Il martire, un racconto di Katherine Anne Porter

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Bompiani riunisce l'opera degli scritti brevi di Katherine Anne Porter, vincitrice nel 1966 del National Book Award e Premio Pulitzer, con il libro Lo specchio incrinato.
Pubblichiamo uno dei racconti della raccolta per gentile concessione dell'editore.

 

Il martire
tradotto da Giovanna Granato

Rubén, il più illustre pittore messicano, era pazzo d’amore per la sua modella Isabel che, da parte sua, aveva un legame romantico con un artista rivale il cui nome poco importa. Isabel chiamava Rubén il suo piccolo “Churro”, che è una specie di dolcetto, oltre a essere un nome molto diffuso tra i cagnolini messicani. Rubén lo trovava un nome delizioso e diceva a chi andava a trovarlo in studio: “E adesso mi chiama ‘Churro’! Ah! Ah!” Quando rideva gli ballava il panciotto perché stava ingrassando. Allora Isabel, che era alta e magra, con le dita lunghe e affusolate, ficcava le mani dentro un mazzo di fiori che Rubén le aveva regalato e spargeva tutti i petali, oppure urlava: “Sì, come no!” in tono di scherno, e gli sporcava di pittura la punta del naso. L’avevano anche vista tirargli i capelli e le orecchie senza pietà. Quando le persone per bene che si recavano in pellegrinaggio percorrevano la stradina di acciottolato, attraversavano il patio facendo attenzione alle pozzanghere e arrancavano su per le scale traballanti per dare uno sguardo a quel personaggio così grande eppure così alla mano, lei gridava: “Ecco che arrivano le belle pecorelle!” E si godeva il loro sguardo meravigliato di fronte a tanta audacia. Si annoiava spesso, perché certe volte passava tutto il santo giorno in piedi a farsi e disfarsi le trecce mentre Rubén la ritraeva, e dimenticavano di mangiare fino alle ore beate; ma non sapeva dove altro andare finché il suo amante, il rivale di Rubén, non avesse venduto un quadro, perché a detta di tutti Rubén avrebbe sparato a vista all’uomo che avesse tentato di rubargli Isabel. Perciò Isabel restava, e Rubén le fece ben diciotto disegni per il suo murale, e Isabel ogni tanto cucinava per lui, litigava con lui e tirava fuori la lunga lingua rossa davanti ai visitatori che non le andavano a genio. Rubén l’adorava. Stava giusto cominciando il diciannovesimo disegno di Isabel quando il suo rivale vendette un quadro enorme a un riccone a cui l’arredatore aveva suggerito di appendere un pannello verde e arancio su una certa parete della nuova casa. Per una felice coincidenza, il suddetto quadro era guarda caso proprio verde e arancio. Il riccone lo pagò una fortuna ma, spiegò, ne fu ben contento perché tappezzare quello spazio gli sarebbe costato sei volte tanto. Fu contento anche il rivale, anche se si astenne dallo spiegare il perché. Il giorno dopo lui e Isabel andarono in Costa Rica, e per quanto ci riguarda la loro storia finisce qui. Rubén lesse il biglietto d’addio:

Povero il mio vecchio Churro! Peccato che la tua vita è così noiosa e io non riesco più a viverla. Me ne vado con uno che non mi permetterà mai di cucinare per lui e che invece farà un murale dove io comparirò cinquanta volte anziché soltanto venti. Avrò anche le ciabattine rosse e una vita allegra per la gioia del mio cuore.

La tua vecchia amica, Isabel

Quando Rubén lesse quelle parole si sentì come uno che annega. Gli mancò il respiro e agitò a lungo le braccia. Poi scolò una grossa bottiglia di tequila, senza limone né sale a stemperarla, si stese in terra con la testa dentro una tavolozza di colori appena mischiati e sbottò in un pianto dirotto. Ne uscì completamente cambiato. Apriva la bocca solo per parlare di Isabel, del suo viso angelico, dei suoi modi simpatici e dei suoi scherzetti: “Mi prendeva a calci negli stinchi coprendomi di lividi,” diceva in tono affettuoso, e gli occhi si riempivano di lacrime. Sbocconcellava di continuo dolcetti croccanti attinti da una busta vicino al cavalletto. “Capito?” diceva, sollevandone uno prima di prenderne a sazietà, “mi chiamava ‘Churro’ come questo!” Gli amici furono tutti contenti di veder sparire Isabel e dissero fra loro che era stato fortunato a perdere quella diavolessa pelle e ossa. Decisero di aiutarlo a dimenticare. Ma non c’era verso di distrarlo. “Un’altra così non esiste,” diceva, scuotendo caparbiamente la testa. “Andandosene si è portata via la mia vita. Non ho nemmeno l’animo di vendicarmi.” Poi aggiungeva: “Ve lo dico io, quel povero angioletto della mia Isabel è un’assassina perché mi ha spezzato il cuore.” Ogni tanto si aggirava nervosamente per lo studio, calciando con le pantofole di feltro l’accozzaglia di disegni impilati a raccogliere polvere, oppure macinava per qualche minuto i colori, dicendo con voce afflitta: “Prima tutto questo me lo faceva lei. Quant’era buona!” Ma poi tornava sempre alla finestra, a mangiare dolci, frutta e torte di mandorle. Quando gli amici lo portavano fuori a cena, lui se ne stava in silenzio a mangiare piatti enormi di qualsiasi cosa, innaffiandoli con il vino dolce. Poi attaccava a piangere, e parlava di Isabel. Gli amici concordarono che stava rimbecillendo. Isabel era andata via da quasi sei mesi e Rubén si rifiutava anche solo di toccare la sua diciannovesima figura, figuriamoci poi di cominciare la ventesima, e il murale non andava a parare da nessuna parte. “Sta’ a sentire, mio caro amico,” disse Ramón, che faceva caricature e teste di belle ragazze per le riviste, “perfino io, che non sono un grande artista, so che le donne sono capaci di rovinare il lavoro di un uomo. Ti dirò, quando Trinidad mi ha lasciato, per una settimana sono stato uno straccio. Niente aveva sapore, non distinguevo un colore dall’altro, ero letteralmente insensibile. Quella sgualdrinella svergognata per poco non mi rovinava. Ma tu, amigo, tirati su, e finisci il tuo meraviglioso murale per il mondo, per il futuro, e ricordati di Isabel solo quando ringrazi Dio che se n’è andata.” Rubén scuoteva la testa spiattellato sul divano a sgranocchiare mandorle dolci, e piagnucolava. “Questo dolore al cuore mi ucciderà. Non esiste un’altra come lei.” I colletti cominciarono tutt’a un tratto a non volerne più sapere di allacciarsi sotto il mento. Allargò la cintura di tre buchi e spiegò: “Sto immobile. Non riesco più a muovermi. La mia energia si è trasformata in dolore.” Gli strati di grasso gli si accumulavano insidiosamente addosso, si gonfiò tanto da non riuscire più a riconoscersi. Ramón, mostrando la sua nuova caricatura di Rubén agli amici, dichiarò: “Giuro che avrei potuto disegnarlo col compasso. I bottoni della camicia gli scoppiano. È veramente in pericolo.” Ma Rubén se ne stava solo soletto a mangiare imbronciato e a piangere su Isabel dopo la terza bottiglia di vino dolce della serata. Gli amici ne discussero a lungo, giungendo alla conclusione che ormai c’erano davvero poche speranze; era tempo che qualcuno gli dicesse la vera causa del suo male. Ma tutti volevano delegare il compito agli altri. E si scoprì che non uno nel gruppo né, forse, in tutto il Messico, era così indelicato da assumersi quel compito. Decisero di appioppare la responsabilità a un medico universitario. La mente di una persona siffatta avrebbe unito una sensibilità sufficientemente raffinata al massimo grado di conoscenze tecniche. Era quella la cosa diplomatica, giudiziosa e sofistica da fare. La fecero. Il medico trovò Rubén seduto davanti al cavalletto, di fronte alla diciannovesima figura incompleta di Isabel. Piangeva e, tra un singhiozzo e l’altro, ingollava formaggio morbido di Toluca con il mango speziato a cucchiaiate. Debordava dallo sgabello da pittore, come un cumulo di impasto per il pane. Al medico raccontò per prima cosa di Isabel. “Le giuro sul mio onore, amico mio, che nemmeno io ho saputo catturare sulla tela la linea della bellezza della sua coscia e dell’incavo del piede. Per non dire che era un angelo di bontà.” Poi disse che quel dolore al cuore l’avrebbe portato alla tomba. Il medico rimase profondamente turbato. Lo consolò a lungo senza trovare il coraggio di prescrivere cure materiali a uno di così squisita sensibilità. “Ho soltanto rimedi grossolani e volgari,” e con gesto aggraziato parve offrirglieli tra il pollice e l’indice, “ma sono l’unico contributo che il mondo della carne sia in grado di offrire per guarire lo spirito ferito.” Li sciorinò uno a uno. Si distribuirono in una fila ordinata ma poco convincente: dieta, aria fresca, lunghe passeggiate, frequente ginnastica pesante, preferibilmente alla sbarra, docce ghiacciate, quasi niente vino. Rubén parve non sentirlo. Il suo mormorio continuo e immemore fluiva caldo tra le frasi solennemente arrotondate del medico. “I dolori sono quasi insopportabili la notte, quando sono solo a letto a fissare il cielo deserto dalla mia stretta finestra, e penso: ‘Presto la mia tomba sarà più stretta di quella finestra, e più buia di quel firmamento,’ e mi si stringe il cuore. Ah, Isabelita, mia carnefice!” Il medico uscì rispettosamente in punta di piedi lasciandolo lì a mangiare formaggio e fissare con gli occhi pieni di lacrime la diciannovesima figura di Isabel. Gli amici cominciarono ad averne le tasche piene e lo lasciarono sempre più da solo. Per varie settimane nessuno lo vide a parte il proprietario di un piccolo bar che si chiamava Le scimmiette, dove Rubén portava sempre a cena Isabel e dove adesso andava a mangiare da solo. Lì una sera di punto in bianco Rubén si strinse il cuore con violenza, si alzò dalla sedia e rovesciò il piatto di tamales con salsa al pepe che stava mangiando. Il proprietario corse da lui. Rubén disse qualcosa in un frettoloso sussurro, fece un gesto molto d’effetto portandosi un braccio sopra la testa e, per dirla nel modo più gentile possibile, morì. Il giorno dopo gli amici accorsero a trovare il proprietario, che fornì una versione fortemente istrionica dell’increscioso episodio. Ramón stava giusto raccogliendo il materiale per una biografia intima del pittore più eminente del suo paese, da illustrare con un gran numero delle caricature disegnate di suo pugno. La dedica ce l’aveva già: “Al suo amico e maestro, genio ispirato e incomparabile dell’arte sul continente americano.” “Ma che cosa le ha detto,” insistette Ramón, “alla fine di quel meraviglioso momento? È della massima importanza. Sono le ultime parole di un grande artista, dovrebbero essere molto eloquenti. Le ripeta con precisione, mio caro amico! Aggiungeranno splendore alla sua biografia, anzi, alla storia dell’arte tutta, se sono eloquenti.” Il proprietario annuì con l’aria di chi ha mangiato la foglia. “Lo so, lo so. Be’, forse non mi crederete se vi dico che le sue ultime parole sono state un messaggio veramente sublime a voi, suoi buoni e fedeli amici, e al mondo. Ha detto, signori miei: ‘Di’ loro che sono un martire dell’amore. Perisco per una causa degna del mio sacrificio. Muoio perché mi si è spezzato il cuore!’ e poi ha detto: ‘Isabelita, mia carnefice!’ Tutto qui, signori miei,” concluse il proprietario con semplicità e reverenza. Chinò il capo. Chinarono tutti il capo.  “Davvero magnifico,” disse Ramón, dopo un congruo intervallo di silenzio addolorato. “La ringrazio. È un epitaffio superbo. Le sono molto grato.” “Aveva anche una vera adorazione per i miei tamales con salsa al pepe,” aggiunse il proprietario in tono modesto. “Sono stati l’ultimo piacere che si è concesso.” “Saranno opportunamente menzionati, non tema, mio buon amico,” disse Ramón piangendo, la voce che si sgretolava sinceramente commossa, “e anche il nome del suo bar. Diventerà un tempio per gli artisti quando si verrà a sapere. Si fidi, provvederò io a serbare per il futuro ogni minimo dettaglio della vita e del carattere di questo grande genio. Ogni episodio ha un suo interesse sacro, un interesse prezioso e singolare. Sì, davvero, menzionerò i tamales.”

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