Nero pesto: il racconto primo classificato al Premio Match Point

Cattedrale è orgogliosa di ospitare i tre vincitori del premio Match Point: la chiamata letteraria per racconti scritti in italiano da autori e autrici residenti nel Regno Unito. Il premio è organizzato dall’associazione londinese Il Circolo con il patrocinio del Consolato Generale d’Italia a Londra e in collaborazione con la scuola Londra Scrive.

Oggi arriviamo in cima al podio con il racconto primo classificato: per presentarlo lasciamo la parola a Giovanna Salvia, editor, tra i giurati del Premio, che ha collaborato con l’autore in qualità di editor in vista di questa pubblicazione.
QUI potete leggere gli altri racconti della terzina vincitrice.

Anche dopo tanti anni di lavoro, l’incontro con un nuovo autore rimane per un editor un momento emozionante, di confronto e reciproca scoperta. E l’incontro con Filippo Rossi è stato in questo senso davvero felice: ho trovato un interlocutore sensibilissimo, capace di cogliere al volo qualunque spunto e di farlo proprio. Non era scontato. 
Confido che, come me, i lettori di Cattedrale apprezzeranno lo humour di cui è intessuto questo racconto, in cui Filippo Rossi usa ironia, fantasia e tenerezza per giocare con le paure dell’infanzia di molti di noi.
 


Giovanna Salvia

Nero pesto

 di Filippo Rossi

 

Quando mi assegnarono il ragazzino, avevo appena finito di lavorare su un pezzo grosso, l’avvocato Pacchioni. L’incarico era stato un successo. In qualche mese ero riuscito a trasformare il pomposo oratore in un pulcino pigolante e ora la sua lingua si inceppava su ogni sillaba. Gli attacchi di panico lo assalivano all’improvviso, a vederlo in aula, tutto tremante nella toga nera con la cordoniera dorata e la pettorina di sangallo, c’era da rimanere secchi dal ridere.
Ero bravo nel mio lavoro, e per questo mi assegnavano gli intrepidi, ovvero i casi più complessi. Napoleone aveva appena valicato il colle del Gran San Bernardo quando lo presi in consegna. Era l’emblema del coraggio, ma bastarono pochi giorni per instillargli una fifa nera dei gatti, che se a Marengo gli austriaci avessero liberato qualche micetto spelacchiato sarebbe scappato in ritirata in un battibaleno. Oppure la volta dei gusci di noce e di Muhammad Ali: la creatività con cui lo avevo condizionato era passata alla Storia – la nostra, s’intende.
Fu per questo che quando un collega mi pregò di accettare il ragazzino reagii con stupore.
Mi sorprese in un angolo d’ombra nei corridoi del tribunale, Bel risultato, mi disse facendo un cenno col capo in direzione dell’aula dove l’avvocato si stava impappinando sulla parola “sinallagmatico”. Quello era un osso duro, continuò, ridendo nervoso sulla mitraglia incantata del Pacchioni. Per complimentarsi mi appoggiò una mano sulla spalla e fu allora che mi accorsi che aveva la carnagione grigiognola: aveva perduto il suo bel colorito sano e nero, anzi, sembrava quasi candeggiato.
Stai bene?, chiesi.
Fece cenno di sì con la testa, ma confessò di aver bisogno di prendersi una pausa dal lavoro, era esausto.
Forse andare ai centri ti farebbe bene?, buttai lì.
I centri..., ripeté lui con un sospiro dubbioso, a me sembrano una cosa per mezzi matti.
Gli dissi – con un po’ di commiserazione, lo ammetto – che non doveva vergognarsi di sentirsi scarico: non erano più gli anni novanta, il machismo a tutti i costi non andava più di moda. I centri erano gestiti da professionisti: le riabilitazioni erano all’avanguardia, con musicoterapia dei Rammstein, seminari di Freddy Krueger e retrospettive di Dario Argento. Vedrai, conclusi, dopo una settimana ai centri sarai completamente guarito e più nero di prima.
Fu allora che crollò. Frignando, mi chiese di occuparmi del ragazzino. Lo aveva appena preso in consegna, ma non si sentiva bene, non ce la faceva a continuare. So a cosa stai pensando, disse vedendomi titubante. Un caso così a uno come te, disse adulatorio, uno capace di far diventare le gambe di ricotta a Muhammad Ali. Che poi sono capaci tutti a far venire paura della morte, tu invece... che trovata geniale. Ricordi? Dopo il tuo trattamento sarebbe andato kappaò vedendo un gheriglio, disse sforzando un sorriso.
Mi spiegò che, al confronto, lavorare sul ragazzino sarebbe stata una passeggiata di salute. Era orfano e viveva con la nonna. Era cicciottello, impacciato, insicuro, aveva la erre moscia, era spaventatissimo dai pipistrelli e a scuola i bulli lo mortificavano. Insomma, concluse, è un lavoro poco impegnativo.
Lo guardai stupito, era davvero un compito ben al di sotto delle mie capacità, ma infine accettai. Mi spinse, forse, la pena per la sua faccia color neve sporca.
In fondo, anche se l’incarico era facile, non per questo sarebbe stato meno gratificante. La carne fresca è più ricettiva e assorbe con facilità. La questione, più che altro, è scegliere i semi adatti e piantarli accuratamente: quando lo si fa con mestiere, i piccoli timori sottopelle sbocciano in età adulta in maestose fobie. E queste sono soddisfazioni!
Il collega mi lasciò i dettagli del caso, Sei il migliore, disse prima di sparire, sollevato, sei il più nero degli uomini neri. Sei nero pesto.


Il mio lavoro con l’avvocato era terminato – a fine udienza scappò a nascondersi in bagno e si accovacciò sudato fradicio con le spalle alla porta – e, non volendo perdere tempo, iniziai col ragazzino la notte stessa. Mi sistemai sotto il letto insieme al suo brachiosauro di pezza, ma facendone spuntare fuori il lungo collo: sono un perfezionista e so che la cura nei dettagli può fare la differenza.
Restai immobile a gustare i prelibati lanicci d’annata che avevo scovato lì sotto e aspettai che la nonna, dopo avergli rimboccato le coperte, se ne andasse. Lo salutò con un bacio a schiocco sulla fronte e richiuse la porta dietro di sé lasciandoci in un buio rinvigorente.
Non mi misi subito all’opera: il ragazzino aveva cominciato ad armeggiare con il cuscino e io, incuriosito, mi affacciai da sotto il letto a guardare. Infilò un braccio dentro la federa e frugò alla ricerca di qualcosa. Guardò verso la porta per accertarsi che fosse chiusa e poi, sentendosi protetto dal buio, sfilò un barattolone di Nutella.
Svitò il tappo con lentezza come per assaporare l’attesa e affondò la mano. Estrasse le dita piene di Nutella e se le mise in bocca ancora grondanti. Restò così per un po’ a succhiarsele, poi con la punta della lingua prese a leccare lo spalmabile annidato sotto le unghie e tra le pieghe della mano. Lo lasciai finire lo spuntino e riporre al sicuro il barattolone, aspettai che si appisolasse e finalmente cominciai.
Dopo aver scostato appena le coperte dal fondo del letto, gli soffiai tra le dita dei piedi. Lui li ritrasse di scatto sentendoli di ghiaccio. Dino?, chiamò, come se aspettasse la risposta del suo brachiosauro. Beata ingenuità.
Iniziai a scuotere il letto con scariche brusche e improvvise, poi mi fermai per insinuare in lui il sospetto che fosse solo uno scherzo della sua immaginazione. Dopo un po’ il ragazzino riprese coraggio e tirò fuori la testa dalle coperte: Dino... dove sei?, disse tremolante.
Io fermo immobile. Lui si guardò intorno sospettoso e poi vide il lungo collo dell’erbivoro sbucare da sotto il letto. Allungò il succulento braccetto con cautela. Tastò fino a trovare la testa e lo tirò a sé. Dino, ti sei incastrato?, mormorò, intimorito dalla resistenza che imponevo tenendolo per la coda.
Dino?, ripeté con voce fievole mentre io trattenevo a malapena le risate. Alla terza strattonata decisi di piantarla e con l’unghia dell’indice tagliai di netto il collo del peluche. Il ragazzino tirò ancora e stavolta la testa di Dino gli rimase in mano, con un batuffolo di imbottitura che gli usciva dal collo mozzato: da morir dal ridere.
Si affacciò spaventato dal materasso e guardò sotto il letto, buuu!, urlai fortissimo, e lui guizzò fuori dalla camera, terrorizzato.

 La notte seguente, prima di andare a dormire, il ragazzino costrinse la nonna a perlustrare la stanza. Lui restò sull’uscio a distanza di sicurezza e indicava tutte le zone d’ombra. E dentro l’armadio?, le chiese non appena lei ebbe finito di ispezionare dietro la porta. E in mezzo alle tende?, continuò senza prendere fiato. E nel comodino?
La nonna, stufa di quelle manovre, lo guardò e scrollò la testa. Allora è ancora sotto il letto, insistette lui stringendosi al petto il brachiosauro, la cui testa era stata riattaccata con una collana di spille da balia. La nonna andò a prendere un manico di scopa. Si piegò con un movimento artritico e iniziò a ramazzare sotto il letto, guastando, ahimè, tutti i lanicci che erano rimasti e che avevo in mente di assaporare nottetempo, sciogliendoli sotto la lingua tra uno spauracchio e l’altro. Tesoro, disse poi rialzandosi con l’aiuto del manico, qui non c’è nessun Babau! Lui allora entrò titubante nella stanza e si infilò sotto le coperte. Se lo rivedi, disse la nonna dandogli il bacio della buonanotte, fai come ti ho insegnato.
Prima di andarsene si fermò sulla porta e si voltò a fissarlo con uno sguardo inquisitorio: A meno che...
A meno che?, chiese il ragazzino intimorito.
I Babau sono ghiottissimi di Nutella, continuò la vecchia. Sei proprio sicuro di non averlo preso tu, quel barattolo?
Lui rimase in silenzio e poi, disegnandosi una croce sul cuore, annuì.
Vabbè, disse la nonna, chissà dov’è finito.
Poi sparì lasciando la porta socchiusa e ritornò in soggiorno a guardarsi una replica del tenente Colombo.
La bugia del ragazzino mi elettrizzò. L’idea che avevo avuto la sera precedente vedendolo ingozzarsi di Nutella era originale, ma ora assumeva un significato più elevato, quasi pedagogico. Aspettai che la golosità del piccolo bugiardo facesse il suo corso e, non appena lo vidi infilare il braccio dentro la federa, mi preparai accarezzandomi la pancia. Aspettai che svitasse il tappo e poi spinsi un peto dall’odore di latte rancido. Il tanfo lo travolse non appena si mise le dita cioccolatose in bocca e fece una smorfia di disgusto.
Avevo tuttavia sottovalutato la sua ingordigia: per nulla dissuaso dal puzzo, affondò nuovamente la mano nel barattolo, e io – determinato a impartirgli un insegnamento – spinsi una loffa ancora più disgustosa, con note di uovo marcescente. Il ragazzino si leccò le dita, ma questa volta il mio tentativo andò a segno. Richiuse il barattolo e lo nascose sotto il cuscino.
Qualche collega pedante avrebbe segnato a dito questo mio comportamento, definendolo frivolo o poco rispettoso della deontologia professionale. Ma era proprio questo che mi rendeva uno dei migliori: la capacità di dare alla paura forme non convenzionali; prima di spaventare mi piaceva creare l’atmosfera adatta, perché con le giuste premesse la paura non avrebbe abbandonato mai più le mie vittime. Insomma, spaventare era per me un’articolata esperienza sensoriale e volevo che il terrore inflitto rimanesse vivido e tornasse a galla risentendo un odore, un suono.
Il ragazzino ci mise un po’ ad addormentarsi, ma io non avevo fretta. Lo svegliai percuotendomi il petto e producendo un tonfo di tamburi, poi iniziai a dare dei colpi secchi da sotto il materasso. Colpivo a casaccio, per non dargli la possibilità di capire da dove sarebbe arrivata la botta successiva. Piagnucolando, si tirò le coperte sopra la testa, sempre tenendo stretto quello stupido brachiosauro. Io presi le coperte per i lembi che penzolavano ai piedi del letto. Tirai come quando si vuole sfilare la tovaglia senza muovere le stoviglie e lo lasciai esposto. Poi, per evitare che ritrovasse rifugio, le appallottolai e le lanciai sopra il lampadario. Lui si alzò in piedi sul materasso e con degli affannosi saltelli cercò inutilmente di afferrarle. Alla fine ci rinunciò e si rintanò come poteva, cacciando la testa sotto il cuscino. Pareva uno struzzo.
Fu allora che allungai un braccio furtivo da sotto il letto, afferrai il cuscino, glielo strappai via e, con una mira degna di Roberto il-Divin-Codino Baggio, lo calciai sopra il lampadario a fare compagnia alle coperte.
Lui iniziò a frignare più forte e si mise a pancia in su a guardare impotente il lampadario che oscillava come un pendolo. Era terrorizzato, e mi sembrò il momento giusto per quel rinforzo sensoriale grazie al quale la paura si sarebbe sedimentata. Decisi di esalare nuovamente, e qui mi venne il colpo di genio. Di certo, il regime alimentare di ogni bambino scarseggia di crucifere. Quindi, a occhio e croce anche la nonna del ragazzino cercava di fargli seguire una dieta sana ed equilibrata, preparando almeno un paio di volte alla settimana la verdura lessa. Spinsi allora un peto fenomenale, calibrando un odore preciso: broccolo e cavolo bolliti. Già vedevo la mia vittima scoppiare in lacrime ripensando a questo spavento, non appena gli fosse stato servito un bel piatto di vegetali lessi. Terrorizzato dal cibo con troppa fibra: sembrava una barzelletta.
Si tappò il naso, ma continuò a singhiozzare. Poi si fermò all’improvviso e con una voce acuta si mise a farfugliare qualcosa.
Stava veramente facendo quello che pensavo? Ero basito.
Rifilai un calcio così potente da alzare il materasso e allora la voce del ragazzino si fece più nitida: Cuccurucucu palomaaaa, ahia-iaia-iai cantavaaaa.
Stava cantando! Mi era capitato di sentire qualche soldato in trincea cantare per farsi coraggio, ma questo era davvero grottesco. Rimasi in ascolto, sbigottito.
Si abbracciò poi al suo peluche rabberciato. La nonna, gli sussurrò all’orecchio, dice che se arriva l’uomo nero gli devo cantare una canzone. Quindi, riprese fiato e ricominciò: Il mondo è grigio, il mondo è blu...
Mi cascarono le braccia e, in preda alla frustrazione, decisi che avrei completato l’opera la notte successiva. La mia non era di certo una resa, ma ero così allibito che mi sarebbe stato difficile continuare a lavorare con professionalità. Dopotutto, il mio lavoro era fatto soprattutto di attese e di paziente anticipazione; o, per dirla con il Maestro, Non c’è terrore in uno sparo, ma solo nell’attesa di esso.

La notte successiva la luna era piena. Entrava nella camera argentando una parete e facendola sembrare una tela. Quel chiarore mi ispirò un’idea geniale e riuscii a malapena a trattenere l’emozione: fremevo dalla voglia di metterla in pratica, ma, come sempre, per entrare in azione aspettai che la nonna se ne fosse andata. Prima di raggiungere l’amato Peter Falk, diede il solito bacio della buonanotte al nipote e poi si raccomandò di non lanciare le cose per aria (ero rimasto a guardarli divertito mentre disincagliavano dal lampadario cuscino e coperte: il ragazzino la teneva per le gambe mentre lei rifilava dei colpi con il manico della scopa. Pareva dovesse rompere una pignatta piena di dolcetti).
Forse fiaccato da tutto quell’esercizio, il ragazzino si addormentò non appena posata la testa sul cuscino. Io non persi tempo e girai lentamente il letto posizionando la testiera davanti alla finestra e lasciandolo di fronte alla parete argentata. Lo svegliai sussurrandogli all’orecchio il verso del pipistrello e poi mi accucciai tra la luce lunare e la parete, dove avrei proiettato uno spaventoso spettacolo di ombre.
Aprì gli occhi disorientato e, stringendo il suo brachiosauro, attaccò con la solita lagna – questa volta, un malinconico Tiziano Ferro.
Stanco di quella pagliacciata, allargai le spalle e, tenendo le mani sui fianchi, spinsi in fuori i gomiti disegnando sul muro una formidabile apertura alare. Sfoderai gli artigli alla luce lunare e sulla parete si materializzò una micidiale fila di zanne: la creatura proiettata era un maestoso pipistrello che strideva e si gonfiava con una ferocia terrificante.
Il ragazzino rimase paralizzato a guardare il chirottero, era sul punto di scoppiare in lacrime dalla paura. Poi si allungò verso il comodino e premette l’interruttore dell’abat-jour, che proiettò sulla parete una nebulosa di stelle. L’Orsa Maggiore si impresse come un diadema sulla fronte del pipistrello e sulle enormi orecchie apparvero due ciondoli fru fru: la costellazione della Lince e quella del Centauro. Il terribile animale pareva si fosse conciato per andare al carnevale di Rio!
Tentai di schivare tutte quelle stelle che ingentilivano i connotati della mia ombra, iniziai a stridere più forte e a muovere le ali creando un frullio raccapricciante. Ma, preso com’ero, non mi accorsi che il ragazzino non solo aveva ricominciato a cantare ma adesso addirittura rideva, tra una parola e l’altra. Guardai il muro per capire cosa ci fosse di divertente e mi accorsi che tutto quel dimenarmi era diventato una ridicola coreografia: pareva che il temibile pipistrello ballasse una Macarena o, forse peggio, il Gioca jouer di Claudio Cecchetto.
Mi rifugiai sotto il letto per la vergogna. Avevo il fiato corto e mi accorsi che le mani mi si stavano sbiancando. Pensai con orrore ai centri e a tutte le pratiche riabilitative che impartivano agli uomini neri falliti e diventati pallidi, quegli stessi centri che – sentendomi superiore – avevo consigliato al mio collega. Proprio io, che in passato avevo terrorizzato Napoleone, Muhammad Ali e tanti altri intrepidi... davvero non ero più capace di spaventare?
Mi sentii attanagliato da una sensazione nuova e terrificante: avevo forse paura?
Strinsi le ginocchia al petto e appoggiai la schiena al muro, ero smarrito.
Il ragazzino fece capoccella dal fondo del letto e io ebbi un sussulto, Non devi aver paura, mi disse con gentilezza prima di rotolare vicino a me. Lo guardai incredulo. Poi, vedendomi turbato, fece segno di aspettare e riapparve col barattolone di Nutella. Ci affondò dentro due dita e me le infilò in bocca, come se fossi stato un cucciolo da nutrire.
Restammo lì, le labbra impiastricciate: io con le mie paure, lui con le sue. Poi mi strinse forte la mano e le nostre paure, messe insieme, diventarono niente.

La mattina eravamo ancora uno accanto all’altro.
Cercai di sfilare il braccio da sotto la sua testa senza svegliarlo e mi guardai la mano con stupore: era candida.
Il ragazzino si svegliò e mi fissò dritto negli occhi: Vorrei poterti mostrare tutta la luce che emani, disse, e corse via.
Tornò con il fiatone, reggeva uno specchio sotto il braccio, ma io, insieme a tutte le sue paure, me n’ero già andato.