di Roberto Galofaro
Ha il fascino della parola forbita e ricercata, del giro di frase complesso, la prosa di Marco Marrucci, il nuovo autore italiano pubblicato da Racconti edizioni.
I dieci racconti che compongono Ovunque sulla terra gli uomini spaziano, per ambientazione, dalla Mongolia al Giappone, dalla California alla Tessaglia, da Firenze a Melbourne, da Marrakech a Uppsala, a San Salvador. In questa varietà, va osservato che il contesto spaziale è appena accennato, le coordinate sono tracciate, tanto nei racconti in prima quanto in quelli in terza persona, con pochi tratti essenziali: sulla geografia non è mai calcata la mano. Perché a Marrucci interessano gli uomini più che i luoghi. Forse la costanza dell’umano a tutte le latitudini è l’ideale sotteso a questo “Atlante degli uomini” (come recitava il titolo originariamente scelto dall’autore).
L’attitudine di Marrucci è evidente già nell’incipit di Il diario di Manuelita, il primo della raccolta. Tra nomi e toponimi dal sapore sudamericano (siamo a San Salvador), ci troviamo gettati di fronte a una rievocazione, al gioco dei ricordi che fanno capolino dal silenzio del passato o che affollano la memoria della protagonista: ecco, io parlo per luoghi comuni, pescando le frasi alla buona e senza vaglio. Marrucci invece lavora di fino e nella sua officina, che sembra un’oreficeria, cesella parole come monili con la creatività e l’attenzione dell’artigiano di metalli preziosi:
Quando ripenso a ciò che accadde sette anni fa la prima immagine che si affaccia dal bordo della vita trascorsa, l’aspo e il globulo di trina su cui posso riavvolgere i fili inquieti dei ricordi e districarne le linee di colore (qui c’è il verde, poi il rosso, subito dopo l’azzurro),
è mamma che piange.
Ferinità e fiducia sono i temi del primo racconto, che ha il gemello nell’ultimo, con il quale crea una sorta di cornice: il legame misterico che unisce un uomo a un animale (la fanciulla Rema alla volpe Estrella, quasi uno spirito guida) ha la stessa natura indefinibile che ha il legame tra uomo e uomo. Nel secondo leggiamo un’allegoria dell’amore che diventa mito. Il quarto allude alla metamorfosi kafkiana di un cuoco – qui l’orrendo rumore che produce il corpo della blatta sotto la suola (quanta maestria nello scarto rispetto al più frequentato “scarafaggio”) diventa il mezzo di un rivoltante contagio e insieme la via della follia, la contaminazione. Nel quinto un turista pavido si affida a due giovani berberi e affronta la paura di come andrà a finire. L’ottavo è la ricostruzione – assai parziale – di un delitto. Il più poetico, il nono, Le notti sopra la Tessaglia, ha l’andamento di certi dialoghi delle operette morali leopardiane, ed è il racconto di un nonno al nipote sul segreto alternarsi del dì e della notte nella sfera celeste.
Non serve farne l’intera disamina, perché non è nelle trame e nella loro risoluzione la sostanza di questo libro. C’è una costante, ed è chiaramente la tensione della lingua. Una lingua ordinata, la cui scaturigine sembra quasi esercizio più che slancio; l’aggettivo colorito trovato con cura, la varietà nemica della ripetizione, la laccatura formale, la scelta degli avverbi che accompagnano i verbi. Marrucci, va detto a scanso d’equivoci, non è barocco, non gli interessa l’affabulazione costellata di metafore e ingombra di segni oscuri, quasi elementi di una litania orfica, addensati in una pozione che vuole evocare la magica connessione tra il mondo materiale e il mondo immateriale, creando per accumulo una verità finzionale che si collochi in bilico tra i due mondi. No, Marrucci ricerca proprio la ricchezza della descrizione, non ha paura dell’accumulo, il suo ideale di chiarezza non è lo stupore ma l’abbondanza moderata dalla limatura, lo sforzo per conseguire la precisione.
Qualche volta la perizia della nomenclatura e dell’aggettivazione finisce per dare spago a un eccesso di verbosità, in cui la parola vorrebbe farsi metafora, da esatta descrizione che era o voleva essere. Non è uno stridore, è più un crepitare: è il caso di Bocca d’Arno, in cui è in scena una Firenze stradale, quasi surreale con il morto che parla, da sotto le acque dell’Arno, ubriaco. Dove va questo racconto? È interessante: qui come altrove le storie si dispiegano con grande libertà. Qualche volta però ci si trova a chiedersi: non sarebbe stato meglio evitare qualcuno dei dettagli? (Si veda un’espressione sfuggita alla censura come: “Bicchieri disseccati”). La verbosità è il limite del coraggio di Marrucci, si potrebbe dire; qualcosa da dirozzare c’è, insomma, ma sono piccole stonature, accordi che non tornano, una manciata di aggettivi di troppo, minuzie. E si vede la gran cura del togliere, del limare: è un ottimo inizio, un indizio di potenzialità.
Non è affatto necessario, ma sembra giusto che alla recensione di Ovunque sulla terra gli uomini faccia seguito una noterella sulle circostanze che precedettero la sua pubblicazione, prendendo le mosse dal solo dato biografico sull’autore che, ad eccezione della data e del luogo di nascita (San Miniato, 1985), è stato riportato in bandella: «Marco Marrucci ha inviato un manoscritto che adesso è il suo libro d’esordio».
Questo accadimento ha del prodigioso, se si prendono per veri i resoconti degli editor delle case editrici, le più disparate, di ogni ordine e grado, sul numero di proposte editoriali ricevute quotidianamente e quotidianamente accatastate, alle quali spesso per necessità ma più spesso per ragioni di efficienza, si dedicano pochi minuti (il tempo della lettura di alcune pagine, trenta al massimo) e un silenzio che diventa il sigillo del rifiuto.
Non serve insistere sulle proporzioni da leggenda metropolitana che a questa situazione alcuni attribuiscono, né sulle descrizioni polarizzate che certi fanatici assurdamente danno di questa necessaria selezione, come di un strumento di esclusione di massa ai danni di tanti, troppi, scrittori presso sé stessi che meriterebbero la pubblicazione, la fama, lo Strega, il Nobel, la sepoltura a Santa Croce.
Il fatto è che nell’epoca della (presunta) disintermediazione, che spesso è l’autostrada per il self publishing, è più che mai necessario il filtro di mediatori specializzati nell’accesso alla pubblicazione: agenti, lettori, scout. Ma anche, e soprattutto, l’attività delle riviste, insieme banco di prova e prima vetrina. Perciò stupisce che Marrucci non abbia mai “provato” la sua voce, prima dell’esordio: questa la ragione dell’interesse intorno alla vicenda. Non ha scritto recensioni o racconti per nessuna delle tante e vivaci riviste della “scena fiorentina” e del resto d’Italia né cartacee né online, non ha un blog, non ha creato una corte di follower con le sue storie sui social. Era, insomma, invisibile ai radar fino al momento dell’invio del suo manoscritto. Ecco, Marrucci ha vissuto un’avventura editoriale degna di una favola, da ciò lo sottolineatura dell’editore (e nostra): un bell’esempio di virtù premiata, di meritocrazia, di successo partito dal basso. Chiamatela come volete, è una bella storia da raccontare, e fa onore al lavoro di Racconti edizioni.