Tradimento di Kafka, di Luca Mignola

Un medico di campagna: tradimento di F. Kafka


di Luca Mignola

Una questione di carattere più generale
Scrive Antonio Moresco in Lettere a nessuno  (Einaudi), pag. 417:

Perché sono state elaborate delle teorie e delle ideologie e dei luoghi comuni per spingere altre persone (in questo caso gli scrittori) a doversi porre nella condizione di chi si deve giustificare e quindi deve vivere la propria condizione come qualcosa che assomiglia a una colpa?

Posta in queste termini, la domanda è kafkiana. Il problema, che Moresco inquadra, riguarda la posizione dello scrittore e la sua funzione nel mondo tecnologico (non a caso il brano si intitola “Perché scrivi?”). Inoltre viene evocato anche il rapporto che intercorre tra la tradizione – teorie e ideologie – e l’innovazione, che Moresco sottolinea con una parola estremamente caratterizzante dell’opera di Kafka, ossia colpa. A questo punto, perché la questione risulti kafkiana per eccellenza, bisogna restringere il campo visuale dall’universo di Moresco a Kafka (allo scrittore Kafka) e sostituire il mondo tecnologico con quello della famiglia, in particolare del padre. Il senso di colpa è, da sempre e per esplicita ammissione dall’autore boemo, una delle chiavi di lettura della sua opera. Nella Lettera al padre più volte Kafka fa notare la differenza, lo scarto di posizione tra sé e il padre, ma pure sempre cosciente che al senso di colpa, che lo scarto comporta, egli può opporre soltanto la sua letteratura come giustificazione. Il campo quindi si allarga di nuovo – Kafka lo richiede! – e viene da interrogarsi sul motivo per il quale quella cosa cristallizzata, la tradizione, richieda allo scrittore delle giustifiche o, anche solo tecnicamente, dei motivi. La risposta in fondo non è neanche tanto difficile, anzi piuttosto immediata, e si può racchiudere in una sola parola: tradimento. Uno scrittore che cerchi un’altra via che lo porti alla superficie del mondo, al di là di ogni senso ulteriore cui la parola può alludere, è sempre un traditore – e questo fu anche Kafka.

Un passo di Jorge L. Borges, da Altre inquisizioni (Feltrinelli), dal saggio “Kafka e i suoi precursori”, rimanda in modo analogo al tradimento – con una sottile sfumatura di distanza (tipica di Borges):

Nel vocabolario critico, la parola precursore è indispensabile, ma bisognerebbe purificarla da ogni significato di polemica o di rivalità. Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro.

In questo stralcio (che è a sua volta un rimando da T. S. Eliot) anche Borges, grazie al suo metodo consolidato in cui lo scrittore si confonde spesso al lettore, ci parla in un modo più ambiguo di Moresco, del tradimento. Con un capovolgimento temporale – absurdum logico di cui i libri di Borges traboccano e, più in generale, la letteratura sudamericana – lo scrittore argentino insinua l’idea fortissima che lo scrittore, perché si possa definire tale, necessariamente modificherà la tradizione, attuerà quel tradimento, senza il quale non può esserci né autore né lettore, né opera né senso.
 

Un medico di campagna: un testamento letterario

Nel 1919, tra Monaco di Baviera e Lipsia, Franz Kafka raccolse 14 racconti brevi, scritti nel periodo che va dal 1914 al 1917. La raccolta si intitola Un medico di campagna (inI racconti a cura di Giulio Schiavoni, BUR. Tutte le citazioni dai racconti sono estratte da questa edizione) ed è siglata dalla dedica “A mio padre”, sulla quale tornerò più avanti.
Il tradimento, dicevo prima. Per comprenderne la forza bisogna restringere di nuovo il campo fino alla tradizione letteraria del racconto. Ricardo Piglia, in Tesi sul racconto sostiene che “un racconto narra sempre due storie”, tesi a sua volta riassunta e dedotta da un aneddoto di Cechov, che dice:

Un uomo, a Montecarlo, va al Casinò, vince un milione, torna a casa, si suicida.

Il doppio riferimento a Piglia e Cechov consente di aprire una finestra sul ‘metodo di Kafka’. Dai Diari emerge fortissimamente un particolare della scrittura kafkiana: l’estenuazione. Kafka scrive e riscrive, modifica, allunga, accorcia, cambia uno stesso passo, anche solo un paragrafo, due righe – infine ripete tutto, come in un esercizio, sebbene quel ripetere sia qualcosa di più simile a uno scavo pesante, un lavoro stancante cui bisogna dedicarsi con tuto il proprio corpo, e che alla fine non lascia energie per nient’altro. La scrittura per Kafka ha come conseguenza fisiologica l’ossessione – e il racconto breve o brevissimo, la forma asciutta che sfiora l’aforisma, è probabilmente il suo canale di sfogo meglio riuscito.

Come può, dunque, questo metodo fondato sull’estenuazione relazionarsi alla tesi di Piglia e tradirla? Per rispondere, bisogna ricordare ciò che lo scrittore argentino dice riguardo ai racconti di Kafka. La sua attenzione si concentra sul rapporto tra le due storie, quindi scrive:

Kafka racconta con chiarezza e semplicità la storia segreta, e narra invece la storia visibile con discrezione e cautela, fino a convertirla in una cosa enigmatica e oscura. Questa stessa inversione fonda ciò che si dice «kafkiano».

L’analisi di Piglia è calzante, ma in gran parte si può applicare ai racconti lunghi (La metamorfosiLa condanna etc.), mentre ritengo che sia fondamentale distinguere nell’opera di Kafka tra racconti lunghi, in cui il processo tra le due storie è quello descritto da Piglia, e racconti brevi, come nel caso di Un medico di campagna, dove accade che le due storie si condensino in una sola, e la condensazione comporta uno slittamento tanto forte, che ogni altra probabilità del lettore di districarsi tra i significati, i casi, le parole, è abortita, tagliata fuori. Non ci sono altre interpretazioni, come nel caso dell’origine e del significato del nome Odradek, esserino che sfugge alla parola stessa che lo definisce, nel racconto Gli affanni del padre di famiglia:

Nell’incertezza di fronte alle due interpretazioni è comunque possibile concludere, con fondatezza, che nessuna delle due coglie nel segno, tanto più che nessuna di esse permette di trovare un significato di tale parola.

In effetti, Odradek rappresenta chiaramente la parola che non si fa restringere nelle interpretazioni, che sfugge alla ragione. Non a caso nella raccolta sono presenti alcuni racconti che parlano a favore di questa ricerca di chiarezza, di affermatività e che ci danno la misura di un altro aspetto del ‘metodo kafkiano’. Uno di questi racconti è Davanti alla Legge, estrapolato (ma sarebbe meglio dire sfrondato delle sue giustificazioni) direttamente da Il processo. Il racconto brevissimo, che ha la forma di una parabola, si trova in questa raccolta privo dei dubbi e delle domande che lo avevano evocato nel romanzo, qui non è più l’intreccio di due storie come intendono Cechov o Borges e Piglia sulla scia di quest’ultimo, ossia quella del guardiano della legge e del contadino che si presenta alla sua porta, quanto il suo contrario, il suo tradimento. Il guardiano e il contadino sono inconciliabili, le loro voci contrastano. Le due storie, che nei racconti più lunghi si intrecciano fino a sciogliere la trama, in quelli brevi o brevissimi raggiungono un’unità formale e di senso che altrove è difficile riscontrare, se solo si pensa a racconti come Giuseppina o il popolo dei topi oppure a Un digiunatore. Inoltre un tratto evidente è che, se in Borges l’incrocio di due storie è spesso il culmine del racconto, momento di intersecazione tra reale e finto, in Kafka questo incrocio, qualora avviene, è un punto di rottura: le due storie non collimano mai, anzi tendono a respingersi, escludendosi a vicenda.

Si arriva così a un punto fermo di questo tradimento: Davanti alla Legge, che ne Il processo è uno snodo necessario per complicare ancora di più le vicende di Joseph K., assume ora, sfrondato di tutte le interpretazioni teologiche, la funzione di indice della scrittura breve di Kafka, fatta quindi di chiarezza e nitore, priva di fughe dimostrative – anzi tutto quell’apparato atto a sondare il terreno della dimostrazione o, per dirla con Moresco, della giustificazione della colpa, così fitto nei romanzi, qui viene abbandonato. La brevità, pare volerci dire Kafka, è fatta di passi misurati, di scelte inequivocabili, di limiti visibili – basti pensare a Un medico di campagna o al più cechoviano dei racconti Un fratricidio.

La dedica

Come ho ricordato prima, Un medico di campagna è siglato dalla dedica al padre, fatto che dà un altro indizio fondamentale su questa raccolta, così unica all’interno della vasta produzione dello scrittore boemo. Per capire meglio quanto la dedica sia funzionale al testo, e in qualche modo lo renda circolare, bisogna porsi la stessa domanda che Moresco, nel passo citato, pone a sé stesso: perché scrivi? Perché uno scrittore deve trovare delle giustifiche al suo ruolo nella società? Non è difficile immaginare che queste domande se le sia poste anche Kafka, anzi ce n’è testimonianza nella Lettera al padre, che si dimostra un testamento di specie, cioè di appartenenza a una determinata famiglia, e è in questa appartenenza che va ricercato il senso di colpa. Non rispettare la legge paterna (legge biologica innanzitutto) significa essere fuori del mondo, portare il peso della propria scelta come Sisifo con il suo masso.
La dedica, in ultima analisi, offre la più profonda chiave di lettura e di senso del tradimento messo in atto da Franz Kafka: Un medico di campagna è il testamento letterario di Kafka, delle sue manie ossessive, dei suoi timori metodologici. È il tentativo disperato di giustificare la propria colpa di fronte al padre, la più tremenda di tutte le colpe: essere uno scrittore.