Ptosi, di Guadalupe Nettel

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È in libreria Petali, e altri racconti scomodi, di Guadalupe Nettel, tradotti da Federica Niola e pubblicati da La Nuova Frontiera.

Maniacali, eccentrici o semplicemente troppo umani, i protagonisti di questi racconti a volte sembrano opporsi alla loro alterità, altre volte si abbandonano al loro amaro desiderio, portando però sempre su di loro l’oscuro fascino dell’anomalia.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.

*

PTOSI

di Guadalupe Nettel

Il lavoro di mio padre, come tanti altri in questa città, è un impiego parassitario. Fotografo di professione, sarebbe morto di fame – e con lui tutta la famiglia – se non fosse stato per la generosa proposta del dottor Ruellan che, oltre a uno stipendio dignitoso, offrì alla sua ispirazione imprevedibile la possibilità di concentrarsi su un compito meccanico, senza grandi difficoltà. Il dottor Ruellan è il migliore chirurgo palpebrale di Parigi, opera all’Hôpital des Quinze-Vingts e ha una clientela inesauribile. Alcuni pazienti sono disposti persino ad aspettare un anno per un appuntamento piuttosto che rivolgersi a un medico meno rinomato. Prima di operare, il nostro benefattore impone ai suoi pazienti due serie di fotografie: la prima consiste in cinque scatti ravvicinati – a occhi chiusi e aperti – affinché rimanga una prova del loro stato prima dell’operazione. La seconda si realizza dopo l’intervento, quando la ferita è ormai cicatrizzata. Quindi, a prescindere da quanto siano soddisfatti del lavoro, vediamo i nostri clienti solo due volte nella vita. Tuttavia può capitare che il dottore commetta qualche errore – nessuno, neppure lui, è perfetto –: un occhio resta più chiuso dell’altro o, al contrario, troppo aperto. Allora la persona si ripresenta per farsi scattare una nuova serie di fotografie, che pagherà altri trecento euro, perché mio padre non è responsabile degli errori medici. Può sembrare strano, ma gli interventi alle palpebre sono molto frequenti e le motivazioni innumerevoli, a cominciare dalle conseguenze nefaste dell’età, dalla vanità delle persone che non sopportano i segni della vecchiaia sul volto; ma anche gli incidenti d’auto, che spesso sfigurano i passeggeri, le esplosioni, gli incendi e tutta una serie di altri imprevisti: la pelle della palpebra è insospettabilmente delicata.
Nel nostro negozio, vicino a place Gambetta, mio padre ha appeso alcune fotografie incorniciate, scattate durante la giovinezza: un ponte medievale, una zingara che stende il bucato vicino alla roulotte e una scultura esposta nei Giardini del Lussemburgo, che gli valse un premio giovanile a Rennes. Basta guardarle per capire che, in tempi molto lontani, aveva talento. Alle pareti ci sono anche opere più recenti: il volto di un bambino bellissimo, morto nella sala operatoria di Ruellan (un problema di anestesia), con il corpo splendente sul tavolo operatorio, bagnato da una luce chiarissima, quasi celestiale, che entra radente da una finestra.
Cominciai a lavorare nello studio all’età di quindici anni, quando decisi di lasciare la scuola. Mio padre aveva bisogno di un aiutante e mi inserì nella sua squadra. Così imparai il mestiere di fotografo medico specializzato in oftalmologia. Anche se in seguito, con il passare del tempo, mi dedicai ai lavori d’ufficio, come tenere la contabilità del negozio. Mi è capitato di rado, in città o in campagna, di andare alla ricerca di una scena che ispirasse il mio obiettivo volubile. Quando passeggio, in genere non ho la macchina fotografica, perché la dimentico o per paura di perderla. Devo confessare, tuttavia, che spesso, mentre cammino per la strada o nei corridoi di un edificio, avverto il desiderio improvviso di scattare una foto, non di paesaggi o di ponti come faceva un tempo mio padre, ma di palpebre insolite che di tanto in tanto individuo tra la folla. Trovo questa parte del corpo che ho visto sin dall’infanzia, e che non mi ha mai suscitato neppure un accenno d’insofferenza, affascinante. Esibita e celata in modo intermittente, ti costringe a stare all’erta per scoprire qualcosa che valga davvero la pena. Il fotografo deve evitare di abbassare le palpebre in contemporanea al soggetto dello studio e catturare l’attimo in cui l’occhio si chiude come un’ostrica giocherellona. Mi sono convinto che ci sia bisogno di un’intuizione speciale, come quella dei cacciatori di insetti, perché non credo vi sia molta differenza tra il battito d’ali e quello delle ciglia.

Mi annovero nell’esigua percentuale di persone appassionate del proprio lavoro e, in questo senso, mi considero fortunato. Ma la mia affermazione non deve trarre in inganno: il nostro mestiere presenta una serie di convenienti. In studio passano persone di ogni genere, il più delle volte in situazioni disperate. Le palpebre che arrivano qui sono quasi tutte orribili, e se non provocano disagio, fanno pena. Non è per nulla che i loro proprietari preferiscano operarsi. Una volta trascorsi i due mesi di convalescenza, quando i pazienti, ormai trasformati, tornano per la seconda serie di fotografie, tiriamo un respiro di sollievo. Di rado il miglioramento raggiunge il cento per cento, ma cambia completamente un volto, la sua espressione, il suo aspetto permanente. Gli occhi sembrano più equilibrati ma, se si osserva bene – soprattutto quando si sono visti migliaia di volti modificati dalla stessa mano – si scopre una cosa abominevole: in qualche modo, si assomigliano tutti. È come se il dottor Ruellan imprimesse un segno distintivo nei suoi pazienti, un marchio lieve ma inconfondibile.
Nonostante le soddisfazioni che dà, questa professione, come qualunque altra, finisce per rendere indifferenti. Ricordo di avere visto pochi casi veramente memorabili nel nostro laboratorio fotografico. Quando capita, mi avvicino a mio padre, mentre prepara la pellicola nel retrobottega, e gli chiedo all’orecchio di concedermi lo scatto dell’otturatore. Lui acconsente sempre, pur non capendo la ragione del mio improvviso interesse. Una di queste scoperte avvenne meno di un anno fa, a novembre. Durante l’inverno lo studio, situato al piano terra di una vecchia fabbrica, è umido in modo insopportabile ed è preferibile stare all’addiaccio piuttosto che rimanere in quella caverna gelida e buia per esigenze lavorative. Mio padre quel pomeriggio non c’era, e io, morto di freddo accanto alla porta, mi distraevo osservando l’indecisione della pioggia mentre maledicevo una cliente che era in ritardo di oltre un quarto d’ora. Quando finalmente la sagoma della cliente comparve dietro l’inferriata, mi sorprese che fosse così giovane, avrà avuto al massimo vent’anni. Un berretto nero, impermeabile, le copriva la testa e lasciava scivolare le gocce d’acqua sui lunghi capelli. La sua palpebra sinistra era di circa tre millimetri più chiusa rispetto alla destra. Entrambe avevano uno sguardo sognante, ma la sinistra mostrava una sensualità anomala, come se pesasse. Guardandola fui pervaso da una sensazione curiosa, dal piacevole senso d’inferiorità che provo di solito davanti alle donne troppo belle.
Con una lentezza esasperante, come se non si curasse affatto del ritardo, si avvicinò per domandare a quale piano fosse lo studio fotografico. Di sicuro mi aveva scambiato per il portiere.
«È qui» le dissi. «Si trova davanti alla porta del negozio.» Tirai il chiavistello e, con un’espressione esaltata che lei non colse, accesi tutti i riflettori, come quando un membro della famiglia reale entra in una sala da ballo. Non appena fu entrata, si tolse il cappello, la sua lunga chioma nera sembrava un prolungamento della pioggia. Come tutti i clienti, mi spiegò che aveva un appuntamento con il dottor Ruellan perché risolvesse il suo problema.
«Quale problema?» stavo per domandarle. «Lei non ha nessun problema.» Ma mi astenni. Era così giovane… non volevo turbarla e preferii un commento banale.
«Non sembra di Parigi. Da dove viene?»
«Dalla Piccardia» rispose lei, timidamente, evitando di incrociare il mio sguardo come fanno di solito i pazienti. Ma in quel momento, invece di rallegrarmi, il suo atteggiamento schivo mi gettò nello sconforto. Avrei dato qualsiasi cosa per restare a guardare tutto il pomeriggio quella palpebra pesante e insieme fragile, e avrei dato il doppio perché quegli occhi si posassero su di me.
«Le piace Parigi?» domandai, adottando un tono falsamente distratto.

«Sì, ma non posso trattenermi a lungo. In realtà sono venuta soltanto per l’operazione.»
«Parigi la conquisterà, ne stia pur certa. Quando meno se lo aspetta, verrà a vivere qui.»
La ragazza sorrise, chinando la testa. «Non credo. Vorrei tornare a Pontoise il prima possibile, non vorrei perdere l’anno.»
Il pensiero che quella donna vivesse in un’altra città bastò a deprimermi. Divenni di cattivo umore. In modo improvviso, forse un po’ brusco, interruppi la conversazione per andare a prendere la pellicola.
«Si sieda qui» le intimai al ritorno. In tutta la mia vita professionale non ero mai stato così poco gentile. La ragazza prese posto sullo sgabello e si tirò indietro i capelli, lasciando in mostra il volto.

«Non so se lo sa» le dissi simulando compassione «ma i risultati non sono mai perfetti. Il suo occhio non sarà mai uguale all’altro. Il dottore glielo ha spiegato?» Lei assentì in silenzio.
«Ma mi ha anche detto che le due palpebre saranno alla stessa altezza. Per me è sufficiente.»
Ero pronto a mostrarle una serie di fotografie di operazioni non riuscite al fine di dissuaderla. Pensai di dirle che, in ogni caso, le sarebbe rimasto il marchio inconfondibile dei pazienti operati dal dottor Ruellan, una tribù di mutanti. Ma non ne ebbi il coraggio. Senza dire una parola le sistemai lo sfondo bianco dietro alla testa, puntandole il riflettore negli occhi. Invece dei soliti tre scatti, premetti il pulsante dell’otturatore quindici volte e avrei continuato fino all’imbrunire, se non fosse arrivato mio padre.
Quando udii il rumore del chiavistello, spensi i fari. La ragazza si alzò e si avvicinò al bancone per firmare un assegno sul quale lessi il suo nome, scritto con una grafia da scolaretta.
«Mi auguri buona fortuna» disse. «Ci vediamo tra due mesi.»
Non so come descrivere lo sconforto in cui sprofondai quel pomeriggio. Sviluppai immediatamente le foto; misi le più convenzionali in una busta con il timbro dell’ospedale e conservai quella che mi parve la più riuscita nel cassetto della mia scrivania: uno scatto frontale, sognante e osceno.
I miei sforzi per dimenticarla si rivelarono inutili. Per tre mesi aspettai con autentico terrore che tornasse per la seconda serie, volevo a tutti i costi non essere presente. Ogni lunedì davo un’occhiata all’agenda di mio padre per sapere quando assentarmi. Ma lei non venne.
Un pomeriggio, all’inizio dell’estate, mentre camminavo sul lungofiume in cerca di palpebre interessanti, la rividi. In quei giorni la Senna scorreva placida; le pietre ne riflettevano il colore verde scuro e il movimento oscillante. Anche lei stava guardando il fiume, e per poco non ci scontrammo. Con mia grande sorpresa, i suoi occhi erano uguali a prima. La salutai con cortesia, facendo di tutto per nascondere la mia gioia, ma dopo qualche minuto non riuscii a trattenermi: «Ha cambiato idea?» le domandai. «Ha deciso di non operarsi?»
«Il dottore ha avuto un contrattempo e l’intervento è stato rimandato alla fine dell’anno scolastico.» «Entro in ospedale domani. Non ho parenti in città, quindi rimarrò ricoverata per tre giorni.» «Come vanno i suoi studi?»
«La settimana scorsa ho fatto l’esame per entrare alla Sorbona» rispose sorridendo. «Vorrei trasferirmi a Parigi.» Sembrava contenta. Nel suo sguardo scorsi l’espressione speranzosa che hanno di solito i pazienti alla vigilia dell’intervento e che conferisce anche ai volti più deformi un’aura di candore.
La invitai a prendere un gelato sull’isola Saint-Louis. C’era un’orchestra jazz che suonava lì vicino, e benché dal lungofiume non si vedessero i musicisti, si udivano le note come se emergessero dall’acqua. La luce del sole tingeva le sue palpebre di arancione. Camminammo per diverse ore, un po’ in silenzio un po’ parlando di ciò che vedevamo durante la passeggiata; della città o del futuro che l’attendeva lì. Se avessi portato la macchina fotografica, adesso avrei una testimonianza, non solo della mia donna ideale ma anche del giorno più felice della mia vita.
All’imbrunire la accompagnai all’hotel in cui alloggiava, una topaia vicino a Bonne Nouvelle. Passammo la notte insieme in un letto decrepito, rischiando continuamente di finire a terra. Una volta nudi, i vent’anni che ci separavano divennero più evidenti. Le baciai più volte le palpebre e, quando mi stancai di farlo, le chiesi di non chiudere gli occhi per continuare a godermi quei tre millimetri supplementari di palpebra, quei tre millimetri di voluttuosità sconvolgente. Dal primo abbraccio fino al momento in cui, sfinito, spensi la luce da notte, avvertii il bisogno di convincerla. A quel punto, senza pudore o inibizioni di sorta, la pregai di non operarsi, di restare con me così com’era. Ma lei pensò che fosse una smanceria, una di quelle bugie esaltate che si dicono in circostanze del genere.
Quella notte dormimmo appena. Se lo avesse saputo il dottor Ruellan! Lui che alla vigilia delle operazioni impone il riposo più assoluto ai suoi pazienti. Arrivò al reparto preoperatorio con due occhiaie che la facevano sembrare più vecchia e anche più bella. Le promisi che sarei rimasto con lei fino all’ultimo e che in seguito, quando si fosse ripresa dall’anestesia, sarei andato immediatamente a trovarla. Ma non mi fu possibile: non appena l’infermiera entrò nella stanza per portarla in sala operatoria, io sgattaiolai verso l’ascensore.
Uscii dall’ospedale ridotto in pezzi, come chi si è confrontato con una sconfitta. Il giorno successivo pensai molto a lei. La immaginai mentre si svegliava da sola, in quella stanza ostile che odorava di disinfettante. Avrei voluto starle accanto e lo avrei fatto se in gioco non ci fosse stato così tanto: il mio ricordo, la mia immagine di quegli occhi che, se li avessi visti dopo, identici a quelli di tutti i pazienti del dottor Ruellan, sarebbero svaniti dalla mia memoria.
Qualche volta di pomeriggio, soprattutto nei periodi di magra, quando la clientela non dà soddisfazioni di sorta, metto la sua fotografia sulla scrivania e la guardo per qualche minuto. In quei momenti mi sento pervadere da una sensazione di soffocamento e da un odio smisurato nei confronti del nostro benefattore, come se il suo bisturi avesse in qualche modo mutilato anche me. Da allora non sono più uscito con la macchina fotografica, i lungofiume della Senna non promettono più sorprese arcane.

© Tratto da "Petali" di Guadalupe Nettel
Per gentile concessione de La Nuova Frontiera

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