di Fabrizia Gagliardi
Se avete mai cambiato città o paese capirete che anche una semplice passeggiata alimenta l’illusione che lì dove arriva lo stupore dello sguardo, la libertà della scoperta con passi sempre più lontani da casa, forse arriverà un senso di appartenenza.
Se avete mai provato a stare lontani dal luogo d’origine avrete sperimentato la vertigine dello straniero: il potere di essere chiunque lontano dagli occhi indiscreti di chi vi conosce bene, con un sottofondo d’isolamento per la mancanza di un sostrato familiare che valida il vostro posto nel mondo.
Si fa in tempo a capire che la casa lontano da casa inizia ad assomigliare solo a una costruzione molto diversa dalle radici. La storia raccontata è sempre quella di qualcuno che arriva in un luogo e non che è partito da quello di prima. Sono le stesse condizioni in cui troviamo i personaggi di Terézia Mora nei racconti de L’amore tra alieni , pubblicato da Keller Editore con la traduzione di Daria Biagi.
Uomini e donne sono protagonisti “alieni” perché si muovono ai margini della storia e ogni tipo di straordinarietà nelle loro vicende si esaurisce in un bisogno di anonimato tra solitudine e felicità. L’emarginato ha fatto delle sue mancanze, tra delusioni d’amore e rimpianti del passato, una corazza che è diventata rifugio, perché è fatta di tracce uniche di familiarità con il sé precedente.
È facile inseguire il ritmo galoppante dell’anziano maratoneta in Pesce nuota, uccello vola, fino a quando la narrazione non si frammenta tra la consapevolezza del non avere niente di speciale e il disorientamento in un quartiere sconosciuto della città in cui vive.
Corrono fino alla fine della strada, laggiù c’è una galleria e dopo la galleria inizia ormai un altro quartiere, e a Maratoneta viene in mente che lui in realtà non si allontana mai dalla sua zona, a meno che non si trovi da qualche parte a correre una maratona internazionale. Nel quartiere vicino al suo invece non va mai.
In molti altri racconti i personaggi camminano senza sosta, percorrono chilometri a piedi, col treno o con la macchina, in un rito che fa sfiorare la convinzione di conquistare quelle mappe, esattamente come queste ultime hanno implicitamente prevaricato la vita di chi le attraversa.
In Autoritratto con strofinaccio un indizio di felicità come «il primo giorno con la bici è stato il primo giorno in cui sono stata euforica qui» è subito ritrattato dal monito che la città potrebbe dividere la coppia e per questo «uno deve sempre rimanere alla base, in modo che l’altro possa ritrovarlo». Persino il professore giapponese del racconto Il dono ovvero la dea della misericordia cambia casa scopre, nella città che non è la sua, una via parallela a quella dove abita. S’innamorerà di una divinità ma sorgerà il dubbio che il suo vagabondare possa essere travisato («quanti vanno a zonzo di continuo e senza uno scopo concreto vengano in genere considerati sospetti (vagabondi) o da compatire (senzatetto)»).
È proprio l’amore casuale e ramingo a offrire un appiglio dalla doppia personalità: da un lato è la lingua universale che salva i protagonisti nonostante tutto, dall’altra è il pericolo di una delusione che potrebbe portarli al punto di partenza, a sentirsi di nuovo stranieri in un posto più sconosciuto di prima. L’amore tra ragazzi che arrancano immersi nella miseria e nella passione del lavoro ne L’amore tra alieni, il custode notturno di un hotel segretamente innamorato della sorellastra in Hänsel e Gretel si perdono nel bosco, le passioni passeggere di un proprietario ne La pensione portoghese, non sono che squarci momentanei e fragilissimi in un mondo di cambiamenti repentini e casuali.
La scrittura dell’autrice occupa narrazioni lunghe come profondi sospiri: si prendono tutto il tempo per costruire una vita anonima, con minuziosità e lirismo, per poi interrompersi e abbandonare il lettore in salita, a contemplare finali aperti. Lo smarrimento di un perpetuo camminare non è casuale, perché ritrae personalità nel grigiore del confine geografico e linguistico. D’altronde la stessa autrice è la voce emblematica che percorre la letteratura mitteleuropea: nata nel 1971 a Sopron, in Ungheria, cresce in una famiglia bilingue parlando anche il tedesco. Si trasferirà a Berlino poco dopo la caduta del muro e diventerà scrittrice e traduttrice ricevendo numerosi riconoscimenti, fra cui il Premio Ingeborg Bachmann con Seltsame Materie (“Materia strana”), la sua raccolta di racconti d’esordio, l’Adelbert von Chamisso Preis, il premio della fondazione Rowohlt per la traduzione di Harmonia Caelestis di Péter Esterházy.
Più che un esilio di uno scrittore migrante il suo sembra uno sguardo molto democratico che non ripiega sulla letteratura dell’uno o dell’altro paese, ma si rivolge al panorama internazionale. Partendo da inquietudini kafkiane le sue parole sono in grado di creare una narrazione claustrofobica e decentrata assieme: vite particolari ma altrettanto ordinarie e anonime, con un passato in fuga e un futuro non ben definito. Non ci sono grandi sogni o ambizioni, c’è la semplicità di anelare la routine e la noia degli autoctoni, c’è la voglia di fermare il tempo con un amore, c’è tutta l’affanno di desideri molto più scarni rispetto a quelli di chi ha tutto:
Ma il tuo sogno qual è? Qual è la cosa che ti piacerebbe di più fare?
Niente di niente. Guardare il sole che sorge e tramonta. Oltre quei pochi minuti al giorno non vorrei proprio vivere. Non dover mangiare, nulla. Dormire, come una creatura delle fiabe. Che dorme, si sveglia per guardare il sole che sorge e tramonta, e poi si riaddormenta. Sempre così, in eterno.