L’artista dell’ultimo giorno e la parabola dell’assenza
Kafka era un mistico e la sua opera un’immensa preghiera
di Andrea Cafarella
109. [...] Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te.
F. Kafka, Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004)
L’unico modo di leggere Kafka è ossessionarsene
Iniziai a scrivere questo pezzo mesi fa perché Rossella Milone mi aveva parlato della sua idea di iniziare a lavorare a una nuova rubrica di critica, su Cattedrale, che parlasse di tutte quelle forme narrative – contratte o distese – che si spingono fino ai «confini» della forma racconto. In quel periodo stavo lavorando su Robert Walser e mi venne spontaneo proporle un articolo sui suoi brevissimi racconti, che avrei voluto accostare alle contrite prose kafkiane. I due hanno delle somiglianze impressionanti, sia biografiche che letterarie; eppure, dopo non molto, mi risultò evidente che c’è tra di loro una differenza fondamentale, esistentiva. Man mano che leggevo libri che riguardavano l’uno e l’altro, l’ipotesi dalla quale partivo – di poter considerare l’uno l’antesignano dell’altro, e l’altro il suo naturale successore – mi si sgretolava davanti agli occhi. In particolare poi, quando mi capitò di scrivere di un terzo autore: Bruno Schulz, e usare del materiale che riguardava entrambi, Walser e Kafka. La differenza sostantiva è che: Walser è un eremita, Kafka è un mistico. Walser si fa rinchiudere in un manicomio e abbandona la scrittura, apparentemente; Kafka rinuncia a tutto pur di seguire madama Letteratura fino alla fine. Walser sembra non avere pulsioni; Kafka prova a combatterle e le soffre, tutte. Walser è solo, deciso e lucido; Kafka vive nell’indecisione, schiavo delle sue sofferenze e dell’impossibilità di soddisfare la sua indole e le aspettative dei suoi cari. Walser ama camminare; Kafka resta fermo, per notti intere, davanti alla sua scrivania. Walser verga 526 fogli con calligrafia minuscola e illeggibile, da vero amanuense, e li lascia nelle mani dei suoi dottori; Kafka brucia – o chiede ad altri di eseguire al posto suo – i suoi fogli, i suoi quaderni, le sue parole dalla grafia elegante. Il suo testamento è il fuoco.
Una grande somiglianza, tra i due, è che entrambi vivono un’era ideologicamente claustrofobica che ha relegato la letteratura a mero contenuto di prodotti editoriali: i libri. Invece, per gli illuminati di tal sorta il libro è esclusivamente un oggetto; la Letteratura è l’altissima Verità che scorre tra le parole con assoluta chiarezza, al di sopra – o al di sotto – dei fogli e dell’inchiostro. «Kafka appartiene a una tradizione in cui quanto c’è di più alto viene espresso in un libro che è scrittura allo stato puro» ci dice Blanchot, nel suo fondamentale saggio Lo spazio letterario (Il Saggiatore, 2018). A rafforzare questa sua – e mia – idea (di un Kafka mistico, capace di evocare la Verità, «quanto c’è di più alto», nella limpidezza fluida della pagina) Blanchot allega, al piede, una nota squisitamente biografica: «Kafka disse a Janouch che “il compito del poeta è un compito profetico: la parola giusta conduce; la parola non giusta seduce; non è un caso che la Bibbia si chiami la Scrittura”». Altra somiglianza: entrambi, Kafka e Walser, sapevano, riconoscevano di aver visto la Verità; e di questi tempi non ci si può aspettare di dire una cosa del genere ed essere creduti. Non ci si può aspettare di finire bene.
«L’artista dell’ultimo giorno ne è cosciente [il mondo sta per finire sommerso dalle immagini, che sovvertono «l’equilibrio tra la vita e il sembrare dei segni»] e trattiene la mano. La sua opera tende allora a diventare un indugio. Egli cerca. La sua opera diviene uno sperimentare. Ma l’indugio nell’experiri non può durare eternamente, se non trasformandosi in fine e negando così se stesso. L’attesa della decisione rimane nell’orizzonte della decisione e della sua idea si alimenta. Sull’artista dell’ultimo giorno incombe la necessità della scelta: o ‘purificare’ l’immagine fino al punto che questa, cessando di essere la «rivale illecita di ciò che esiste», appaia mondo in se stessa, oppure «spegnere ogni fonte di luce» e condurre ogni parola al perfetto silenzio».
Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009.
Kafka è «l’artista dell’ultimo giorno», l’ultimo profeta. Non in senso assoluto: l’ultimo. Piuttosto uno degli ultimi di una stirpe di ultimi, che nasce con Omero (emblematica qui l’impossibilità di riconoscimento effettivo di un autore; in questo caso – come in altri che tratterò più in la – quello che mi viene da pensare è che questa ricorrente non-identità autoriale deve evidentemente significare che: l’autore mistico (l’artista dell’ultimo giorno), di fatto, è l’uomo, l’uomo che arriva all’illuminazione, totalmente distante dai concetti di fama e vana gloria, semplicemente è un essere umano – quindi tutti gli esseri umani, in potenza – la cui attenzione è riuscito a espandere quanto la sua anima (incredibilmente e indicibilmente, più del «normale») e prosegue nel tempo con personalità quali Dante, Shakespeare o Beckett. Gli «artisti dell’ultimo giorno» sono quegli Artisti che hanno saputo cogliere il cuore dell’esistenza stessa, rappresentandolo a seguito di un cammino estatico di comprensione e ri-velamento. Un cammino che, inevitabilmente – e ce lo insegnano proprio i mistici, quelli considerati propriamente, esclusivamente tali –, il viaggio non ha mai fine, è una ricerca eterna, una sperimentazione costante; la contemplazione senza tempo del silenzio.
Per Kafka, come per Sancho Panza, il rapporto con le potenze è talmente radicato nella fisiologia, e percepibile già nel respiro, che il primo pensiero, e anche il più avventato, è quello di liberarsene. Ma Kafka sa che una liberazione del genere sarebbe illusoria.
Il raggiungimento più alto consiste nello stabilire una certa distanza. Sedere a un tavolo e osservare le potenze, come le apparizioni nello sfrenato delirio di Don Chisciotte. Con sollievo, anche con partecipazione. Seguendole mentre si trasformano, ma sempre stando da parte, come una comparsa. Di più non si può chiedere. Questa è la suprema saggezza. Sancho Panza è l’unico essere che Kafka ha definito «un uomo libero».
Roberto Calasso, K. (Adelphi, 2002)
La forma della parabola
Una volta, durante un incontro di lettura, stavamo leggendo delle cose di Kafka, e uno dei partecipanti chiese di leggere «Un messaggio imperiale», dicendo che quello era il testo di Kafka che preferiva in assoluto. La cosa mi colpì, perché non lo avevo mai considerato tra le sue prose più importanti. Più volte, da allora, ponendo più attenzione al fenomeno, mi sono trovato in circostanze nelle quali qualche lettore, particolarmente stimato dal sottoscritto, citasse «Il silenzio delle sirene» oppure «La verità su Sancho Panza» (di cui si accenna sopra) o ancora «Il sogno», o l’estratto dai Quaderni in ottavo (SE, 2011) che Borges include nel suo Libro dei sogni (Adelphi, 2015): «Bisogna distinguere». Tra l’altro, questi lettori attenti, nominano, spesso, l’uno o l’altro di questi testi, per le più differenti motivazioni, come l’espressione più alta della prosa kafkiana. Persino Roberto Calasso, nel suo K. (Adelphi, 2002), in cui porta avanti il discorso attraverso l’analisi approfondita e originale de Il Castello e de Il processo, si serve, inoltre, in minima parte, esclusivamente di prose brevissime. (E mi sembra importante sottolineare – senza addentrarmi nella questione – che molti di questi testi fanno parte della produzione letteraria postuma, di Kafka, che Max Brod salvò dalle fiamme – contravvenendo alle indicazioni testamentarie dell’amico – e curò integralmente. Lo sottolineo perché, per questo motivo Brod è, e fu, ampiamente criticato – soprattutto per come condusse l’operazione editoriale di pubblicazione dell’opera kafkiana –, anche dallo stesso Calasso. Non entro nel merito perché ci sarebbe da fare un discorso troppo lungo e complesso e ideologico e forse inutile. Certo è che, in termini «religiosi», se questi testi sono arrivati a noi è per una ragione, ed è forse anche questo che li rende così speciali agli occhi del lettore attento).
«Non certo metaforica la scrittura di Kafka – e neppure certo allegorica. La sua forma andrà piuttosto avvicinata a quella della parabola?» (Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009). Si chiede Massimo Cacciari in questo eccezionale saggio dalla natura ultimativa e chiarificatoria. La mia risposta: sì, i racconti di Kafka sono delle parabole, fatte della stessa sostanza dei testi biblici, di quelli del Talmud o del Libro dei morti egizio. Sono testi sacri.
Difficile, anzi, difficilissimo, forse impossibile, dire perché Kafka riesce in questa contrazione mistica della letteratura, dire cosa stia raccontando o quale sia il messaggio sotteso tra le sue parole. Esattamente come un testo sacro. Che, come tale, può essere interpretato in molti modi. Anzi, deve essere re-interpretato, di continuo, per sempre. Questa è la sua vita e il suo destino (il suo uso rituale? Anche).
Johannes Urzidil – il giovane scrittore che ebbe il coraggio di parlare di Kafka durante la cerimonia tenutasi a Praga a due settimane dalla sua morte – scrive: «Davanti alla legge [uno dei brevissimi racconti di Kafka, questo, però, pubblicato quando l’autore era ancora in vita] è paradigmatico di tutta l’opera teologica di Kafka, questa interminata (perché interminabile) disputa con Dio che solo in alcuni rari momenti di armistizio trova conforto nel motto: “Scrivere come forma di preghiera”». (Johannes Urzidil, Di qui passa Kafka, Adelphi, 2002). Ecco, ancora: i testi di Kafka sono parabole, preghiere, salmi, koan, mantra, sono dei testi spirituali e sacri. Per ciò ne mantengono la forma: sono brevi, a volte brevissimi: quattro o cinque righe di parole dense di senso e di esso, al contempo mancanti, piene di esitazione e paradosso. Tuttavia non si tratta qui di una brevità tecnica, cervellotica, schematica o condizionata dal ragionamento. Essa deriva – esattamente come una pratica spirituale – dall’esperienza.
Kafka «comprese che bisogna scrivere tutto di un fiato: non solo i racconti, ma anche i grandi romanzi, come l’Èducation sentimentale, che aveva sognato di leggere in una volta sola ai suoi ascoltatori: “Soltanto così si può scrivere, soltanto in una simile connessione, con una completa apertura del corpo e dell’anima”.» (Pietro Citati, Kafka, Adelphi, 2007). E questo modo di concepire l’atto dello scrivere si è riversato, inevitabilmente, sia nel contenuto – dal punto di vista, sempre spirituale, volto all’invisibile, che abbiamo preso in considerazione fin ora – come, evidentemente, nella forma.
Fra i racconti di Kafka ve ne sono pochi che abbiano l’interesse della Condanna: «Questa storia» dice il Diario in data 23 settembre 1912 «l’ho scritta tutta d’un fiato nella notte dal 22 al 23, dalle dieci della sera alle sei del mattino. Potei appena ritrarre di sotto la tavola le gambe diventate rigide a forza di restare seduto. La fatica e la gioia erano terribili, mentre vedevo come la storia si sviluppava davanti a me, come ero trasportato avanti dalle acque. A più riprese, nel corso di questa notte, mi portai sulle spalle tutto il peso di me stesso. Come ogni cosa può essere detta, come, per tutte le idee che vengono in mente, per le idee più strane, è già preparato un gran fuoco, in cui esse scompaiono e rinascono...»
(Georges Bataille, La letteratura e il male, SE, 2006)
Il tempo e le condizioni in cui un autore opera sono l’opera stessa, o perlomeno, di certo, influiscono sulla forma in maniera sostanziale. Basta fermarsi – un invito, per il lettore, a farlo adesso – e dare una lettura alla decina di pagine che compongono La Condanna. Dopo averlo fatto, ora, risulterà lampante – lo so per esperienza – quanto abbiano influito «la fatica e la gioia», il silenzio di quelle ore notturne, il dolore alle gambe, il pensiero rivolto ai doveri del giorno seguente, il sonno. L’ossessione di dover terminare il racconto prima che il sole nefasto porti il mondo dentro la sua stanza.
Per Kafka scrivere è pregare. Per il mistico pregare significa credere, fino alla fine, fino alla morte, fino all’illuminazione, a qualsiasi costo e attraverso qualsiasi sofferenza; e con la consapevolezza che questa ricerca è, di fatto, assolutamente insensata, e anche per questo ha senso: il senso.
Scrivere, per Kafka, significa ri-velare il significato, smascherare il mondo; eppure non saperlo mai. Significa avere fede.
Ecco, forse, meglio: l’unico modo di leggere Kafka è credere.
Per Przywara la parabola nasce dalla similitudine viva, dalla similitudine che si fa storia, racconto, che si arrischia al di là del suo senso immediato verso il fuoco controverso delle interpretazioni, che è in se stessa per essere tradita. La parabola autentica non può mai, ‘alla fine’, ri-convergere al suo cuore, alla sua origine e disvelarne il significato. La parola ri-vela. Nella sua parola il ‘fuoco originario’ si avverte e perdura, ma, appunto, solo in quanto espresso, ri-velato – e perciò mai ‘recuperabile’ nella sua essenza. Di esso può esservi attesa, nostalgia, ma come della parola che sempre ci manca. La condizione essenziale della parabola può essere spiegata col paradosso evangelico: chi vede me (chi mi ascolta, mi ‘raccoglie’ in sé, mi ‘legge’) vede il Padre (in me vive quindi il significato ultimo), ma il padre nessuno lo vide mai.
(Massimo Cacciari, Hamletica, Adelphi, 2009)
L’effetto della parabola
Raccontavo, all’inizio, dell’articolo che ho scritto qualche mese fa sul piccolo preziosissimo libro di Francesco Permunian su Bruno Schulz. In quell’occasione mi era sembrato essenziale accennare alla questione che qui riporto a galla utilizzando lo stesso riferimento, tratto da un interessante libro che raccoglie tutti gli interventi di Franco Fortini nei riguardi di Kafka. Fortini scrive: «il carattere di parabola (e non di poesia) di quei libri chiede un commento perpetuo che poco a poco si incrosti nel testo medesimo ed entri progressivamente a farne parte, come è accaduto a tanti testi antichi e soprattutto, nella cultura ebraica, al Testamento. L’atteggiamento di sempre nuova domanda, che è del lettore-critico di fronte all’ambiguità del testo kafkiano, è previsto e richiesto dall’autore – come i suoi antenati talmudisti – perché quell’atteggiamento fa parte del rituale». (Franco Fortini, Capoversi su Kafka, Hacca edizioni, 2018). Fortini, con grande lucidità, punta il suo occhio attento nuovamente sull’evidenza di un vero e proprio «misticismo kafkiano». C’è una religione della Letteratura in Kafka. Lo dimostrano i tantissimi libri di ogni sorta che circondano e compendiano la sua opera. Non sono testi fermi, di pura analisi – oh dio, ci sono anche quelli, purtroppo – perlopiù sono testi creativi, che dal magma energetico della fucina di Kafka prendono il potere di una sempre nuova creazione e di una ricerca perpetua, anch’essa spirituale e mistica. Ci sono i libri già nominati: Kafka (Adelphi, 2007) di Pietro Citati – e chi ha letto anche solo una sua riga sa come Citati riesca a trasformare il racconto biografico in un puro flusso letterario; ci sono i saggi di Blanchot e Bataille: Lo spazio letterario (Il Saggiatore, 2018) e La letteratura e il male (SE, 2006); l’Hamletica (Adelphi, 2009) di Massimo Cacciari; Di qui passa Kafka (Adelphi, 2002), K. (Adelphi, 2002), Capoversi su Kafka (Quodlibet, 2018) e ci sono quelli che ancora non ho nominato e quelli che non nominerò, come quello di Philip Roth: «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno» ovvero, guardando Kafka (Einaudi, 2011) interessante rielaborazione critica e biografica, seguita da un racconto, molto divertente, dove si ipotizza che Kafka non sia morto e sia sfuggito alla guerra emigrando negli Stati Uniti. C’è, da quest’anno, Una variazione di Kafka (Sellerio, 2018) di Adriano Sofri, un’indagine filologica che è anche una narrazione e un’immagine nuova – con uno sguardo incredibilmente originale – di questa inconoscibile figura: il perfezionista Franz Kafk. Libro davvero entusiasmante. C’è la biografia di Max Brod: Franz Kafka (Passigli, 2008). E potremmo continuare con le lettere, i diari, i racconti – Le conversazioni con Kafka (Guanda, 2005) di Gustav Janouch, per esempio – e le raccolte tematiche, critiche, commentate. I libri in cui appare Kafka personaggio. E via dicendo... C’è un libro, pubblicato da Adelphi: Questo è Kafka? (Adelphi, 2016) di Reiner Stach – colui che ha curato la monumentale biografia di Kafka in tre volumi, mai tradotta in Italia – in questo libro Stach raccoglie 99 frammenti (letteralmente qualsiasi cosa: foto, pagine, lettere, oggetti, testimonianze) per ripensare gli stereotipi che aleggiano attorno all’idea della sua persona. Mi ha subito colpito l’incipit del libro. Nella premessa Stach scrive: «In alcuni infonde paura. Altri, senza nemmeno leggerlo, ma avendone sentito parlare, temono che possa incutere paura. Qualcuno ne ricava tristezza, senza saper dire perché. Altri ancora sentono aleggiare la depressione nei suoi libri, e dunque ripongono prudentemente quegli esili volumi». E anche a me, devo ammettere, faceva molta paura. Ma poi Stach continua, qualche pagina dopo: «il segreto della sua ineguagliata creatività è rimasto in larga parte inviolato, e «capire» Kafka continua a essere, in linea di principio, un compito inesauribile.», concordando, fondamentalmente, con la prosa densissima di Fortini e con l’idea che me ne sono fatto io stesso superata la paura e i tristi stereotipi: bisogna leggere e capire Kafka, anche se questo può voler dire ossessionarsene e avere paura; perché i suoi enigmi nascondono ancora domande irrispondibili e questioni irrisolvibili che sprigionano una potenza creatrice misteriosa, ossessionante e fulgida.
Infine, in questa mia carrellata, c’è un libro fondamentale, che non posso trascurare, che ha chiarito moltissime idee che stavano formandosi su Kafka, ma anche sulla letteratura in generale e sul modo stesso di fare critica. Sto parlando di Kafka. Per una letteratura minore (Quodlibet, 2010) del duo Gilles Deleuze - Félix Guattari (che scrive anche un altro libricino, a mo’ di appendice: Sessantacinque sogni di Franz Kafka, Cronopio, 2008). Questo libro, già dalle prime pagine chiarisce benissimo la loro posizione critica e la posizione che suppongo abbiano avuto tutti quegli autori che ho citato fino ad ora. L’unica posizione possibile – a mio parere – per approcciare Kafka con quell’«atteggiamento di sempre nuova domanda» di cui ci parla Fortini.
«Non cerchiamo affatto di trovare degli archetipi» scrivono, spezzando già una certa tradizione, questi due pensatori d’avanguardia, che sembrano venuti dal futuro, «archetipi che sarebbero l’immaginario di Kafka, la dinamica o il bestiario kafkiani – l’archetipo procede per assimilazione, omogeneizzazione tematica, mentre noi troviamo la nostra regola solo quando una piccola linea eterogenea, in rottura col resto, riesce a infiltrarsi». In Deleuze e Guattari c’è una posizione artistica: non ci interessa creare somiglianze, trovare una soluzione, sciogliere il problema o il mistero kafkiano. Vogliamo registrare l’anomalia, tutto quanto v’è d’anormale, l’eccezione, la diversità. Da quello creiamo. E continuano: «Noi crediamo soltanto in una politica di Kafka, che non è né immaginaria né simbolica». Crediamo in Kafka. «Crediamo a una o più macchine di Kafka, che non sono né struttura né fantasma». Dicono quindi che effettivamente c’è una tecnica, c’è uno spettacolo, c’è un artigianato, c’è la scrittura e la forma, in Kafka. Ma non è razionale, è mistica. È credere e cercare. Ancora: Noi crediamo in Kafka. Noi «crediamo solo a una sperimentazione di Kafka: non interpretazione o significanza ma protocolli d’esperienza». In pratica: solo pregando si può comprendere il vero significato della preghiera. Per questo, noi preghiamo. Questo ci dicono Deleuze e Guattari. E la loro è una preghiera al pari di quanto lo sono i commentari di Guido Ceronetti al Cantico dei Cantici (Adelphi, 1992) o al Qohélet (Adelphi, 2001). L’effetto rituale della preghiera kafkiana ci stravolge e ci fa bene, esattamente come recitare il rosario o partecipare a una seduta di meditazione. Per questo, ci dice Stach: «vi è nondimeno una parte di lettori – e il loro numero non è diminuito nel corso dei decenni – che si entusiasmano per la sua prosa e la ritengono il massimo piacere che la letteratura possa offrire». (Questo è Kafka?) Fedeli di ogni dove, sorelle e fratelli miei.
La parabola dell’assenza (o di quegli scritti di Zürau)
A causa della già citata questione che riguarda i manoscritti di Kafka pubblicati postumi da Max Brod contro il volere dell’autore, mi sono esentato dal trattare dell’aspetto incompiuto dei testi, che carica di possibilità interpretative la sua opera. Tuttavia non posso esimermi dal considerare, come indispensabile completamento del mio discorso, uno dei libri più interessanti che furono pubblicati dopo la sua morte. Venne dato alle stampe da Max Brod nel 1946 con il titolo Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via. Oggi è possibile trovarlo, in Italia, curatela di Roberto Calasso, con il titolo Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004). Si tratta di un libro che raccoglie il contenuto di 105 foglietti, numerati dall’autore, scritti tra il 1917 e il 1918, mentre era ospite della sorella Ottla nel villaggio di Zürau. Ma questi frammenti sono qualcosa di più complesso. Lo spiega bene Calasso nel saggio accluso al libro di Kafka (che riappare anche nel suo K. come ultimo capitolo – dato, a mio parere, più che significativo rispetto alla considerazione di valore data a questo libro da quasi tutti i critici): la parola «aforisma» è sviante, se si intende la parola nel senso corrente di «sentenza». Alcuni di questi frammenti sono narrativi (per esempio 8/9, 10, 20, 107), altri sono singole immagini (per esempio 15, 16, 42, 87), altri sono parabole (per esempio 32, 39, 88). Una simile mescolanza si incontra nella tessitura dei Diari di Kafka. Però qui ogni ridondanza, ogni accidentalità, ogni insistenza è abolita. Nella loro asciuttezza e ingannevole limpidezza, queste frasi hanno qualcosa di ultimativo. Sarebbe vano esigere una amplificazione o concatenazione. Sono i tratti subitanei del pennello di un maestro vecchissimo, che si concentra tutto in quelle minime oscillazioni del polso guidate da un «occhio che semplifica fino alla desolazione totale». Così Kafka avrebbe definito il suo sguardo in una lettera di quel periodo.
Questo libro, questi centocinque foglietti quadrati, formano quello che potremmo chiamare Il libro sacro di Kafka. Qui la Letteratura diventa davvero religione. E sempre attraverso la forma e la sua distorsione. In poche righe Kafka racchiude tecniche diversissime, racconti paradossali, momenti di illuminazione vera e propria; la saggezza dei testi antichi orientali. La forza dell’aforisma e la sua ambiguità misterica. «Come il Tao-te ching e il Chuang-tzu, gli Aforismi di Zürau sono, in primo luogo, la storia di una “via” e di come percorrerla, fino al punto d’arrivo». C’è della filosofia? Forse sì, ma è scevra da qualsiasi logica, arriva al significato per pura intuizione, per paradossi, per errori, «Qual è dunque la strada? La prima risposta ci sconvolge: non c’è alcuna via, nemmeno un viottolo di montagna». Sì, ecco: forse questa è la filosofia di Kafka, o almeno lo stereotipo attraverso cui siamo abituati a concepirla, ma «poi c’è una correzione: “La vera via passa su una corda”; e per percorrerla bisogna essere un equilibrista a braccia aperte, uno di quelli che il giovane Kafka amava». Ecco cosa fa Kafka: vive l’esperienza, nella scrittura. Porta la Letteratura a sé, egli stesso si fa Letteratura. «Ma ecco una nuova difficoltà: la corda non è tesa in alto, tra le finestre di due case sopra una piazza, ma appena al di sopra del suolo, e probabilmente bisogna camminare senza mettere piede a terra». La risposta di Kafka, a se stesso, è sempre, in qualche modo, insensata. Kafka, l’ho detto, è un mistico. Ci dice cose come: bisogna chiudere gli occhi e ascoltare il respiro fino a trascendere il corpo e raggiungere l’illuminazione. «Come è possibile? Il rischio è che la “vera via”, quella che ci doveva portare in alto, ci faccia inciampare e cadere al suolo, come un goffo acrobata senza ali o l’albatros di Baudelaire – senza cessare, per questo, di essere la vera via». (Pietro Citati, Kafka, Adelphi, 2007) Esattamente: credere nell’ignoto e tuffarsi nell’abisso a occhi chiusi, pur sapendo che s’incontrerà solo il vuoto, il nulla e nulla più.
Le parabole di Kafka, le sue preghiere, i suoi canti sommessi e silenziosi, comunque li si voglia chiamare: i testi di Kafka richiamano alla fede, alla vera funzione della Letteratura, alla catarsi, ai misteri eleusini; alle frasi, dalla saggezza paradossale, dell’I Ching. L’opera kafkiana è un corpus unico di frammenti che hanno storie diverse, scritti da un vecchissimo maestro la cui anima illuminata ha smascherato il mondo che si è torto davanti al suo sguardo che «semplifica, fino alla desolazione totale».
109. «Che manchiamo di fede non si può dire. Già il semplice fatto che si vive è inesauribile nel suo valore di fede».
«In questo ci sarebbe un valore di fede? Ma non è possibile non-vivere».
«Appunto in questo “non è possibile” risiede la forza folle della fede; in questa negazione essa acquista forma». [...]
F. Kafka, Aforismi di Zürau (Adelphi, 2004)