La fisiologia del terrore: “Le Horla” di Maupassant
di Alfredo Zucchi
La follia
Due elementi preliminari per entrare nel cuore della cosa. Scrive Maupassant:
“Lentamente, da vent’anni, il soprannaturale è uscito dalle nostre anime. È evaporato come evapora un profumo una volta stappata la bottiglia. Avvicinando le narici all’orifizio ne ritroviamo, appena, un vago sentore. È finita...”
(“Le Fantastique” in Le Gaulois, ottobre 1883)
E ancora:
“Invece di concludere con queste semplici parole: ‘Non lo capisco perché la causa mi sfugge’, immaginiamo subito misteri spaventosi e potenze soprannaturali.”
(“Le Horla” in Le Horla et autres nouvelles, Gallimard, 1986, p. 50)
Queste due affermazioni constrastanti rivelano il carattere peculiare del racconto di Guy de Maupassant “Le Horla”, la cui versione definitiva risale al 1887: l’ingresso della prospettiva scientifica nel dominio del fantastico – una prospettiva che assume, nell’indagine dell’autore, i tratti clinici della malattia e della follia.
La medicina (nella forma delle discipline imperanti a fine ‘800: ipnotismo, magnetismo, alienismo) spiega il soprannaturale attraverso la figura della nevrosi e della suggestione. Così, nella prima versione de “Le Horla”, del 1886, il personaggio principale è internato presso la clinica del Dottor Marrande, illustre alienista parigino. C’è qualcosa, tuttavia, che sfugge al medico stesso.
Il mistero dell’invisibile
“Com’è profondo, questo mistero dell’Invisibile! Non possiamo fare altro che sondarlo con i nostri sensi miserabili, con quegli occhi che non possono percepire il microscopico né il macroscopicopo, né gli abitanti delle stelle né quelli di una goccia d’acqua... con le orecchie che ci ingannano trasformando le vibrazioni in note sonore [...] col palato, che riesce appena a discernere l’età di un vino...”
(“Le Horla”, p. 38)
Questa tesi, sostenuta anche dal fisico Carlo Rovelli ne La realtà non è come ci appare (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014), indica per prima cosa che il fantastico risiede in ciò che ancora non riusciamo a vedere – per questo si può dire che, più che essere gradualmente tramontato col progredire del sapere scientifico, il dominio del fantastico abbia affinato e approfondito i suoi orizzonti.
“Le Horla” è la storia di una possessione. Non si tratta, tuttavia, di uno spirito o di un demonio – il narratore è esplicito al riguardo: si tratta piuttosto di un alieno, di un altro essere, successivo all’uomo sulla scala evolutiva:
“Ah! L’avvoltoio ha mangiato la colomba; il lupo l’agnello; il leone ha divorato il bufalo dalle corna appuntite; l’uomo ha ucciso il leone con la freccia, la spada, la polvere; ma l’Horla farà dell’uomo ciò che noi abbiamo fatto del cavallo e della mucca: il suo servitore, il suo cibo, la sua cosa, con la sola forza della sua volontà.”
Da dove viene questo essere che l’uomo non riesce a vedere col suo senso dominante – la vista – ma di cui percepisce precisamente la presenza, l’oppressione, il dominio?
Dopo l’uomo, l’Horla
L’alterità ci invade fin dal titolo: Horla, tradotto in italiano anche come L’altro o Lo straniero, è neologismo, per alcuni legato al termine dialettale normanno “horsain” (straniero), per altri nome composto (“hors là”, “fuori” e nel contempo “qui”). L’Horla è il nuovo venuto – solo in questo senso mostro.
La “Revue du monde scientifique” (p. 69) riporta nuove inquietanti da Rio de Janeiro: una strana epidemia che costringe la popolazione locale ad abbandonare le proprie case, i terreni coltivati; la gente nella regione di San Paolo si dice “posseduta, governata come bestiame umano da esseri invisibili che si nutrono della loro vita come vampiri, nel sonno, che bevono acqua e latte e non sembrano toccare altro alimento” (p. 70).
È tutto chiaro: quelle imbarcazioni brasiliane, che il narratore ha visto navigare sulla Senna poco prima che la sua possessione cominciasse, hanno trasportato il mostro in Europa – un mostro che beve il suo latte di notte ma non il suo vino; che gli succhia la vita di notte e dirige le sue azioni come un burattinaio. Non c’è scelta: ucciderlo, con qualunque mezzo. E ancora:
“Morto, forse? Il suo corpo? Quel corpo che attraversa la luce del giorno, non potrebbe forse essere immune alle ferite con cui il corpo degli uomini muore? [...] E se non fosse morto?” (p. 79)
Se l’Horla non è morto allora l’uomo deve finire, in favore di una specie più perfetta, più forte. È in questa prefigurazione della fine – una prefigurazione che sostituisce la fine del mondo con la fine di specie – che, fecondato dalla scienza, l’orizzonte fantastico viene a installarsi.