rifuggire da quelle persone orribili che sono piene di certezze. Il suo stile consiste nel distorcere ciò che vede. Il suo stile consiste nel viaggiare, perdere Paesi e in essi smarrire sempre una o due paia di occhiali, perderli tutti. Lo sa che Sergio perde sempre gli occhiali? Forse per questo Juan Villoro ha scritto che la narrazione di Pitol non vuole chiarire ma distorcere ciò che vede».
«Capisco, credo di capire. O chissà, forse non capisco niente».
«Magari non c’è niente da capire, solo questo motto che sembra accompagnare sempre il maestro: ‘Perdere gli occhiali e perdere i Paesi, perdere tutto. Non avere niente ed essere sempre uno straniero’».  «Cosa intende con distorcere?» ha domandato Raquel Garzón prima di riattaccare.
«Telefoni a Juan Villoro» ho risposto per rendere tutto ancora più ingarbugliato. Juan Villoro? Quando ha riattaccato ho pensato, o meglio mi sono ricordato, che Pitol lascia sempre i personaggi a briglia sciolta, liberi di crearsi un proprio mistero. Ho avuto la sensazione di essermi appena preso quella libertà.

 

Victorio Ferri racconta una storia

So che mi chiamo Victorio. So che mi credono pazzo (convinzione la cui insensatezza a volte mi fa infuriare, altre semplicemente mi diverte). So che sono diverso dagli altri, ma anche mio padre, mia sorella, mio cugino José e persino Jesusa sono diversi, e nessuno pensa che siano pazzi: cose peggiori si dicono di loro. So che non assomigliamo per nulla al resto della gente e che nemmeno tra noi esiste la minima somiglianza. Ho sentito dire che mio padre è il demonio e anche se finora non sono mai riuscito a scorgere un segno che lo identifichi come tale, la mia convinzione che sia chi davvero è risulta ormai inscalfibile. Sebbene in qualche occasione mi riempia di orgoglio, in genere non mi piace né mi intimorisce far parte della progenie del maligno. Quando un contadino si azzarda a parlare della mia famiglia, dice che casa nostra è l’inferno. Prima di sentire questa affermazione immaginavo che la dimora dei diavoli fosse diversa (pensavo, ovviamente, alle classiche fiamme), ma ho cambiato idea e ho dato credito a quelle parole quando dopo un arduo e doloroso meditare mi sono reso conto che nessuna casa di mia conoscenza è simile alla nostra. In quelle non abita il male, in questa sì. La perversità di mio padre è così vasta da sfiancarmi; vedo il piacere nei suoi occhi quando ordina la segregazione di qualche contadino nelle stanze in fondo alla casa. Mentre li fa picchiare e osserva il sangue sgorgare da quelle schiene lacerate mostra i denti in un’espressione di gioia. È l’unico nella fattoria che sa ridere così, ma io sto imparando. La mia risata sta diventando così tremenda che le donne nel sentirla si fanno il segno della croce. Quando la soddisfazione ci invade, mostriamo i denti ed emettiamo una sorta di nitrito compiaciuto. Nessun contadino, nemmeno in preda ai fumi dell’alcol, si azzarda a ridere come noi. La gioia, se ancora ricordano cosa sia, crea sui loro volti una smorfia che non osa trasformarsi in sorriso. La paura ha invaso le nostre proprietà. Mio padre ha proseguito il lavoro di suo padre e, quando a sua volta lui non ci sarà più, sarò io il signore della tenuta, e diventerò il diavolo: sarò la Frusta, il Fuoco e il Castigo. Obbligherò mio cugino José ad accettare il corrispondente della sua parte in denaro e, dato che preferisce la vita urbana, potrà andarsene in quella Città del Messico di cui tanto parla, che Dio solo sa se esiste o se la inventa per farci invidia; io rimarrò con le terre, le proprietà e gli uomini, con il fiume in cui mio padre ha affogato suo fratello Jacobo, e, per mia disgrazia, con questo cielo che ci sovrasta ogni giorno, con il suo colore cangiante, con nuvole che esistono solo un istante per poi trasformarsi in altre, che a loro volta saranno altre ancora. Cerco di alzare lo sguardo il meno possibile perché mi terrorizza sapere che le cose non sono sempre identiche, che mi sfuggono vertiginosamente davanti agli occhi. In compenso Carolina, per infastidirmi, nonostante il rispetto che mi deve in quanto fratello maggiore, passa lunghi momenti a contemplare il cielo e di sera, a cena, racconta, accompagnata da uno sguardo stupido che non raggiunge mai l’estasi, che al tramonto le nuvole avevano un color oro su sfondo lilla, o che al crepuscolo il colore dell’acqua soccombeva a quello del fuoco, o altre idiozie simili. Se c’è qualcuno davvero posseduto dalla demenza in casa nostra, quella è lei. Mio padre, compiacente, finge un’eccessiva attenzione e la invita a continuare, come se le stupidaggini che ascolta potessero avere minimamente senso per lui! Con me a cena non parla mai, ma sarei sciocco a offendermi visto che d’altra parte solo a me concede di godere della sua intimità ogni mattina, all’alba, quando io torno a casa e lui, con in mano una tazza di caffè che beve frettolosamente, si prepara a lanciarsi nei campi per ubriacarsi di sole e abbruttirsi con i lavori più duri. Perché il diavolo (sebbene non me ne spieghi il motivo) è assillato dalla necessità di dimenticare i propri crimini. Sono sicuro che se affogassi Caterina nel fiume non proverei il minimo rimorso. Forse un giorno, quando potrò liberarmi di queste lenzuola sporche che nessuno, da quando mi sono ammalato, è venuto a cambiare, lo farò. Allora potrò sentirmi nella pelle di mio padre, capire cosa si prova anche se, disgraziatamente, incomprensibilmente, tra noi ci sarà sempre una differenza: lui amava suo fratello più della palma che ha piantato davanti al portico e della cavalla alsaziana e della puledrina che questa ha partorito, mentre per me Carolina è solo un peso morto e una presenza nauseabonda. In questi giorni la malattia mi ha portato a squarciare più di un velo fino a oggi intatto. Nonostante dorma da sempre in questa stanza, posso dire che solo ora essa mi svela i suoi segreti. Non avevo mai notato, per esempio, che sono dieci le travi che corrono sul soffitto, né che sulla parete di fronte alla quale giaccio ci sono due grandi macchie di umidità, o che, e questa scoperta mi è intollerabile, sotto il pesante comò di mogano si annida una gran progenie di topi. Il desiderio di acchiapparli e sentire sulle labbra il battito della loro agonia mi attanaglia. Ma tale piacere mi è per il momento precluso. Non si creda che la molteplicità di queste scoperte fatte giorno dopo giorno mi consenta di sopportare la malattia, nient’affatto! La nostalgia, sempre più forte, delle scorribande notturne è costante. A volte mi chiedo se qualcuno mi stia sostituendo, se qualcuno di cui ignoro il nome usurpi le mie funzioni. Tale repentina inquietudine svanisce sul nascere, mi rallegra pensare che nessun altro nella fattoria potrebbe soddisfare i requisiti che un compito tanto delicato e laborioso richiede. Solo io che sono conosciuto dai cani, dai cavalli, dagli animali domestici posso avvicinarmi alle baracche e ascoltare ciò che mormora la servitù senza suscitare il latrato, il canto o il nitrito con cui quegli animali denuncerebbero chiunque altro. Il mio primo servizio lo feci senza rendermene conto. Scoprii che dietro la casa di Lupe c’era la tana di un topo. Steso a terra, assorto nella contemplazione del buco, trascorsi varie ore in attesa che l’animaletto apparisse. Mi toccò vedere, mio malgrado, il sole scendere un’altra volta e al suo sparire fui vinto da un profondo torpore contro il quale ogni resistenza fu vana. Quando mi svegliai, era calata la notte. Dentro la baracca si udiva il tenue mormorio di voci svelte e furtive. Appoggiai l’orecchio contro una fessura e fu allora che per la prima volta mi resi conto delle dicerie che circolavano sulla mia famiglia. Quando riportai la conversazione, il mio servizio fu premiato. Ebbi l’impressione che mio padre si sentisse lusingato nello scoprire che io, contro ogni aspettativa, potevo rivelarmi utile. Ne fui felice perché da quel momento acquisii una superiorità innegabile su Carolina. Sono passati già tre anni da quando mio padre ordinò il castigo di Lupe per maldicenze. Il tempo mi sta rendendo un uomo e, grazie al mio lavoro, ho accumulato capacità che sebbene innate non cessano di sembrarmi prodigiose: ho imparato a vedere nella notte più fitta, il mio udito è diventato fine come quello di una nutria, cammino così silenziosamente, così, potremmo dire, alatamente da far invidia a uno scoiattolo, posso stendermi sui tetti delle capanne e rimanerci per molto tempo finché non ascolto le frasi che più tardi la mia bocca ripeterà. Ho imparato a fiutare ciò di cui parleranno. Posso dire, con superbia, che le mie notti raramente si rivelano inutili perché dai loro sguardi, dal modo in cui la bocca si contrae, da un certo fremito dei muscoli, dall’odore emanato dai loro corpi, riconosco coloro che, spinti da un’ultima vergogna o da un residuo di dignità, di rancore, di sconforto, la notte si abbandoneranno a confidenze, confessioni, mormorii. In questi tre anni sono riuscito a non farmi mai scoprire, lasciando attribuire a poteri satanici la capacità di mio padre di conoscere le loro parole e punirle nel modo dovuto. Nella loro ingenuità credono che sia una delle facoltà del demonio. Io me la rido. La mia convinzione che lui sia il diavolo ha ragioni ben più profonde. Talvolta, solo per divertimento, spio la baracca di Jesusa. Ho potuto contemplare il suo corpicino sodo che s’intreccia alla vecchiaia di mio padre. L’impudicizia delle loro contorsioni mi frastorna. Mi dico, nel mio profondo intimo, che la tenerezza di Jesusa dovrebbe essere rivolta a me, che sono suo coetaneo, e non al maligno, che da tempo ha passato i settanta. Il dottore è venuto più volte. Mi esamina con presuntuosa preoccupazione. Si rivolge a mio padre e con voce grave e misericordiosa sentenzia che non c’è speranza, che non vale la pena di tentare una cura e che bisogna solo aspettare con pazienza l’arrivo della morte. In quei momenti osservo il verde negli occhi di mio padre diventare più chiaro. Uno sguardo di esultanza (di scherno) compare in essi e a quel punto non riesco a trattenere una fragorosa risata che fa impallidire il medico di incomprensione e paura. Quando infine se ne va, anche il sinistro scoppia a ridere, mi dà una pacca sulla spalla e sogghigniamo insieme fino alle lacrime. Si sa che tra le molte sventure che possono colpire un uomo, le peggiori provengono dalla solitudine. Sento che questa cerca di abbattermi, distruggermi, insinuarsi nei miei pensieri. Fino a un mese fa ero completamente felice. Le mattine le dedicavo al sonno, di pomeriggio scorrazzavo nei campi, andavo al fiume o mi sdraiavo bocconi sull’erba, aspettando il passare delle ore. Di notte ascoltavo. Pensare mi era doloroso ed evitavo di farlo. Ora frequente sono preda di incertezze e ciò mi terrorizza. E questo sebbene sappia che non morirò, che il medico sbaglia, che nel Refugio c’è sempre bisogno di un uomo, perché quando il padre muore il figlio deve prendere il comando: è sempre stato così e le cose non possono andare in modo diverso (per questo io e mio padre, quando si afferma il contrario, scoppiamo a ridere). Ma quando solo, triste, al termine di un lungo giorno comincio a pensare, i dubbi mi attanagliano. Ho constatato che niente accade fatalmente in un unico modo. Nella ripetizione dei fatti più banali si producono varianti, eccezioni, sfumature. Perché, dunque, la tenuta non potrebbe rimanere senza il figlio che sostituisce il padrone? Un’inquietudine maggiore si è impressa nella mia mente negli ultimi giorni, l’idea che forse mio padre creda che morirò e che la sua risata non sia, come supposto, di scherno verso il dottore bensì di esultanza al pensiero della mia scomparsa, di gioia per potersi finalmente liberare della mia voce e della mia presenza. È possibile che chi mi odia lo abbia convinto che io sia pazzo… Nella cappella che i Ferri possiedono nella chiesa parrocchiale di San Rafael c’è una piccola lapide dove si legge: Victorio Ferri morto bambino il padre e la sorella lo ricordano con affetto.

Città del Messico, 1957

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