Proprietà, di Lionel Shriver

Autore: Lionel Shriver Titolo: Proprietà Editore: 66thand2nd Traduzione: Emilia Benghi pp. 344  Euro 18,00

Autore: Lionel Shriver
Titolo: Proprietà
Editore: 66thand2nd
Traduzione: Emilia Benghi
pp. 344 Euro 18,00

di Roberto Galofaro

Parto da lontanissimo. Più d’una volta, parlando di educazione civica e consapevolezza politica, un caro amico, studioso alla Law School di Harvard, ha ribadito di trovare assurdo che nel ventunesimo secolo l’economia non sia una materia nella scuola dell’obbligo. Non l’economia domestica, che la riforma Gentile introdusse in Italia alle medie, e che era incentrata sui servizi necessari alla gestione di una casa e di una comunità, e che sarebbe poi stata modificata in educazione tecnica (assai più neutra dal punto di vista del genere). No, l’economia come disciplina che studia, cito da Wikipedia, «la rete di interdipendenze e interconnessioni tra operatori o soggetti economici che svolgono le attività di produzione, consumo, scambio, lavoro, risparmio e investimento». Il mercato con le sue leggi, insomma, l’inflazione e la fluttuazione del valore delle monete, le borse e la finanza, tutti campi e argomenti imprescindibili per una vita consapevole e con i quali quotidianamente abbiamo a che fare, talvolta senza rendercene conto e persino quando pretendiamo di negarlo.
Confesso che, sulle prime, la formazione di umanista-letterato mi avrebbe portato a confutare la sua tesi: chi troverebbe mai giusto sacrificare un’ora di calda e trascinante letteratura per un’ora dei freddi numeri di una scienza che studia il prezzo e il traffico delle cose e degli umani?
Se l’arte figurativa (come la moda, sorella minore) ci ha abituato alle quotazioni stratosferiche e alle stravaganze del mercato, tanto che è quasi impossibile pensare ai capolavori del presente e del passato prescindendo dalla loro valutazione, per la letteratura il discorso – dal di fuori – è molto più sfumato. Sì, ogni tanto circolano notizie di anticipi stellari e di diritti internazionali disputati all’asta tra colossi, oppure tornano in voga ciclicamente discorsi sul costo eccessivo dei libri (discorsi piuttosto infondati, come dice Orwell qui), ma l’idea prevalente sembra essere quella che associa la lettura a un piacere privato, a un nobile mezzo che ha per fine l’elevazione dello spirito, sottratto e del tutto estraneo al vile denaro. L’otium, in sostanza, contrapposizione al negotium.
Ma le questioni economiche sono centrali anche in letteratura (e non c’è neanche bisogno di scomodare Marx e le sovrastrutture che rispecchiano le strutture). Se non bastasse il fatto che il romanzo è, nella sua origine, prodotto da e per la classe borghese con i suoi orizzonti di scalata sociale, a ricordarci dal di dentro quanto sia imprescindibile in letteratura (come nella realtà) ci sono infiniti capolavori, in cui l’economia è inevitabilmente caposaldo degli eventi. Non accade forse in un famoso romanzo francese che una moglie si indebiti oltremisura per acquistare abiti da sfoggiare con l’amante, fino a scegliere di uscire di scena suicidandosi? O in uno russo che un poveraccio decida di togliere di mezzo una vecchia usuraia, o ancora in uno americano che uno spiantato torni misteriosamente pieno di soldi a farsi bello con la sua amata di un tempo, dando feste a tutto spiano nella sua bella villa sul fiume?
M’è tornata in mente, a proposito, una delle raccomandazioni che Francesco Pacifico desume dalle opere esemplari esaminate in Seminario sui luoghi comuni. Imparare a scrivere (e a leggere) con i classici (minimumfax, 2012). Dal momento che lo spazio di Cattedrale è anche una palestra per scrittori di racconti, voglio condividere questo passaggio (ai tempi – e tuttora – per me illuminante).
Il libro di Pacifico è una raccolta di brevi articoli in ciascuno dei quali viene analizzato un passaggio di un autore (Gogol, Flaubert, Pontiggia, Busi ecc.), per sottolineare come attraverso un uso sapiente dei dettagli i grandi sappiano fornire concretezza e precisione all’immaginazione del lettore; il tutto per comporre un prontuario di consigli di scrittura.
Sulla difficoltà che si incontra ad affrontare le questioni economiche, osserva che «I soldi mettono imbarazzo, una scena come questa [in cui Fitzgerald enumera le rendite di Gloria e Anthony Patch, protagonisti di Belli e dannati di Fitzgerald] ci tocca più in profondità di una scena di sesso».
Eppure, indubbiamente, «dovremmo sempre avere le idee chiare sulla quantità di credito a disposizione dei personaggi da noi inventati, e sui modi in cui intendono spenderlo e amministrarlo. Non esistono vite in cui questo aspetto non esista: un monaco che ha fatto voto di povertà avrà dovuto risolvere la cosa con la propria famiglia, discutere la sua scelta, avrà magari venduto la sua macchina». E infine: «è proprio imbarazzante, certe volte, scrivere “casa di proprietà”: molto peggio che scrivere “sodomia” o “mutande lise”».

Nessun imbarazzo in tal senso mostra Lionel Shriver, e fin dall’eloquente titolo della sua nuova raccolta di racconti, Proprietà, tradotta da Emilia Benghi (66thand2nd, 2021). Scrittrice americana, classe 1957, vincitrice nel 2005 dell’Orange Prize con We Need to Talk About Kevin (da cui l’inquietante film con Tilda Swinton), finalista al National Book Award nel 2010 con So Much for That, di lei 6thand2nd ha già pubblicato il romanzo finanziario-distopico I Mandible 2029-2047: anche lì l’economia era assai più che un demone secondario e sottotraccia, era (come è fuori dal libro e dai libri) l’impalcatura su cui si fondava l’intera invenzione.

Dopo aver letto che a quindici anni ha deciso di cambiare nome di battesimo scegliendone uno maschile quasi per puro spirito di contraddizione; dopo aver letto il suo discorso al Brisbane Writers Festival del 2016, in cui rivendicava davanti a una platea scandalizzata che l’appropriazione culturale non è un reato come non lo è indossare mini sombreri a un party in stile messicano; considerando che è sia fautrice della sanità pubblica negli Stati Uniti che strenua sostenitrice della Brexit; io la immagino, Lionel Shriver, come una specie di Houellebecq donna, scomoda e non ortodossa ma decisamente più a sinistra e quindi socialmente presentabile, e non solo di un’intelligenza straordinaria ma anche, soprattutto, simpatica. Della simpatia spregiudicata e a volte tossica di chi ama esprimersi in barba a ogni convenzione stabilita e a ogni stupida regola del politicamente corretto.
Nessuna recensione può fare a meno di menzionare la fulminante epigrafe di Edward Morgan Forster, in cui l’autore inglese, a proposito di un quadrato di bosco che ha acquistato, si chiede esplicitamente «Se possiedi qualcosa, che effetto ha su di te? Che effetto ha il mio bosco sulla mia persona?» e si risponde altrettanto esplicitamente: «Primo, è un peso che grava su di me. […] Secondo, vorrei che fosse più grande». Meravigliosa sintesi dell’ingombro di responsabilità e di desiderio che il possedere comporta.
Ed è qui, dalla scaturigine di crucci e sicurezze, felicità e dolori, gelosie e invidie che il possesso comporta, che la narrazione di Shriver trova linfa vitale. Non è, quindi, un tema riduttivo ma è, e i dodici racconti stanno lì a dimostrarlo, un modo per entrare nella carne viva dell’essere umano e delle relazioni tra esseri umani.
Nel primo racconto, Il lampadario da terra, Shriver ci accompagna a conoscere la lunga amicizia tra Jillian e Baba, con gli alti e i bassi di un rapporto uomo-donna in cui non ci sono segreti, ci si confida ogni cosa, dalle ricette più complicate alle avventure e disavventure sessuali. Nelle chiacchiere tra loro, che seguono gli appuntamenti settimanali per il tennis, si insinua destabilizzante la nuova fiamma di Baba, Paige, che impone un aut aut: o me o lei (con cui immagina sia ancora viva l’attrazione). Ma questa scheletrica trama non rende affatto giustizia alla qualità dell’intreccio, e alla velenosa disamina delle personalità dei protagonisti.
È chiaro che Shriver non odia i suoi personaggi, ma non si spreca neanche a empatizzare con loro. Se c’è una partecipazione – e, almeno sulla carta, c’è – è a quella maniera composta che ci si aspetta da chi contempla sentimenti negativi come l’odio e l’invidia come mali naturali. È un tipo speciale di ironia, che mette a nudo senza fronzoli i tic, le fissazioni e i cattivi pensieri, come fossero nient’altro che elementi del paesaggio.
E poi, Shriver li fa collidere. Da una parte abbiamo la dedizione amatoriale all’arte di Jillian, che però finisce per produrre una sorta di capolavoro, il “lampadario” del titolo, un’opera che condensa la sua storia personale (con tanto di dente del giudizio incastonato) ed è il correlativo oggettivo della stratificazione dell’intimo rapporto intessuto negli anni con Baba, a lui donato come regalo di nozze; dall’altra l’irresolutezza di Baba, che fino all’ultimo indugia nel chiudere definitivamente con l’amica di un tempo. La proprietà contesa di quell’opera d’arte non è dunque il tema, non lo è neanche la proprietà in senso figurato di Baba, contesa tra amica e futura moglie: è un eccellente esempio del modus operandi di Shriver.
Così in Tassi di cambio il tempo trascorre calcolato sulle fluttuazioni del cambio dollaro/sterlina, in una contesa a distanza tra la tirchieria di un padre che vuole indietro il denaro prestato e il desiderio di rivalsa di un figlio.
Il burrocacao ha per protagonista un uomo che si è incaricato della cura – a distanza – dell’anziano padre, un padre che è stato quantomeno avaro di attenzioni nei confronti dei figli. Ed ecco un buon esempio del distacco, a metà tra ironico e cinico, dell’autrice:

 

Peter si era recato in missione umanitaria in North Carolina per la prima volta dopo che il padre, allora ottantaseienne, era caduto da una scala a pioli mentre puliva le grondaie, fratturandosi il bacino. Questo classico principio della fine aveva fornito l’occasione di preparare la successione ereditaria per garantire l’armonia familiare nel momento in cui si fosse verificato l’inevitabile.

Al pari dell’inevitabile, sembra dire Shriver, l’economia è una legge di natura. Che ci piaccia o no, non possiamo prescinderne.
Ne Il sicomoro spontaneo l’oggetto del contendere è l’albero del vicino che infesta il giardino di Jeannette. Ed ecco due esempi del politicamente scorretto di Shriver (se non proprio della sua cattiveria programmatica):

 

«Gli sforzi di Jeannette per estirpare dal terreno quegli intrusi non sortivano più effetto delle deboli iniziative del ministero dell’Interno per espellere i richiedenti asilo.»

«[Il vicino] le aveva crudelmente immobilizzato la caviglia con il nastro adesivo e l’“Independent” (mica il “Sun”, come pensava Jeannette).

 

In Terrorismo interno la contesa è tra i genitori e il figlio ultratrentenne che non vuol saperne di sloggiare da casa; in Il rubalettere è l’appropriazione dell’identità altrui attraverso il furto della corrispondenza; un racconto su un divorzio si intitola Bolla immobiliare e i due coniugi brindano nel finale «Al negative equity». Ma non serve fare il conto di tutte gli intrecci per arrivare a sottolineare che ciò che interessa a Shriver e ciò a cui noi lettori siamo agganciati è il modo in cui emozioni e transazioni si fronteggiano senza poter mai giungere a una sintesi: i due piani in cui gli esseri umani si muovono costantemente, esseri emozionali e homines oeconomici.
E la caratteristica più evidente di Shriver è proprio il fatto che leggerla è divertente, perché ha delle intuizioni geniali, perché i dialoghi sono sempre taglienti, e perché qua e là, da narratrice partecipe ma distaccata, si permette di infilare delle frasi che suonano come aforismi, intelligenti e scolpiti nella roccia:

 

«[…] a dire il vero il senso di territorialità ha origine ancestrale e a livello emotivo esiste un’enorme differenza tra un ospite e un invasore.» (da Animali infestanti)

«[…] l’indignazione politica è come il sesso: eccitante da fare, imbarazzante da guardare.» (da La coinquilina)

«Quando Harriet era giovane le donne tentavano di cancellare gli stereotipi di genere. Al giorno d’oggi invece si mantenevano gli stereotipi per meglio non corrispondervi.»
(da Terrorismo interno)

 

Leggendo in queste settimane la raccolta, pensavo che dalla penna di Shriver sarebbe bello leggere un reportage sulla vicenda Gamestop, lo short-squeeze che ha bruciato miliardi di dollari degli edge fund ma che potrebbe sgonfiarsi come una bolla rivelandosi l’ennesimo schema di Ponzi senza altra ideologia sottesa che il denaro. Ma anche qui, forse, questo desiderio ignora la peculiarità più evidente di Shriver, e a quella la sottrarrebbe senza motivo, che è il suo considerare in fondo il denaro un dato di fatto tra gli altri, e di divertirsi a lavorare sulle relazioni, inventare personaggi e scambi di battute, storie e dettagli, eventi e reazioni a quegli eventi. Con un’abilità da sceneggiatrice, senza troppo dar peso alla sociologia, né ai grandi ingranaggi della storia.

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