Mary McCarthy e l'arte dello short story cycle

di Debora Lambruschini

 

Leggendo Gli uomini della sua vita, il libro con cui esordì la scrittrice statunitense Mary McCarthy, non è facile tenere a mente quando ha fatto la sua prima apparizione in libreria, tale è la contemporaneità delle storie: preceduto dalla pubblicazione su rivista del testo di apertura, “Trattamento barbaro e crudele”, il volume è uscito per la prima volta in America nel 1942. E se forse non possiamo fingere che sia un testo di questo nostro tempo, quasi sicuramente saremo portati a considerarlo almeno degli anni Novanta, quell’epoca eternamente fissata da Sex and the city che, come scoprirete leggendolo, non è poi un così azzardato riferimento. La protagonista di McCarthy, però, la ragazza dapprima senza nome e poi presentata nelle sue molteplici identità e frammenti, Margaret Sargent, si muove per le strade di New York e i suoi circoli intellettuali, ben prima delle quattro eroine di Candace Bushnell. Ma, al pari di Carrie e le altre è una donna libera, indipendente, disinibita, e le sei parti che compongono questo libro ne raccontano – tra le altre cose – le relazioni, i matrimoni, le avventure. C’è poi il contesto, ci sono i dettagli, a ricollocare la storia e lo sguardo del lettore nel suo ambiente, la New York degli anni Trenta-Quaranta. Ma l’incantesimo ormai è stato lanciato e d’ora in poi sarà difficile credere che la voce di Mary McCarthy arrivi in effetti da così lontano.
In Italia The company she keeps, Gli uomini della sua vita, venne pubblicato per la prima volta da Feltrinelli nel 1962 e poi ristampato da Minimum fax nel 2012 con la traduzione di Augusta Darè, fino alla recente riedizione, sempre Minimum fax, di pochi mesi fa, nel luglio 2024, che a catalogo ha anche altri testi fondamentali di McCarthy, Il gruppo e Ricordi di un’educazione cattolica. L’interesse di critica e pubblico verso l’autrice e la sua opera, in effetti, non è mai venuto meno, e si concentra soprattutto su alcune questioni chiave: la componente metaletteraria, lo scarto minimo realtà-finzione, il ritratto non edulcorato della classe intellettuale, del mondo accademico e politico, della società americana, il femminismo, il patriarcato. Elementi che ben si radicano anche in questo primo testo pubblicato da McCarthy, di cui volutamente ho finora usato una vaga etichetta perché la questione è complessa e merita di essere approfondita.
Ma intanto, chi era Mary McCarthy? Ciò che di lei abbiamo bisogno di sapere arriva direttamente dalla sua voce, nell’autobiografia Ricordi di un’educazione cattolica, e ancora prima nei pezzi di sé disseminati in romanzi e racconti.
Rimasta orfana ancora bambina, McCarthy viene cresciuta da lontani parenti, a Minneapolis, dove riceve appunto quella rigida educazione cattolica che tanto profondamente la segnerà e dalla quale prenderà le distanze; un’educazione severa, segnata anche da abusi; l’infanzia e adolescenza trascorse in diversi collegi religiosi, cattolici ma anche protestanti, quando in seguito viene affidata alle cure di altri parenti ancora. L’adolescenza porta con sé la ribellione verso quell’educazione cui è stata sottoposta, tra letture considerate proibite, esperienze sessuali, indipendenza, fuga. Dopo la laurea al Vassar College si trasferisce quindi a New York, città d’elezione e palcoscenico ideale per la sua scrittura, e inizia a collaborare con numerose riviste, a partire da Nation e New Republic, fino a Partisan Review dove lavora come redattrice e critico teatrale. È il contatto con l’intellighenzia newyorkese e un ambiente, la sinistra, che la vedrà tra le protagoniste dei principali circoli culturali. Alla scrittura – e all’attivismo politico – intreccia la carriera accademica, insegnando prima al Bard College e poi al Sarah Lawrence.
Si avverte già nelle prime recensioni e analisi critiche il seme di quella scrittura brillante e lucida che caratterizzerà tutta la produzione a venire, non sempre con lo stesso esito felice, ma di certo peculiare. Quella, appunto, che già si va delineando in Gli uomini della sua vita. Che cos’è, quindi, questo testo con cui McCarthy esordì, prima sulle pagine della Southern Review e poi in volume nel 1942? Romanzo o racconti? E se racconti, di quale tipologia?  Iniziamo subito con l’indisporre l’autrice, scomparsa nel 1989 e quindi nell’impossibilità di controbattere: ha sempre definito The Company she keeps un romanzo e come lei una certa parte della critica letteraria, dei lettori e degli editori, non da ultimo Minimum fax con cui è uscito in Italia. Eppure, a ben guardare, l’etichetta più adatta a questo tipo di narrazione è quella dello short story cycle, una forma che affonda le radici nella tradizione del racconto e arriva fino ai giorni nostri, con esempi anche molto diversi tra loro ma accomunati da una certa postura autoriale e da elementi caratteristici. Come sottolineava già il critico James Nagel nel suo saggio The Contemporary American Short-Story Cycle

 

«lo short story cycle è un genere che affonda le radici nell’antichità, ben prima quindi del romanzo; dal punto di vista storico un «ciclo» è una raccolta di versi o di parti narrative incentrati su un evento o un personaggio principale. Ogni unità costitutiva rappresenta un episodio narrativo indipendente; secondo, esiste un principio unificatore che fornisce la struttura, il movimento e lo sviluppo tematico all’intera opera»

 

Il primo a definire e studiare il genere, negli anni Settanta, è stato il critico Forrest Ingramm, che individuava nello short story cycle una forma intermedia fra racconto e romanzo: un ciclo di storie è, per Ingramm, una serie di racconti in cui ognuno è legato all’altro in equilibrio fra autonomia e unità del tutto; ogni racconto che compone la sequenza, pur non perdendo la propria unicità, «non è di per sé stesso un’esperienza formale completamente chiusa, ma temi e motivi risultano evidenti nell’unità complessiva». Semplificando il più possibile, quindi, uno short story cycle è un libro di racconti in cui ogni storia è collegata all’altra, mantiene – e questa è la grande differenza di fondo dal romanzo – la propria autonomia e indipendenza anche libera dall’insieme, ma si regge su un’architettura che può essere data dalla ricorrenza di temi, ambientazione, personaggi, simboli, motivi, voce narrante. Non tutte le raccolte sono quindi delle sequenze, che devono avere unità e ordine preciso dei singoli racconti e il confine con il romanzo è talvolta labile; tuttavia c’è una differenza di fondo tra short story cycle e capitoli di un romanzo, i quali non rappresentano un’unità costitutiva autonoma. Se già definire i confini della short story è complesso, ancora di più, quindi, tentare di incasellare questa tipologia specifica, di cui, come si diceva, non mancano esempi nella produzione letteraria in lingua inglese: da Winesbourg Ohio di Sherwood Anderson o Nel nostro tempo di Hemingway, fino alla letteratura contemporanea con Olive Kitteridge di Elizabeth Strout, La casa su Mango Street di Sandra Cisneros, Annie John di Jamacia Kincaid, Famiglie ombra di Mia Alvar, Lost in the City di Edward P. Jones, Uno shock di Keith Ridgway, solo per citarne qualcuno.
Se per alcuni di questi titoli l’etichetta di short story cycle – e di racconti come forma – è generalmente accettata dalla maggior parte della critica, degli editori e del pubblico, per altri la questione si fa più complicata, come per esempio La vita delle ragazze e delle donne di Alice Munro e, appunto, Gli uomini della sua vita di Mary McCarthy.  Il testo di Munro è infatti generalmente considerato dalla critica un romanzo, l’unico che avrebbe scritto, ma in realtà si tratta di una serie di sette racconti correlati fra loro, che attraversano le diverse fasi/età della vita della protagonista, in ordine cronologico. Tuttavia, come sottolinea anche Susanna Basso, traduttrice italiana di Munro, La vita delle ragazze e delle donne è una raccolta di racconti, che si sviluppa intorno a un unico personaggio: «con buona pace degli editori che si sono affannati a presentarlo come il tanto atteso "romanzo" di Alice Munro, non è di fatto più romanzo di qualunque altra sua raccolta di storie».
Il discorso si lega, specie nel contesto italiano, anche alle modalità di comunicazione editoriale, perché è ancora piuttosto radicato il pregiudizio sulla forma breve, tanto che spesso vengono scelte etichette giudicate più appetibili per i lettori come la tanto abusata “romanzo in racconti”, che era stata appiccicata anche a Olive Kitteridge. La faccenda a mio avviso va ben oltre la mera questione di etichette e ha a che fare con tutta un’impostazione mentale e, soprattutto, una mancata legittimazione della forma breve.

 

Per quanto riguarda quindi il testo di McCarthy, c’è da rivendicare l’etichetta di short story cycle, nonostante sia presentato come romanzo – ma già nella prefazione e nell’apparato critico si parla di racconti – e così indicato dall’autrice stessa. Questo perché Gli uomini della sua vita soddisfa appieno tutti i requisiti individuati poc’anzi come peculiari della forma, a partire dal più essenziale, l’autonomia del singolo capitolo-racconto inserito in un’architettura che nell’insieme rivela tutto il potenziale, tra occorrenze tematiche, personaggi, scelte formali. Quella stessa frammentarietà che ne distingue la narrazione, poi, è emblema della forma breve stessa, qui rappresentata dall'identità frammentaria della protagonista, Margaret Sargent. L’ordine dei capitoli-racconti – non cronologico – , lo svelamento delle connessioni tra l’uno e l’altro, la pubblicazione su rivista che precede il volume, sono anche questi elementi che ben corrispondono alla definizione scelta.

 

Fuori dalla questione formale, Gli uomini della sua vita si presenta come un testo che sorprende per la straordinaria modernità della narrazione che a tratti sembra quasi estraniarsi dal tempo eppure a esso e al contesto sociale entro cui le storie sono calate si lega in modo inestricabile. La voce di McCarthy è graffiante, resa egregiamente dalla traduzione di Darè, un’opera prima che non possiede quella pienezza dei testi di lì a poco in uscita, ma che inquadra già bene la direzione che l’autrice prenderà. La commistione di finzione e realtà, con la marcata componente autobiografica che lo contraddistingue – e che non venne subito riconosciuta come tale ma solo a seguito della pubblicazione dell’autobiografia – sono un ulteriore spunto di riflessione interessante, per un genere anche qui dalle molteplici forme e interpretazioni, non sempre riuscite, ma che talvolta hanno portato a risultati notevoli. L’esperienza personale ma soprattutto la ripresa in diretta di un contesto sociale che l’autrice conosceva molto bene, vengono quindi rielaborate in queste storie, ritratto quasi mai lusinghiero dei circoli frequentati da McCarthy, come si evince, per esempio, dal racconto “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”. Lo sguardo dell’autrice non fa sconti, la scrittura è brillante – eccezion fatta, a mio avviso, per il racconto “La galleria di un imbroglione”, cui un certo sfoltimento non avrebbe guastato – mai brutale o crudele ma neanche disposta a celare le piccole meschinità e mancanze della società newyorkese, filtrati dallo sguardo di una giovane donna che tenta di farsi strada. In “Trattamento barbaro e crudele” incontriamo per la prima volta la protagonista – qui ancora senza nome – quando è già una giovane moglie, in realtà a un passo dal divorzio: da tempo ha intrecciato una relazione con un altro uomo e si sta gustando quel segreto e l’impatto che avrà la sua rivelazione; le cose in realtà prederanno una piega diversa da quello che aveva immaginato. È il primo frammento di Margaret, Meg, che nel racconto successivo, “La galleria di un imbroglione” è una versione più giovane, non ancora sposata, alle prime esperienze lavorative in città. Trova impiego come segretaria presso una galleria, di cui a poco a poco si rende conto della gestione fantasiosa e pericolante. Altro cambio di prospettiva e salto cronologico per la protagonista di “L’uomo con la camicia Brook Brothers”, che già nel titolo ben inquadrava un certo archetipo maschile – e i ritratti di McCarthy le hanno spesso procurato critiche da chi si riconosceva più o meno celato dietro fattezze letterarie – , racconto di un’avventura sessuale in treno con uno sconosciuto e del desiderio di libertà della protagonista. Particolarmente interessante, accennavo prima, la rappresentazione nei testi di McCarthy dell’ambiente intellettuale, che qui si mostra nei racconti “L’amabile anfitrione” e il già citato “Ritratto dell’intellettuale come uomo di Yale”: nel primo la protagonista smania per essere ammessa nei circoli culturali che contano, tra cui la festa di un uomo particolarmente noioso che conosce però molte persone influenti le quali, tuttavia, non sono affatto interessate al loro ospite. Nel secondo, narrato attraverso la voce del protagonista maschile, un intellettuale socialista, Meg viene licenziata dalla rivista per la quale lavora per via delle proprie opinioni non edulcorate, generando inizialmente sostegno e presa di posizione del compagno, che poi ritratta a seguito di una generosa offerta di lavoro.
Impossibile non immaginare come i protagonisti di quegli ambienti ritratti da McCarthy si siano di volta in volta riconosciuti – e infastiditi – nelle sue storie; ma, la celebre lite tra McCarthy e la collega Lillian Hellman conferma che l’autrice non ha mai avuto intenzione di celare le proprie opinioni, come critica letteraria, scrittrice, militante politica.
Acerbe o meno che queste prime storie possano apparire, ci sono senza dubbio alcuni elementi che possono essere utili anche per gli scrittori contemporanei tra cui l’equilibrio fra finzione e realtà, lo sguardo diretto sul mondo che si sceglie di raccontare liberi da perbenismi. È anche da qui che si compone una narrazione capace di superare la prova del tempo.