di Fabrizia Gagliardi
Ci sono visioni cristallizzate nell’esperienza comune: il potere catartico di una passeggiata notturna in città ha creato un inconscio collettivo che si è trasformato in topos letterario. Il flâneur, passeggiatore solitario e assorto, ha tradotto l’inquietudine europea per l’industrializzazione fino a trasporla nell’emarginazione, lo sfruttamento e la velocità d’oltreoceano.
Ci vuole un potere evocativo non indifferente per viaggiare tra l’icona e l’immaginario di Chicago. Stuart Dybek è riuscito nell’intento con La costa di Chicago, arrivato in Italia a trent’anni dalla prima edizione americana, tradotto da Silvia Lumaca e pubblicato da Mattioli 1885. È difficile allontanarsi dai toni seppia e dalla grana puntellata di una pellicola mentale: la Chicago degli anni Venti, traviata dalle lotte intestine, da vizi, corruzione dell’alta società e, più tardi, da Al Capone, mossa dal ritmo bepop e blues, altrettanto prosperosa e culturalmente poliedrica. Una scenografia americana che torna alla mente con Saul Bellow, ed è riportata nella sua spietatezza da puttane, ladri, criminali ed emarginati de Le notti di Chicago di Nelson Algren. Ma come inserirsi in uno scenario letterario già codificato?
I quattordici racconti di Dybek non hanno la pretesa di scostarsi dal realismo di visioni precedenti, ma mostrano la differenza sostanziale tra il ricordare e il vivere la memoria. Farewell, il racconto che apre la raccolta, inizia proprio con la rievocazione di una passeggiata insieme al crepitio della neve, il frustare del vento e un umore malinconico che si spande man mano che il ricordo sta per concludersi. È in Chopin d’inverno che il panorama dell’infanzia dell’autore prende vita: una voce da un edificio, un appartamento, lungo le scale, ascolteremo odori e musicalità dei migranti colmi di speranza: polacchi, messicani, irlandesi intrecciano parentele inedite tra storie del vecchio continente e un clima che insieme alla miseria li stringe l’uno con l’altro.
C’è un momento nello sguardo diretto alla realtà in cui intimità, suono e ambientazione servono come un lento scivolo verso il metafisico:
In confronto alle apparizioni diurne, le sagome sembravano quasi invisibili, mimetizzate nel buio della notte, ombre che avevano spezzato il loro legame con qualsiasi cosa le avesse sbattute fuori, e ora vagavano libere, come sogni fuggiti ai sognatori. Emergevano dai viadotti nelle notti in cui i viadotti esalavano nebbia e i coperchi dei tombini fumavano. Quando sostavano davanti ai portoni d’ingresso gocciolanti, rendevano i portoni bui. Quando uscivano in piena luce – ombre, ma ombre non più supportate dai muri o seguite da un marciapiede – la pioggia, che cadeva obliqua nel bagliore dei lampioni e delle insegne dei negozi, si imperlava su di loro come elettricità fusa. I fari in arrivo gli si curvavano intorno, il fascio di luce ne delineava il profilo.
A scandire i contorni temporali sempre più indefiniti contribuiscono spazio e buio: le sagome architettoniche trasmettono il chiaroscuro alle figure che partoriscono. Non a caso il riferimento più immediato è ai Nottambuli di Hopper, e infatti il titolo omonimo del racconto di Dybek anima l’immobilità del dipinto: sguardi di sconosciuti attraversano la città da un capo all’altro, dai bassifondi alla Gold Coast, tutti accomunati dalla contemplazione estatica della propria condizione immersa nel paesaggio. Sugli occhi dei giovani non grava tanto il peso del tempo quanto il bisogno di crescere e ripartire dalla distruzione. Lo sanno bene i bambini che intravedono il futuro con il ritrovamento del cadavere di un uomo in Morte di un esterno destro («Forse volevamo che il nuovo esterno destro, chiunque fosse stato, la notasse, e si facesse delle domande su chi aveva giocato lì prima di lui, capendo che adesso lui era l’unico legame tra passato e futuro») o il ragazzino che usa tappi di bottiglia per costruire un cimitero d’insetti in Tappi di bottiglia.
L’infanzia è vissuta in una strada che non nasconde mai la propria corruzione. In Disagio con una carrellata liberatoria, che ricorda Sulla strada di Kerouac, assistiamo impotenti a un’evoluzione: la corruzione e il degrado fagocitano parti di una città tra le speranze e la fallibilità della memoria quando si allontana dal luogo d’origine («Erano sparite cose che non potevano ricordare ma che gli mancavano; ed erano sparite cose non erano nemmeno sicuri che ci fossero mai state»).
Ai sette racconti di più ampio respiro se ne affiancano altri sette che suggeriscono come la flash fiction si presti benissimo al ritmo senza tempo della città. Il flâneur si evolve in un’entità immanente: diventa la moltitudine di suoni e colori all’apparenza scostanti per uno sguardo straniero, ma che ben presto significheranno casa.