GLI DEI NOTTURNI, EFEMERIDI, L’ORA DEL DESTINO. Tre sguardi tra realtà e sogno

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di Debora Lambruschini

Pezzi di vita. Tra realtà e finzione, Danilo Soscia inventa sulla pagina ossessioni, desideri, fragilità e angoli oscuri di quaranta personaggi del Novecento, protagonisti del mondo della cultura, della politica, dello spettacolo. A legare le storie de Gli dei notturni – vite sognate del ventesimo secolo (minimum fax), la dimensione onirica mediante la scrittura immaginifica dell’autore che contribuisce a creare il senso di inafferrabilità, di effimero, in un continuo dialogo tra realtà e finzione, sogno e veglia, insieme alla connotazione temporale, quel secolo breve di cui i personaggi scelti sono stati in qualche modo protagonisti. Soscia immagina i sogni, che molto spesso rivelano le profondità più dolorose e oscure di questi personaggi, il confronto con la morte, la perdita, la fragilità del reale, la sete di vita e di arte, in quaranta brevi racconti che sono frammenti di vite in una dimensione sospesa e inafferrabile.
Il mondo onirico è una costante nella storia letteraria e del pensiero, con cui scrittori, drammaturgi, filosofi, psicanalisti, si sono via via confrontati nel tentativo di immaginare e interpretare i significati nascosti dentro il sogno, una terra di confine, sorta di limbo in cui Soscia colloca i suoi dei, cercando di ricostruirne l’interiorità spogliata dei ruoli pubblici che normalmente sono chiamati a ricoprire. Un esercizio letterario ambizioso, retto da un’immaginazione ricchissima e una scrittura elegante, capace di calarsi nelle pieghe più oscure dell’animo umano, nell’orrore e nella bellezza, nel quotidiano e nella fantasia più irreale. Santi e peccatori, ma tutti umanissimi: Marilyn Monroe, giovane operaia in una fabbrica di fusoliere e già il presagio della disperazione e della solitudine future; Sylvia Plath impegnata a riscrivere il mito di Dedalo e Icaro, per allontanare i fantasmi che la distruggeranno; Julio Cortàzar esule in Francia che insegue se stesso; Pier Paolo Pasolini che va incontro alla morte, magnifico e tragico in quell’ultima notte; Janis Joplin che scopre la propria voce nascere dalla disperazione; la solitudine di Antonio Ligabue, affamato d’amore, artista osannato, uomo respinto; e, ancora, Eva Braun, Charlie Parker, Alda Merini, Rudolf Nureyev e tanti altri protagonisti del Novecento, esseri umani contraddittori, fragili, demoni e santi.

Un tempo, quando si sopravviveva a un naufragio, si donava la propria tunica al dio del mare in segno di gratitudine, e di resa. Sulla soglia della stanza, scelsi di cedere proprio quella coperta che nel dormiveglia avevo intessuto. Ma il dolore non passò, rimase al mio fianco, a darmi struttura, parole, conforto. A niente era valso sopravvivere alla tempesta.

(Sylvia Plath)

Il sogno, quindi, la collocazione temporale e lo stile uniforme, sono il fil rouge che lega i quaranta racconti di Soscia.
C’è qualcosa che affascina nei brevi ritratti fra verità e invenzione letteraria, che talvolta ci danno la possibilità di osservare da un punto di vista inedito l’uomo e l’artista, colti in un momento particolarmente significativo della vicenda biografica o professionale. Non mancano in questo senso esempi notevoli, tra cui due in questa sede mi sento di ricordare, di natura diversa dai racconti di Soscia e ugualmente interessanti, per scelte stilistiche, intenti, spunti di riflessione. In un catalogo piuttosto ampio di testi che possiamo ascrivere al filone qui indicato, dai classici greci e latini fino al più assoluto contemporaneo narrativo, mi sembra interessante soffermarsi su due testi come L’ora del destino di Victoria Shorr edito da Sem a fine 2019, ed Efemeridi di Cesare Catà uscito per Aguaplano nel 2017. Entrambe, così come il testo di Soscia, sono opere molto differenti fra loro, per stile, tematiche e spunti, ma accomunate dal desiderio di osservare e tentare di comprendere ciò che si cela dietro il ruolo pubblico che conosciamo dei personaggi scelti, provando a coglierne l’aspetto più intimo, il dettaglio minimo che si fa rivelatore e fondante, raccontarne le passioni e le ossessioni, fissandoli in un momento decisivo delle loro esistenze. Sono ritratti intimi, vibranti, in entrambi i casi puntuali nella ricostruzione storico-biografica, che non esauriscono il discorso su un autore e una vita, naturalmente, ma ridanno al lettore il senso di umana partecipazione, aprendo spiragli immaginari sul mondo interiore di scrittori, artisti, personaggi storici.

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Victoria Shorr sceglie di raccontare tre donne: Jane Austen, Mary Shelley, Giovanna d’Arco, in altrettante narrazioni di varia lunghezza e stile accomunate dalla brama di libertà che ha caratterizzato le scelte delle protagoniste. Sono tre donne colte nell’attimo in cui scelgono il proprio destino, frammenti di vita quindi che perfettamente si sposano con la forma racconto. Due scrittrici, una martire, simile il desiderio di libertà, la convinzione delle proprie scelte, la rottura con le convenzioni sociali o morali. Jane Austen ritratta nell’attimo in cui sceglie se stessa, la propria indipendenza, per assumere il ruolo di scrittrice; creare sulla pagina l’armonia perfetta che non ha trovato nella vita reale, instillare nei personaggi tutta l’ironia, la vivacità di pensiero in suo possesso, un limite e una colpa nella vita di una giovane nubile dell’Inghilterra edoardiana, un capolavoro di arguzia nel mondo inventato delle sue eroine.

Aveva scelto il suo lavoro rispetto a quello che si potrebbe chiamare “vita”, il matrimonio, i figli, la sicurezza, la ricchezza. In quanti lo fanno? Specialmente tra le donne dell’epoca. Chi aveva il fegato di farlo? Nessuna. Statisticamente nessuna.

(Jane Austen a mezzanotte)

Quello di Austen è un racconto di intima sofferenza, solitudine che si scontra con un anelito alla libertà e all’indipendenza inusuale per l’epoca in cui è vissuta ma che partecipano al costante dialogo dell’autrice con il contemporaneo.
Amore e libertà, dalle convenzioni e dalla morale, sentimenti e affermazione di sé, la donna e la scrittrice: c’è nel lungo racconto di Mary Godwin – poi Shelley - l’impeto di una donna che prima di tutto vuole essere se stessa. Consapevole delle difficoltà che deriveranno dalle proprie scelte, colta, determinata e fragile insieme. Shorr da voce a una Mary tormentata, in quell’ultima struggente attesa di un ritorno che non potrà essere; è un’anima inquieta, Mary, i fantasmi del passato ne affollano i pensieri, la povertà e l’umiliazione sono fonte costante di preoccupazione. Ed è, ancora, una donna alla ricerca di sé: chi è Mary? Chi sceglie di essere Mary? La figlia di Mary Wollstonecraft e William Godwin, con tutto ciò che un’eredità ideologica di tale livello comporta? La moglie di Percy Shelley, il cui amore provoca una rottura con la famiglia d’origine, le convenzioni, la morale? La madre spezzata dal lutto? O, ancora, l’intellettuale, la scrittrice?

Quanto alla sfida, lei era l’unica di tutti loro a prenderla molto seriamente, ritenendola la sua grande opportunità: esserne all’altezza e pubblicare con Byron, oppure ricadere nell’esistenza di una donna qualunque. Nella maternità.

(Mary Shelley sulla spiaggia)

 

È una donna e tante donne insieme, e in questa complessità e contraddizione, Shorr costruisce il suo racconto su Mary Shelley, restituendone ancora il dialogo con la contemporaneità. Torna qui il sogno, nella leggenda sulla creazione dell’opera più celebre della scrittrice inglese, Frankenstein, aprendo il discorso al tema della creazione artistica, al mito stesso dell’ispirazione quasi divina e al mondo onirico come limbo in cui trovano spazio i desideri, le ossessioni, i tormenti e le passioni più profondi dell’uomo. Un sonno agitato, infine, rispecchierà nel finale del racconto l’attesa di Shelley, carica di presagi funesti.
È ancora il confine sempre più labile tra realtà e finzione, sogno e veglia, che percorre il racconto di Giovanna d’Arco, colta nell’ora più buia, la notte prima del rogo. Giovanna, sospesa tra realtà e visioni, sogno e veglia, è condottiera e giovane donna impaurita per il tragico destino che l’attende. Il racconto di Shorr – anche in questo caso basato su puntuali fonti storico bibliografiche – si carica di intensa partecipazione e costringe il lettore a confrontarsi con la sua paura, i dubbi, tra fede e razionalità. Il sogno di Giovanna è la Francia unita, ma soprattutto anche in questo caso la libertà di una donna di essere sé stessa.

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Altri sogni, altre ossessioni, altri desideri, legano i racconti di Cesare Catà: ventisette scrittori moderni, da Keats a Hemingway, rappresentati in un istante decisivo delle loro vite. Uomini e donne, prima ancora che artisti. La scrittura di Catà è elegante, effimera, capace di raccontare l’intimo di ognuno di questi personaggi, dalla scoperta dell’amore al tormento della perdita. Un gioco di specchi fra arte e vita, verità storica e invenzione letteraria, alla ricerca di una giornata particolare nella vita di questi scrittori che in qualche modo si è fatta determinante, tanto nel privato quanto nella loro arte. Un dialogo continuo fra l’arte e la vita perché l’una non può esistere senza l’altra. Il sogno è quello più ambizioso, quello che si fa da svegli, l’incubo è quello di un reale sconvolto dalla tragedia. Sono pagine dense di passione letteraria e capacità di introspezione, in cui quelli che sono gli dei notturni di Soscia diventano qui “semplici” uomini e donne mossi dall’amore, dalle passioni, dalle ossessioni che sono di noi tutti. Fragili, umanissimi. Eppure esseri altri. Keats, che l’amore per Fanny ha reso davvero poeta. Tolkien, solo un giovane che inventa lingue sconosciute e crea mondi per l’amata Edith, compagna di tutta la vita. C.S. Lewis e Dante Gabriel Rossetti, accomunati dalla disperazione per la perdita, smarriti, tormentati.

 

Gli sembrò di impazzire. La ritrasse ancora, nel suo dipinto più riuscito, Beata Beatrix, musa mistica rapita dall’estasi del morire. La seppellirono nel cimitero di Highgate insieme alle poesie da lei scritte e all’unica copia dei versi composti da Rossetti. Lui rinunciava così, abbandonando le proprie opere, al suo cuore. Le chiedeva vanamente perdono, suicidando nella bara la parte più importante di sé.
(Dante Gabriel Rossetti).

 

Molto più che un esercizio letterario, questi tre libri, arguti e intelligenti, sono un’indagine puntigliosa negli angoli più bui dell’animo umano.