Who is the dreamer?, di Alfredo Zucchi

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La frase antica

Partiamo da una frase, una domanda che Monica Bellucci pronuncia nel sogno di Gordon Cole, nella quattordicesima puntata di Twin Peaks, The Return, per operare una breve ricognizione in alcune strutture narrative complesse, non lineari:

“Poi lei pronunciò la frase antica: noi siamo come il sognatore,
che sogna e poi vive all’interno del sogno – ma chi è il sognatore?”

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Si tratta di una domanda cui Jorge Luis Borges non teme di dare risposta nel racconto Le rovine circolari. Nei pressi delle rovine di un tempio, un uomo si adopera a un proposito “non impossibile, ma di certo soprannaturale”: sognare un uomo, sognarlo con “minuziosa integrità e imporlo alla realtà” – quest’uomo sarà come un figlio, e solo il dio del fuoco e il padre sapranno che si tratta di un simulacro. Questi i patti.

“Nel sogno dell’uomo che lo sognava, il sognato si svegliò”
(“Le rovine circolari”, in Finzioni, Einaudi, 1995, p. 52)

Il padre, il sognatore, esegue ognuno degli ordini impartiti, in sogno, dal dio del fuoco. Quando il figlio è pronto, lo invia a prendersi cura di un altro tempio del fuoco, a nord del fiume. Due rematori svegliano il padre una notte: gli riferiscono di un uomo magico in un tempio del nord, capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi. Teme allora per il figlio – che questi possa scoprire la sua condizione: essere la proiezione del sogno di qualcun altro. Il suo privilegio è anche la sua umiliazione. I pensieri del padre – le pene che si dà per il figlio che ha pensato e sognato organo per organo, tratto per tratto – sono interrotte bruscamente: accompagnato da una serie di segni inequivocabili, il tempio nei pressi del quale egli risiede, prende fuoco. Le fiamme non mordono la carne dell’uomo – la accarezzano, la inondano senza combustione. Così l’uomo, il padre, il sognatore, capisce di essere egli stesso la proiezione del sogno di qualcun altro.

La risposta di Borges non riguarda dunque l’identità del sognatore, ma la natura della collisione tra sogno e realtà, collisione che sdoppia – moltiplica – le dimensioni, che le incatena in un loop potenzialmente infinito. La frase antica è dunque una domanda retorica.

Verità interiore

Prima di tutto, due aneddoti su La svastica sul sole di Philip K. Dick – due aneddoti che poi sono uno. Vige uno strano stigma, tra gli appassionati di fantascienza, riguardo a questo romanzo, percepito come forse troppo sottile rispetto ad altri in cui l’intuizione dickiana per eccellenza – io sono vivo voi siete morti, questo sdoppiamento della realtà in un nodo inestricabile – trova manifestazioni più palpabili, più nette e forse più comprensibili. Penso a Le tre stimmate di Palmer Eldritch e a Ubik. Parallelamente, La svastica sul sole gode invece di certa fama nei circoli letterari più snob, quelli in cui i generi sono inferiori e la letteratura è Letteratura – è un libro borgesiano, dice ad esempio Ricardo Piglia, poiché gioca con un meccanismo caro allo scrittore argentino, il cortocircuito tra finzione e realtà per il mezzo di un libro.

La svastica sul sole è innanzitutto un’ucronia. In seguito all’assassinio, da parte di Giuseppe Zangara, di Franklin Roosevelt, gli Stati Uniti esitano a intervenire nel conflitto mondiale. Quando infine decidono di schierarsi al fianco degli alleati, è già tardi: Germania e Giappone hanno conquistato Europa e Asia. Nel 1947 gli alleati si arrendono. Quindici anni dopo la fine della guerra, gli Stati Uniti sono divisi in tre zone: la costa orientale è sotto l’egida tedesca; la costa occidentale sotto quella giapponese; nel mezzo, la zona cuscinetto degli Stati delle Montagne Rocciose.  
Circola tuttavia un romanzo – la sua diffusione è più pronunciata nella costa occidentale, dove i giapponesi sono meno inclini alla censura – in cui si racconta una storia diversa: Giappone e Germania hanno perso la guerra. L’autore del romanzo La cavalletta non si rialzerà più è Hawthorne Abendsen.  Per Ricardo Piglia, l’elemento borgesiano de La svastica sul sole è proprio questo romanzo nel romanzo – ci sono invece vettori più decisivi e profondi.

Nella seconda metà del romanzo, il funzionario giapponese Nobosuke Tagomi nota, nei pressi del porto, un enorme edificio mai visto prima; per strada di colpo non passano più risciò asiatici ma taxi; in un bar, i nativi nordamericani lo insultano invece di accoglierlo, come d’abitudine, con imbarazzo e rispetto. Tagomi vede, per qualche minuto, la San Francisco “reale”, la San Francisco dell’altra storia, quella in cui gli Stati Uniti hanno vinto la guerra. La visione – il passaggio da una dimensione all’altra – è veicolata da un oggetto su cui Tagomi medita, un manufatto artistico, un gioiello prodotto da un artigiano locale. Si tratta di oggetto impregnato di wu.

«Le mani dell’artefice,» disse Paul [Kasoura, uomo d’affari giapponese], «possedevano il wu, e hanno permesso al wu di scorrere in quest’oggetto. [...] Attraverso la sua contemplazione, noi stessi otteniamo del wu. Facciamo esperienza della tranquillità associata non con l’arte ma con le cose sacre. [...] È  un oggetto miserabile, senza valore – proprio per questo possiede wu. Ed è un fatto che il wu  sia di solito rintracciabile nei luoghi meno imponenti, [...] nell’immondizia, in un vecchio bastone, in una lattina di birra arruginita per terra.»
(Philip K. Dick, The Man in the High Castle, Penguin Books, 2001)

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Quando Juliana Frink incontra, nella sua villa, Hawthorne Abendsen, scopriamo che lo scrittore non è propriamente l’autore del romanzo La cavalletta non si rialzerà più. Ogni scena, ogni personaggio, ogni svolta della trama,  nel romanzo, sono stati indicati dall’oracolo, l’I Ching, il Libro dei Mutamenti. L’occupazione giapponese ha reso l’uso dell’I Ching popolare nella costa occidentale statunitense – numerosi personaggi del romanzo, asiatici e nordamericani, lo consultano regolarmente.
Juliana si domanda perché mai l’oracolo abbia voluto scrivere un romanzo. Ad Abendsen: l’hai mai chiesto all’oracolo? È il suo segreto, il limite oltre il quale Abendsen, come scrittore, non vuole andare – non ha mai posto questa domanda, non la porrà mai. Juliana osa invece chiedere all’oracolo. Tira le monete sei volte: sole in alto, lago in basso, vuoto nel centro. È l’esagramma 61, la verità interiore.

«È così, allora, il mio libro è veritiero?», chiede Abendsen. «La Germania e il Giappone
hanno perso la guerra?»
«Sì,» fa Juliana. Abendsen tace. «E nemmeno tu, che l’hai scritto, osi affrontarlo».

È una vertigine inaudita – sottile e in sordina, quasi nascosta tra le pagine del romanzo: le due storie, le due dimensioni, coesistono.
 

La versione non ufficiale

La complessità delle prime due stagioni di Twin Peaks è poca cosa rispetto a quello che prende forma a partire da Fuoco cammina con me, prequel della serie uscito a due anni di distanza.

“[Chris Rodley] Il film [Fuoco cammina con me] gioca parecchio con l’idea del tempo. Ad esempio, Dale Cooper è nominato in una scena, ma di fatto non è ancora arrivato a Twin Peaks.[David Lynch] Esatto. Per quanto non ami molto parlare di queste cose, questo devo dirlo a proposito di quella scena – dove Annie appare di colpo nel letto di Laura. Questo accade prima dell’omicidio di Laura, e prima che Cooper arrivi in città. Annie si manifesta, insanguinata, nel letto di Laura, e il vestito che indossa è lo stesso di quando, nella serie, si trova nella Stanza Rossa con Cooper, nella serie – nel futuro. Dice a Laura: «Il buon Dale è nella Loggia. Scrivilo nel tuo diario». E io so che Laura l’ha effettivamente scritto, a margine di una pagina, nel suo diario. Ora, se ci avessero lasciato continuare Twin Peaks, la serie,
qualcuno avrebbe ritrovato quelle pagine.”
(Chris Rodley, Lynch on Lynch, Farrar, Strauss and Giroux, New York, 2005, p. 187)

Questo qualcuno, 25 anni dopo, è Hawk, Deputy Chief della polizia di Twin Peaks.
Come accade allora la comunicazione tra futuro e passato?
Uno dei mantra di Mike, abitante della Loggia, è una domanda che pone di continuo a Cooper: «Siamo nel futuro o siamo nel passato?»

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“[Chris Rodley] Quest’idea di fare un film su nowhere – la Stanza Rossa in Twin Peaks
è uno di questi luoghi?
[David Lynch] Sì. Non c’è alcun problema col tempo, lì dentro.
E può succedere qualunque cosa.”
(Ibidem, p.19)

Qualunque cosa, dice Lynch – mente. Nella penultima puntata di Twin Peaks, The Return, Dale Cooper dice, prima di accedere a un portale che gli permette di tornare nel passato: «Il passato determina il futuro».
Nel passato, Cooper modifica un evento fondamentale – di colpo, la storia che noi conosciamo, che abbiamo visto coi nostri occhi, cessa di esistere. Meglio: essa diventa una variante che in pochi ricorderanno, la versione non ufficiale.

I portali per accedere nel passato, per entrare nelle due logge – e, alla fine, per spostarsi in un’ulteriore, terza dimensione – sono accessibili solo in certi luoghi precisi, in certi momenti precisi.
Se in Borges vettore di passaggio da una dimensione all’altra è il sogno e un tempio in rovina, e in Dick è un libro – un oracolo, non un romanzo –  e un manufatto senza valore, in Twin Peaks la chiave di volta è il tempo stesso.