Piccole apocalissi, di Livio Santoro

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Epifanie minime
L’esordio di Livio Santoro

 di Andrea Cafarella


Ogni esordio suona sempre come una presentazione.
Bisognerebbe poi fare un distinguo tra un esordio assoluto e un esordio in lingua e poi dovremmo considerare accuratamente il periodo del quale stiamo parlando, solo per capire il ruolo che un libro d’esordio possa aver avuto per un autore e per il suo pubblico e i pubblici che si sono passati il testimone nei decenni.
Basti pensare agli esempi di Jorge Luis Borges, Julio Cortázar e Roberto Bolaño. Tre scrittori sudamericani molto diversi, probabilmente i più grandi del novecento, appartenenti a tre generazioni che si susseguono. Borges esordisce nel 1923, Cortázar nel 1945 e Bolaño nel 1976. Ognuno di questi esordi ha una diversa storia: Furore a Buenos Aires di Borges ha avuto una prima pubblicazione frettolosa, seguita da un posteriore labor limae che ha trasformato il suo Furore in quella che ora è una raccolta poetica tradotta in tutto il mondo, simbolo dello spirito argentino. L’altra sponda di Cortázar è stato messo in ombra dal Bestiario ed è diventato un’opera minore che troviamo solitamente nelle raccolte complessive di tutti i racconti. Reinventar el amor, un po’ come tutta la poesia di Bolaño, si è tramutato in un cimelio per appassionati, raramente citato o tradotto. La caratteristica che mi interessa di questi libri è una certa “inconsapevolezza”. Si dice sempre che la caratteristica essenziale di uno stile solido e credibile sia la consapevolezza, eppure, credo che l’eccesso di questa immancabile qualità possa portare – causa l’ansia psicotica del giudizio altrui – a una castrazione assoluta dell’altro attributo indispensabile che pertiene allo Stile: il coraggio.
A questi tre giganti sudamericani il coraggio di certo non mancava, tuttavia, sono convinto che è soprattutto nei primi e negli ultimi libri che si può trovare il cuore magmatico della loro scrittura: per Borges i primi sono Inquisizioni (1925) e Finzioni (1944 – il suo secondo libro di racconti dopo Storia universale dell’infamia) e gli ultimi: Libro di sogni (1976) e Nove saggi danteschi (1982); Cortázar pubblicò Rayuela nel 1963 e – dato ancora più ambiguo e significativo – pubblica nel 1986 Divertimento e L’esame (scritti rispettivamente nel 1949 e nel 1950) e nel 1995 Diario di Andrés Fava (un frammento del testo originale de L’esame); Il caso di Bolaño è ancora più palese poiché i suoi due libri più famosi, importanti e splendenti, I Detective Selvaggi e 2666, furono pubblicati rispettivamente nel 1998 (tre anni dopo i suoi primissimi romanzi brevi) e nel 2004, incompiuto, dopo la sua morte e a seguito di un lavoro estenuante che lo impegnò fino agli ultimi giorni di vita. Tutti questi dati possono non voler dire assolutamente nulla, anzi, in quanto dati non significano niente: ma. Ma possiamo senza dubbio affermare che i primi e gli ultimi passi lungo il cammino hanno sempre un sapore diverso rispetto a tutti gli altri passi. Illuminano la via che va a venire e adombrano quanto abbiamo lasciato alle spalle, dandoci tempo e spazio per riposarci sopra. Sono l’inizio e la fine e, in barba al «qui e ora», sono quanto di più eloquente e rappresentativo esista del viaggio, dell’opera e della vita stessa di ognuno di noi.

Siamo onorati e lieti di presentarvi, attraverso un racconto estratto dalla sua prima raccolta pubblicata in Italia, Piccole apocalissi (Edicola, 2019), il primo passo, l’esordio di Livio Santoro. Vi basterà cercare il suo nome nell’immensa ragnatela del web per avere un’idea del percorso che lo ha portato fino a questo importante “primo passo”. Si occupa di letteratura sudamericana, ha scritto diversi pezzi di critica sull’opera di Volodine e trovate suoi racconti in diverse riviste, se vorrete farvene un’idea previa. I racconti contenuti in Piccole apocalissi sono «epifanie minime», prendono piede da quella che al giorno d’oggi viene chiamata microfiction o micronarrazione ma non gli importa niente di saperlo – come non importava a Borges, d’altronde –, divampano dello stesso fuoco delle più differenti lingue babiloniche. Parlano tutti gli idiomi, le apocalissi di Santoro, indagano il quotidiano come il fantastico, esplodono ma senza fare il botto: esplodono dentro, in silenzio, nell’illusione che tutto rimanga quel che è ma lasciando il mondo totalmente diverso da com’era prima, prima del momento illuminante, prima di vedere le stelle muoversi nella luce del sole.

Ringraziamo l’autore e l’editore per averci gentilmente permesso la pubblicazione del testo che segue.


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Piccole apocalissi

Il giovanissimo Antonino era quel che si dice una peste. Una maledizione, insomma, per i suoi genitori. Non stava mai fermo, non prestava attenzione, masticava ogni cosa per poi sputartela in faccia e non potevi girarti che rompeva un bicchiere o ti tirava un calcione.
Nessuno era capace di farlo star buono, ancorché utilizzasse coercizione e minacce. Solo una cosa lo rendeva momentaneamente inerte e tranquillo, per il breve conforto di mamma e papà. Era quando di pomeriggio, un po’ prima del tramonto, il sole entrava in salone sotto forma di una striscia obliqua tra le tende della finestra, andando a finire sul muro di fronte. In quella fetta illuminata di stanza, Antonino contemplava le particole di polvere che riflettevano il sole muovendosi scoordinate nell’aria. Fermo e con la bocca aperta, le osservava con tanta intensità da tralasciare gli abituali uffici.
Quella pace temporanea era tanto gradevole e sacra che i due afflitti genitori, timorosi di infrangere malauguratamente l’incantesimo, evitavano persino di chiedere ad Antonino cosa ci trovasse di bello nella luce filtrante, ed evitavano pure di pulire per bene il salone.
Venne però un giorno in cui, cedendo alla speranza di trarre qualche informazione utile a estendere la quiete del bimbo anche nelle ore lontane dal tramonto, dopo lungo e attento consulto si decisero cauti a interrogare il figliolo.
Perché ti piace così tanto questa luce, Antonino?, gli fece garbata la mamma, porgendogli una fetta di torta.
Perché lì dentro la polvere mi sembrano le stelle, rispose il bambino senza nemmeno guardarla.
È vero, le stelle sono belle, ribatté lei, vogliamo andare a guardare anche quelle su in cielo, più tardi? No, rispose immediato Antonino, e stavolta si girò per fissarla negli occhi. Quelle stanno ferme.
Queste invece si muovono, sbattono una contro l’altra, vanno a finire sul muro. A quest’ora, qui a casa è come la fine di tutto l’universo.

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