Sedici racconti tra Italia e Cina, tradotti da Patrizia Liberati e Silvia Pozzi.
Gli insaziabili raccoglie i racconti di otto autori italiani e di otto autori cinesi intorno al doppio filo rosso rappresentato da eros e cibo: temi che riguardano in maniera viscerale e profonda due culture distanti geograficamente e storicamente, eppure piene di terreni fertili per un confronto, una conoscenza e un arricchimento reciproci ancora tutti da sondare e coltivare. Il libro, che esce in contemporanea in Italia e in Cina, è un gioco di specchi, di incastri, di visioni, di sguardi su due argomenti che sono agenti di scambio, strumenti di comunicazione e aggregazione, processi chimici regolati da rituali, modelli culturali, veicoli di senso, facilitatori interculturali - e vorrebbe avvicinare i lettori italiani alla Cina e i lettori cinesi all’Italia, smontando magari piú di un preconcetto e contribuendo ad accorciare le distanze grazie a quell’avventura senza patria che è la lettura.
Racconti di Milena Agus, Alessandro Bertante, Paolo Colagrande, Gabriele Di Fronzo, Giorgio Ghiotti, Ginevra Lamberti, Laura Pugno e Mirko Sabatino gli autori italiani.
A Yi, Ge Liang, Feng Tang, Lu Min, Shu Qiao, Wen Zhen, Zhang Chu e Zhang Yueran gli autori cinesi.
Cattedrale propone un’anticipazione del libro, che sarà in libreria dal 7 Febbraio 2019, con il racconto di Paolo Colagrande, per gentile concessione dell’’editore.
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GRANCHI
di Paolo Colagrande
Esistono sincerità talmente confuse
che sono peggiori delle menzogne.
Albert Camus
Cosa succede nel temperamento delle persone che respirano – dice Liverio Lamonaca – non ci è mai stato spiegato con franchezza e trasparenza, perché dentro questi meccanismi c’è un calcolo traditore: non ce ne accorgiamo perché siamo un po’ pigri e un po’ stupidi, ci fidiamo dell’organismo, che ci è nemico, e della scienza, che è complice dell’organismo. Ogni respiro è un colpo di martello sulla pietra: e tutti noi, che una volta eravamo pietre rispettabili, adesso somigliamo a delle brutte statue, a delle colonne storte, o a delle lastre da cimitero.
Liverio Lamonaca abita a Bruglio di Brembio, dove l’aria è ricca di ammonio, cadmio, stibio e berillio che agiscono sull’area corticale del cervello provocando avarie nei sistemi di trasmissione e un intorbidamento del cosiddetto dominio analitico. Non mi sto inventando niente, a parte qualche parola strumentale: ci sono ricerche americane localizzate sia nell’area geografica, Bruglio di Brembio, sia nell’area del cervello che presiede al dominio analitico, l’emisfero sinistro, partendo da quello di Liverio Lamonaca.
L’emisfero sinistro è nato di recente. Prima c’era solo l’emisfero destro, che serviva a riconoscere la cosiddetta realtà e a distinguere, poniamo, un albero da un fosso; se l’albero era vicino al fosso e, per ipotesi, nel fosso c’era l’acqua, dove nuotava poniamo un pesce, l’emisfero sinistro registrava i fatti senza entrare nel merito di possibili attinenze. L’uomo è rimasto cosí per molto tempo, fra alberi, fossi, acqua, pesci e tutto un corredo involontario che lui intercettava in modo formalistico e scisso, con quel solo emisfero che ai tempi era tutto l’apparato cerebrale, quindi lo stiamo chiamando emisfero impropriamente, per comodità.
L’emisfero sinistro arriva dopo, con la cosiddetta istanza critica che pretende un cambiamento di visuale per capire per esempio se le ragioni dell’esistenza dell’albero e del pesce sono collegate alle proprietà dell’acqua tramite il fosso che la contiene: è il primo passo nel percorso della mente verso gli abissi spaziotemporali dell’unità e del molteplice. Ma ci son voluti milioni di anni per scoprirlo, perché la scienza non è un ente avulso ma è figlia di quella stessa stirpe di uomini che all’inizio vedeva l’albero, il fosso, l’acqua e il pesce senza progettualità; l’ominide poteva magari fare una stima grezza di continenza o stretta contiguità o bassa cronologia, nel senso che l’acqua, contenente il pesce e contenuta nel fosso la cui visuale era coperta dall’albero, diventava evidenza fisica solo quando l’ominide cadeva nel fosso, dove poteva bere o catturare il pesce oppure annegare, o tutte e tre le cose in successione.
Bisognava che l’emisfero sinistro non solo prendesse posto legittimo nel cervello ma fosse anche capace di sviluppare un pensiero prodromico alla sua stessa scoperta, se è chiaro il ragionamento e se non spaventa la parola prodromico.
Gli scienziati americani prevedono che il territorio di Bruglio di Brembio, ipotizzando un radicamento di stirpi omogenee in una stabile identità etnica, sarà interessato a una compressione degli emisferi sinistri, preceduta da una fase di rilassamento dei tessuti neurocerebrali e di infiacchimento dei corpi callosi che potrebbe realizzarsi già nel secolo corrente facilitando la spinta espansionistica dell’emisfero destro fino a sgominare l’altro, non per ucciderlo ma per ridurlo in schiavitú o in confusione, entro il secolo prossimo.
Ma torniamo al respiro. La teoria di Liverio Lamonaca viene da lontano, possiamo situarla in un’epoca compresa fra la Wirtschaftswunder e la crisi petrolifera, quando chi abitava a Bruglio di Brembio oppure ci passava per caso poteva incontrare verso l’ora di pranzo vicino alla ferrovia uno scolaro di età fra gli otto e i dodici anni che tornava a casa col passo in cantilena e lo sguardo nei misteri eterni. A dir la verità, un po’ tutti a Bruglio di Brembio camminavano cosí, per l’interazione sinergica di ammonio, cadmio, stibio e berillio che corrompe le posture e offusca i sentimenti. Ma in quello scolaro si agitava qualcosa di piú pervasivo e verrebbe da dire anche escatologico: diciamo, in parole povere, che il suo passo e il suo sguardo descrivevano
la scabra pesantezza della morte. Lo scolaro era Liverio Lamonaca, potevo avanzare di dirlo ma bisogna rispettare i ritmi del climax. E camminava vicino alla ferrovia perché abitava lí, con suo padre e sua madre, anche questo era implicito ma non costa niente specificarlo. Riguardo alle ricerche, fatte molti anni dopo, la condizione di Liverio Lamonaca è riassunta in una frase: inibizione dell’enzima motivazionale.
Cosa sia l’enzima motivazionale è una domanda ragionevole la cui risposta può ricavarsi dal contesto o per approssimazione: quindi manterrei la formula nella sua bellezza metrica senza altre spiegazioni. Diciamo che già in età infantile Liverio Lamonaca aveva il senso della catastrofe universale, una categoria sconosciuta all’ominide ma che nell’uomo moderno segna il discrimine fra la crescita somatica e l’assestamento del soggetto adulto in una onesta dimensione intellettuale. L’enzima motivazionale si esaurisce con la cosiddetta maturità avanzata che non coincide necessariamente con l’invecchiamento perché l’età è solo una componente, diciamo che si può anche morire in tarda vecchiaia con l’enzima attivo.
L’emisfero sinistro di Lamonaca, carente di enzima motivazionale fin dalla nascita, intercettava solo segni funesti e stimoli tragici verso derive rovinose. Per esempio, le ore passate a scuola, che allo scolaro medio con normale corredo di emisferi ed enzimi danno un generico malessere, a Liverio provocavano avvilimento e strazio, sfiducia nell’esistenza, fusi in una sintesi chimica che cresceva nell’organismo come la muffa e i parassiti. Gli insegnanti brugliesi non se ne accorgevano, o forse non davano peso al problema perché del resto anche loro erano esposti agli stessi agenti ambientali, magari con tempi di aggressione piú lenti per ragioni di età e di metabolismo consolidato (l’ingresso in atmosfera di ammonio, cadmio, stibio e berillio viene fatto risalire a un’epoca compresa fra la teiera di Russell e lo sviluppo dell’industria pesante).
La condizione di Liverio trovava diciamo un contrappeso nell’alimentazione, perché, come è stato spiegato, l’inibizione dell’enzima motivazionale provoca indebolimento di un ormone situato nel cromosoma 7 che chiameremo per comodità Ivan e che controlla l’appetito: il blocco di Ivan libera un enzima antagonista, quello della fame, che chiameremo per comodità Vladimir, la cui iperattività produce stimolazione dell’ipotalamo con frustrazione dei meccanismi della sazietà. Sono meccanismi sofisticati del meraviglioso corpo umano spiegati dai ricercatori per dire che per effetto dell’enzima Vladimir che spadroneggiava indisturbato, il corpo già ridondante di Liverio cresceva sproporzionatamente al fabbisogno.
Raggiunti i centoquaranta chili a diciotto anni, di fronte al declino di se stesso come proiezione del declino di un mondo in corsa verso la catastrofe universale, Liverio Lamonaca aveva elaborato la teoria del respiro inteso come azione ripetitiva cronica senza uno scopo se non quello di accompagnare l’uomo all’estinzione. La scienza – per sintetizzare il suo pensiero – ti fa credere che questo movimento sia vitale e benefico, invece è un processo biochimico obbligatorio: l’uomo è impotente davanti all’inevitabilità del respiro, e già da qui si svela l’impostura tirannica dell’organismo che poteva essere inventato senza questo dispositivo traditore che con una mano ti toglie i pezzi e con l’altra ti dà la lusinga dell’infinità come una specie di dono prometeico.
Una conferma della teoria si troverebbe nei testi dei poeti dove il respiro è quasi sempre collegato alla morte, quando ad esempio il poeta, per spiegare che un uomo muore, dice che esala l’ultimo respiro o l’estremo sospiro, o, piú esplicitamente, quel mortal sospiro che rende gli uomini siccome immobili. Il discorso vale anche per il respiro dei narratori liricamente orientati che è sempre collegato a derive cimiteriali o contesti ospedalieri terminali; per non parlare del respiro intriso di luttuoso pessimismo del cantautore poliedrico che dice: tu sei il respiro che mi toglie ancora il fiato. E siccome la poesia è evocazione simbolica delle forze madri del cosmo, il cerchio si chiude qui.
Il dono prometeico mi son permesso di aggiungerlo io, insieme alla lusinga dell’infinità e alla dispnea del cantautore. Ma il concetto di base è di Liverio Lamonaca, non ho toccato niente.
Va detto, per non cadere in equivoco, che non c’è nesso tra la condizione mentale del Lamonaca e il suo stato fisico, cioè non stiamo parlando di un temperamento depresso entrato nella spirale bulimica compulsiva che dilata e deturpa il corpo e fomenta il disprezzo per sé portando all’autoemarginazione che è poi l’anticamera di quella forma di misantropia strategica che serve a incolpare il prossimo, e in generale il mondo, di quel che si è. In Liverio tutto questo non c’era: né depressione né misantropia strategica, niente. Anzi, almeno fino a un certo punto Liverio aveva mantenuto un livello accettabile di socialità e un tasso di autostima diciamo nella norma, che forse non teneva abbastanza conto della sua notevole forza fisica, e questo è un particolare importante perché di solito l’obesità deprime la forza fisica, e la forza fisica innalza l’autostima. È dimostrato che a vent’anni Liverio riusciva a tener sollevata per sette secondi la Wartburg giardinetta a miscela di suo padre, tenendola dal paraurti davanti con conducente a bordo; e a tirare un sasso a trecentocinquanta metri centrando la finestra di camera sua; e a spezzare il dente di un ranghinatore con le nude mani, con scintille. Se fosse un altro effetto di scompensi enzimatici o fattori ambientali o di tutti e due non si sa. Si è solo affacciata l’ipotesi che ad alimentare questa forza contribuissero certi alimenti, come la vigonza rossa brembiana, le cui componenti, agendo all’interno di un metabolismo incongruo, scatenavano l’ormone della crescita che a sua volta incamerava parte del sovraccarico energetico da destinare alla rigenerazione delle cellule, quindi alla costruzione di muscoli e ossa, il resto, cioè la residua sovrabbondanza, si corrompeva nel grasso corporeo. Torneremo sulla vigonza rossa brembiana, non subito perché c’è carne al fuoco e il discorso va organizzato.
Quello che piú interessa è che Liverio Lamonaca a un certo punto della vita che coincide con la maturità conseguita al liceo di Bruglio di Brembio e, per meglio storicizzare, con l’atterraggio della sonda americana Viking Lander sul pianeta rosso, si era convinto della valenza mortifera del respiro, frutto di un complotto superiore di cui non si conoscono gli scopi, e aveva elaborato una strategia eversiva che consisteva nel respirare il meno possibile, nel senso di mantenere il ritmo aerobico alla soglia base ed evitare situazioni di stress o stati di affanno che lo accelerassero. Detto piú in sintesi, Liverio aveva scelto la quiete del corpo e dei sentimenti come sistema di sopravvivenza e come atto di sfida all’organismo traditore governato dal respiro che a ogni passaggio gli martellava via un pezzo. Questa decisione segna lo snodo articolare della vita di Liverio, se si può dire snodo articolare, perché limitare il respiro è una scelta estrema che comporta rinunce, privazioni, come per esempio il lavoro, o i rapporti sociali che vanno oltre i convenevoli meccanici, ma anche certi svaghi con ripercussioni emotive, tipo leggere il giornale, ascoltar la radio; perfino guardare la televisione, per via di una complessa interazione fra sistemi nervosi centrale e periferico che poteva avere contraccolpi sulla frequenza respiratoria. La scelta di Liverio, favorita dall’iscrizione all’università che consentiva per cosí dire la stasi della mente, escludeva anche le dimostrazioni di forza fisica, che a dir la verità lui faceva malvolentieri: erano gli altri a chiedergliele, a portargli poniamo un dente di ranghinatore da piegare a metà, un sasso da tirare su una finestra a trecentocinquanta metri, o a chiedergli di sollevare la Wartburg, facendo a gara per sedersi alla guida intanto che lui sollevava. Ci si divertiva cosí, a Bruglio di Brembio.
Anche nei rapporti sociali Liverio aveva fatto una selezione rigida, salvando alla fine solo Brennero Trenazzi, detto Patrimonio, cicloriparatore analogico ipoacusico.
Brennero Trenazzi era sposato con Agnese da cui aveva avuto quattro figlie, tutte piuttosto belle, ed era anche nonno perché l’ultima, Silvana, di sedici anni, aveva avuto anche lei un figlio da un signore di cui mancavano notizie precise. Liverio Lamonaca le avrebbe anche guardate volentieri, soprattutto l’Afra, la piú grande, ma il progetto di risparmio aerobico non permetteva certe distrazioni. D’altra parte era raro che le figlie di Brennero incrociassero Liverio, sia perché non incontrava i loro gusti, sia perché non entravano mai in bottega, dove Liverio passava tutti i pomeriggi seduto su una seggiola da barbiere a guardar Brennero riparar le biciclette e ascoltarlo mentre raccontava passi mitologici della sua vita con trame sempre diverse e senza colpi di scena che avrebbero disturbato gli equilibri respiratori dell’ascolto. In questi pomeriggi Liverio si alzava dalla seggiola solo due volte, per far entrare il cane di Brennero, Devid, quando grattava la porta fuori, e per farlo uscire, quando grattava la porta dentro; lo faceva non per spirito di servizio ma per evitare il disagio neurofisiologico del grattare di Devid, che poteva andare avanti dei quarti d’ora senza che Brennero lo sentisse, perché era ipoacusico. La seggiola da barbiere era stata messa vicino alla porta per ridurre al minimo lo sforzo.
Brennero Trenazzi, volendo spendere altre due parole, veniva chiamato Patrimonio perché patrimonio era la parola piú usata nei suoi discorsi. Per esempio il cane Devid era stato stimato un patrimonio da esperti forestieri che tutti i giorni gli offrivano un patrimonio di soldi per comprarlo ma lui rifiutava perché il patrimonio messo via per la vecchiaia era di tale entità da generare spontaneamente altri patrimoni, senza bisogno di incrementarlo. Anche il motocarro Ercole valeva un patrimonio perché prodotto in poche unità, e il padre del nipotino era un ingegnere che girava in America e in Russia a progettare fiumi, laghi, mari guadagnando patrimoni. Diciamo, per sintetizzare, che ogni cosa in natura che per qualsiasi motivo entrava nella sfera personale di Brennero diventava automaticamente un patrimonio: dal cacciavite multiplo al compressore, alla protesi auricolare, alla sedia da barbiere dove si sedeva Liverio Lamonaca, fino a certi amici e parenti che nessuno aveva mai visto ma che erano tutti titolari di patrimoni. Brennero era alto un metro e quaranta, aveva una faccia che sembrava scampata per miracolo a una disgrazia ed era, oltre che ipoacusico, strabico in posizione sulle dieci e venti ma col colorito brillante per via del bottiglione sempre a misura di mano.
L’Agnese non era del posto, faceva parte di una fornitura da dieci unità arrivate dall’Abruzzo Citeriore su un om ex-militare guidato da un impresario che importava le mogli destinate a uomini poco ottimisti sul fatto di trovarne col proprio bagaglio seduttivo; in un anno aveva fatto una ventina di giri e ne aveva riportate indietro pochissime. Passato l’anno non si era piú visto. All’Agnese era toccato Brennero.
Questa storia, che ho appena raccontato con beata leggerezza ma che a pensarci fa venire le ortiche alla schiena, Brennero non la raccontava. Diceva solo che l’Agnese valeva un patrimonio, ma non si riferiva al prezzo di compravendita. A vederli bene uno per volta, l’Agnese e Brennero, era poi difficile pensarli uniti, in senso spirituale e in senso piú tecnico, nel fermento del commercio procreativo. Il fatto che nessuna delle figlie somigliasse a Brennero, a parte i capelli rossi ma li aveva rossi anche l’Agnese, suscitava molte chiacchiere, quel tipo di chiacchiere dove però abita una componente moderata di invidia, dico moderata perché a Bruglio di Brembio era tutto di livello moderato. Quando giravano tutti insieme per il paese sul motocarro Ercole, la chiacchiera tornava sempre a strisciare: guarda là, dicevano, Patrimonio con le bambole e il bastardino, ma era solo moderata invidia perché quello che in realtà si vedeva a occhio nudo era una famiglia felice: Brennero al manubrio dell’Ercole con ferma padronanza, l’Agnese vicino a lui col nipotino in braccio, le quattro figlie nel cassone dietro.
Sono voluto entrare nell’intimità di Brennero Trenazzi per far capire quello che c’era intorno alla bottega di cicloriparazioni dove Liverio Lamonaca passava tutti i pomeriggi a sopravvivere nella quiete economica del corpo e dei sentimenti.
A livello di dinamica dei sistemi, la figura di Liverio Lamonaca in questa fase della vita si può descrivere come una fusione grezza di inerzia e gravità non sottoposta a perturbamenti: si svegliava la mattina alle dieci, faceva una colazione energetica, andava in bagno dove restava una cinquantina di minuti, ritornava in camera a vestirsi e poi ricoricarsi sul letto per guardare a distanza i libri dell’università in piedi su una mensola che gli aveva montato il babbo. A mezzogiorno si sedeva a tavola dove sua mamma gli serviva tre portate comode oltre a un contorno ricco di vigonza rossa, una micca di pane, un bicchiere di Santamedeo, il caffè con lo zucchero; poi chiudeva gli occhi per mezz’ora e quando li riapriva andava da Trenazzi, a dodici passi contati, dove rimaneva fin verso le sette; tornava a casa, cenava con tre portate comode piú vigonza rossa, pane, Santamedeo e caffè, andava in camera e dormiva il sonno del giusto. Ho saltato pochi passaggi di collegamento.
È andato avanti cosí per quattro o cinque anni, un periodo che possiamo definire felice ma piú che altro stabile e pacifico perché chi insegue una causa giusta è poi in pace con se stesso, e quindi col mondo. In questo stato di pace Liverio aveva messo a regime il senso di catastrofe universale concentrandosi sulla campagna contro l’impostura tirannica dell’organismo e lo strapotere dell’enzima Vladimir che comunque spadroneggiava dissoluto grazie all’inibizione dell’ormone Ivan.
Fino a quel determinato giorno che sul calendario si colloca in un medio autunno ancora fiorito, ma si tratta di coloriture inappropriate all’ecosistema di Bruglio di Brembio dove l’interazione sinergica di ammonio, cadmio, stibio e berillio determina una specie di afasia o disfasia stagionale che scompagina le rotazioni.
In questo specifico giorno di uno specifico anno meglio storicizzabile con la sconfitta del virus del vaiolo e il trionfo della Cecoslovacchia agli Europei, a un’ora che con approssimazione possiamo indicare fra le due e mezza e le tre di pomeriggio, con in gola ancora un riverbero gentile di vigonza rossa, Liverio Lamonaca entra nella bottega di Brennero Trenazzi.
Ma non trova lui. Trova l’Agnese.
La presenza dell’Agnese non avrebbe in sé niente di sospetto, a parte il fatto che non entrava mai nella bottega di cicloriparazioni e infatti in quegli anni Liverio l’aveva vista tre volte in tutto, a esagerare, e solo per passaggi fuggevoli. Quello che non si spiegava era l’assenza di Brennero che, tolte le domeniche e i festivi, per il resto viveva in bottega, dove l’Agnese gli portava la marmitta del pranzo e della cena col bottiglione di scorta. A casa ci tornava per dormire.
Nelle dinamiche della natura – apro questa parentesi funzionale ma la chiudo subito – c’è un movimento di contingenze libere che si sovrappongono e si scontrano, oppure si scansano, ed è poi su di loro che si misura la storia coi suoi fatti e i suoi complici e le sue creature imbarazzate semoventi, e la disperazione che costituisce il suo legante plastico insieme a una casualità mistificatrice che ogni volta ci dice: te l’avevo detto, come dire che è inutile piantar dei pali e montar dei programmi o anche far degli auguri a Natale e Pasqua o se li fai è per aspettarti o sperar qualcos’altro, secondo una legge naturale per cui quel che hai deciso tu non va bene, che è poi la parafrasi del pensiero di quel filosofo simpatico che diceva: è bene che ciò che gli uomini si augurano non avvenga. Non so piú da dove son partito ma mi sembra un bel modo di chiudere una parentesi.
Per dire che di questo aggregato di contingenze libere noi cogliamo spesso sintomi per cosí dire infinitesimi, istantanei, dove gli abbinamenti si confondono e si scambiano: i suoni si sentono col tatto, i sapori con l’udito e i colori con l’odorato. E infatti, nel caso che ci interessa, Liverio Lamonaca entrando nella bottega aveva avuto la sensazione di un punto di rottura a colpo d’occhio.
La Agnese era girata di spalle e chinata in avanti a cercare qualcosa in una scatola con pezzi di scarto tipo una boccola, la maniglia di un freno, il coperchio di un campanello, ma anche, poniamo, un filtro da caffettiera, un morsetto da bretella. In tutti i luoghi umani c’è una scatola cosí, piena di oggetti di risulta, che diventa una miniera dove non trovi quasi mai quello che cerchi ma qualcos’altro che condivide lo stesso principio sostanziale. Può anche capitare che trovi quello che ti interessa, ma è raro. L’Agnese stava cercando un cavatappi, cosa che si è potuta capire dopo qualche minuto di ricerca quando si è girata in direzione della porta con in mano un tirabuso a cremagliera, e passando davanti a Liverio gli ha detto: Oggi Brennero non c’è. Il fatto potrebbe finir qui, senza nessun interesse, a parte il reperimento del tirabuso.
Ma bisogna fare un passo indietro, al momento in cui Liverio, entrando nella bottega, ha avuto la sensazione a colpo d’occhio di un punto di rottura. Si tratta di sentori istantanei, come ho detto, ai confini del pensiero conscio, dove intravedi quello che ancora deve succedere e che succederà, ma che nella nostra misura del tempo non riuscirebbe a star dentro un’ora o un giorno.
Ad ogni modo, finito l’istante denso e magmatico, Liverio era rimasto a guardare l’Agnese girata di spalle con quel tipo di meraviglia che è difficile spiegare, come quando vedi qualcosa di diverso liberarsi dal panorama coatto di tutti i giorni, o come quando scansi la tenda e vedi nevicare e non ti ricordi piú che tempo faceva prima. E il respiro che fino a quel momento era docile e lento aveva cominciato ad accelerare senza rispetto per gli equilibri aerobici di Liverio Lamonaca che però non faceva niente per rimetterli in prudenza anzi, rimaneva lí fisso a far correre gli occhi su e giú fra la testa e le caviglie dell’Agnese con pause intermedie e una panoramica di contorno affollata di camionate di donne dall’Abruzzo Citeriore, amori clandestini, figlie non somiglianti ai padri eccetera, cose che di regola non gli interessavano ma che ora prendevano una loro quadratura, o forse è piú preciso dire che si mettevano in colonna come dei numeri. E quando l’Agnese gli era passata molto vicino anzi adiacente col tirabuso a cremagliera in mano e gli aveva detto: Oggi Brennero non c’è, con anche una specie di sorriso, Liverio aveva tirato la riga sotto la colonna e aveva deciso improvvisamente che si poteva aprire una parentesi. Perché la natura umana è oscura ed ermetica, e il cervello non tiene mai una rotta rigida.
I ricercatori americani dicono che queste virate repentine dipendono dai flussi del tono edonico e dalla cosiddetta codifica del piacere, dove entrano in gioco delle variabili situate nelle regioni della corteccia orbitofrontale, dove riemergono schemi affettivi atavici o astratti.
La corteccia orbitofrontale di Liverio, nell’itinerario visuale fra i capelli e le caviglie dell’Agnese con tutti i passaggi morbidi intermedi, aveva fatto impennare il tono edonico dando impulso al neurone che per tramite di certi neurotrasmettitori un po’ cinici gli aveva guidato la mano. Non bisogna però credere che sia stato un gesto involontario, è giusto precisarlo perché a star dietro a questo ragionamento sembra che tutto sia successo a sua insaputa. Il movimento della mano era volontario e deliberato, frutto di una stima che partiva dalla camionata dall’Abruzzo Citeriore, dal sospetto di infedeltà, dalla situazione contingente di intimità, fino all’assenza tattica di Brennero e al sorriso che garantiva l’esattezza del calcolo; e in questo processo di codifica, anche il tirabuso a cremagliera poteva rivendicare un ruolo o una simbologia.
E l’Agnese aveva risposto, tempestiva e precisa.
Aveva delle mani grandi e delle braccia fiorenti, l’Agnese, come le donne dell’Abruzzo Citeriore, e forse Brennero gliel’aveva anche detto, chissà, ma si vede che non era stato attento.
Nella memoria di Liverio le fasi a seguire restano confuse. Ricorda nitidamente la sua mano correre verso imprecisate zone palpabili ma non ricorda se poi la mano era arrivata a segno, e soprattutto non ricorda la badilata di ritorno dell’Agnese che in una plausibile ricostruzione cinematica avrebbe attinto la faccia di Liverio quasi simultaneamente al gesto intrepido, producendo sulla persona intera lo stesso moto parabolico della catapulta o del trabucco. Stiam parlando della persona intera di Liverio Lamonaca, mica di un ballerino, quindi la ricostruzione può sembrare esagerata. Ma sono leggi fisiche, non si sa cosa dire. La metafora del trabucco è mia.
Mettendo in ordine i pezzi della storia, è poi risultato che Brennero Trenazzi non era al lavoro per un improvviso imbarazzo di stomaco da granchi fluminari; che la ricerca del cavatappi nella cassetta era dettata dall’urgenza di stappare il pistone che serviva a medicamento dell’imbarazzo; che l’Agnese era passata effettivamente molto vicino a Liverio ma solo perché Liverio ingombrava la porta e lei doveva uscire; che nel passare vicino a Liverio per superarne l’ingombro non aveva fatto sorrisi, aveva solo chiesto permesso una volta poi un’altra volta; che alla terza volta Liverio invece di spostarsi aveva allungato la mano sulle imprecisate parti palpabili.
Ad ogni modo Liverio aveva riaperto gli occhi sul soffitto della bottega e sulle facce desolate dell’Agnese e dell’Afra chinate su di lui a fargli delle domande che lui non capiva, cioè capiva che erano domande ma non capiva il lessico e comunque non riusciva a parlare. Era stato poi sollevato e messo sulla seggiola da barbiere mentre l’Afra gli portava una bottiglia pare di Fernet che gli aveva fatto ritrovare la percezione del corpo insieme a un dolore caldo nella parte sinistra della faccia e a un subbuglio di formiche dentro la testa.
Dire che il fatto rappresenti un punto di rottura nella vita di Liverio, sarebbe esagerato, piú appropriato parlare di una svolta. Le svolte possono anche seguire un percorso progressivo, per fasi. Quindi, per dar la giusta curvatura al ragionamento, possiamo dire che l’episodio rappresenta l’iniziazione sessuale di Liverio Lamonaca e al tempo stesso la prima fase di quello che i ricercatori chiamano deviamento dall’irreversibilità. Cosa voglia dire deviamento dall’irreversibilità è un’altra domanda la cui risposta si può desumere dal contesto o per approssimazione, quindi è meglio lasciarla dov’è. Di questa fase delicata salterei l’inizio, con tutti i passaggi per cosí dire fattuali e fenomenici, per dire che Lamonaca, ferma restando l’opposizione intransigente allo strapotere tirannico e impostore dell’organismo, aveva cominciato a riflettere sul senso delle rinunce, soprattutto di quella specifica rinuncia che attiene alla sfera erotica, in senso lato e semplificando, dove la badilata dell’Agnese apriva a suo modo una visuale. Son pensieri che implicano un’introspezione invasiva e diciamo chirurgica, un’incursione negli abissi dell’io che, detto fra noi, è una manovra pericolosissima perché espone al rischio di entrare nel vortice pornografico della conoscenza di se stesso, cioè la cosa piú irresponsabile che possa fare una persona a modo. Le statistiche dicono che questo se stesso, che qualcuno vuol conoscere a tutti i costi, novanta volte su cento è un depravato, un malfattore che non merita amicizia né confidenze, meglio non conoscerlo, tenere le distanze da lui o tutt’al piú limitarsi a un rapporto formale, di pura cortesia. Insomma Liverio Lamonaca era entrato in questa specie di finto santuario dell’introspezione col rischio di far dei brutti incontri. Se poi negli abissi dell’io l’ha incontrato, se stesso, peggio per lui, non gliel’aveva mica ordinato il dottore di entrarci.
In linea di massima mi sentirei però di dire che non l’aveva incontrato, e mi viene anche da pensare che a Bruglio di Brembio è difficile che qualcuno lo incontri, e anche che si infili in certi abissi.
Ma chiunque abbia incontrato nel viaggio introspettivo, alla fine Lamonaca era arrivato a due conclusioni: la prima, che il demone che aveva guidato la mano verso le parti palpabili dell’Agnese non era giusto che sparisse cosí: bisognava parlargli, in contesto appropriato e con modalità diverse, magari senza l’Agnese; la seconda, che la ribellione contro le imposture dell’organismo tiranno era moralmente irrinunciabile e politicamente necessaria, ma era ora di prendersi una pausa. Unendo i due punti credo che si arrivi al deviamento dall’irreversibilità che dicevano i ricercatori.
Cominciando dal secondo, già a partire dal dopodomani rispetto al fatto (l’indomani era stato dedicato all’incursione introspettiva), Liverio sembrava aver cambiato le panoramiche. Era entrato puntuale nella bottega con la solita lentezza corporea ma con la faccia che comunicava concetti positivi e programmatici, come rendersi utile o ingrandire gli orizzonti; altro che aprire la porta al cane Devid. Interagire, interfacciare.
Brennero se n’era accorto subito, come di un odore cattivo che entra da fuori. Non che non gli piacesse parlare, anzi; diciamo che non gli piaceva parlare con qualcuno, non capiva il senso dello scambio, e di ascolto non era pratico. Che poi qualcuno volesse rendersi utile era un pericolo serio, non per sospetto di incompetenza, che comunque nel caso di Liverio ci stava, ma perché in bottega poteva lavorare solo Brennero: gli altri potevano entrare, guardare, sedersi, ascoltare se avevano voglia, mettersi a camminare: a lui non dava fastidio. Potevano frugare nella scatola degli scarti ed esaminare i pezzi, e questo magari gli faceva piacere perché ogni pezzo era un frammento mitologico. Ma rendersi utile era un’idea sfacciata, come pretendere di andare in chiesa per dir la messa.
Sul primo punto invece, quello relativo al comparto erotico, Liverio si era accorto che gli mancavano le basi, come per esempio trovare un’interlocutrice, chiamiamola cosí, e inventare qualcosa che incontrasse il suo interesse. Ma l’unico argomento su cui era forte, a parte il ciclo mitologico di Brennero Trenazzi, era la vigonza rossa brembiana, già nominata, di cui conosceva pregi e misteri, il gusto, la metafisica. Poteva spiegare tempi e metodi di semina e coltivazione, tecniche di avulsione, fitopatie e parassiti, concentrazione di sodio, potassio e azoto. La conoscenza veniva da generazioni di coltivatori nella stirpe, letture, sperimentazioni empiriche. Era un tema un po’ tecnico, di nicchia, ma del resto quando ci si appassiona a un argomento la conoscenza supera la competenza ed entra nella dimensione dell’eros; la passione guida la curiosità, come nelle scienze e nelle dinamiche sessuali. Ci si può affezionare poniamo ai coleotteri o alle statue funerarie cinesi o a generi piú spericolati come il cybersex o la critica letteraria. Quale sia il motore, chissà. Liverio era affezionato alla vigonza rossa. E aveva pensato di cominciare da lí.
Ma nell’universo di Bruglio di Brembio non c’era il gusto della conversazione sui temi alti: la metafisica, Dio, la genetica molecolare, la vigonza, niente. C’era una moderata quantità di possibili interlocutrici ma sul tema della vigonza il dialogo non decollava o non produceva le vibrazioni giuste. Del resto, l’isolamento nella bottega di Brennero aveva reso Liverio avulso dal contesto sociale e impreparato sui temi di tendenza, che erano distanti dalla vigonza rossa, e non c’era nessuno che lo aiutasse.
In questa condizione desolata si era fatto largo un nuovo senso di catastrofe, piú vivo e sanguinario perché non piú sublimato dalla lotta. Per un certo periodo la figura adulta di Liverio Lamonaca aveva ricominciato a camminare nei pressi della stazione con la scabra pesantezza della morte, ma chi passava di lí non lo vedeva neanche.
I ricercatori sostengono che l’ipotesi suicida non è sempre collegata alla disperazione, può esserci dietro l’urgenza di un’indagine estrema, di una ricerca oltre i calcoli e le causali, dove lo sperimentatore è tutt’uno con l’esperimento. Non si può escludere che nel cervello di Liverio Lamonaca si fosse fatta strada un’ideazione suicidaria e che in questa ideazione si muovesse proprio l’urgenza di capire i misteri dell’exitus e le sue dinamiche. O forse non c’era nessuna ideazione e stiam parlando alla rinfusa. Ma una cosa è sicura: nella pesantezza del suo camminare c’era qualcosa di piú del normale senso di catastrofe, qualcosa che attingeva alla memoria recente ed è facile capire dov’era il fuoco di questa memoria.
È un attimo raggiungere l’angolo di fragilità, dove il filo di ferro si spezza. A volte ci si passa senza accorgersene. Ma a volte è proprio lí, a un millimetro, che arriva la parola salvifica; e infatti a Liverio Lamonaca la parola è arrivata un millimetro prima.
Un particolare importante che non si è detto è che Brennero Trenazzi sapeva tutto. Nello stretto arco di tempo fra lo svenire e il rinvenire di Liverio, l’Agnese era riuscita a correre a casa, aprire il pistone col tirabuso a cremagliera, raccontare il fatto a Brennero e rientrare in bottega insieme all’Afra. Brennero aveva provato una sincera pena, senza gelosia né malanimo. Si era preoccupato di non averlo visto il giorno dopo in bottega, ma anche di piú quando l’aveva visto entrare il giorno dopo ancora con la faccia felice tipica di chi sta per ammazzarsi. E ci aveva pensato su a lungo.
Passato qualche giorno, nel silenzio della bottega cadenzato dal respiro di Devid, Brennero ha posato gli attrezzi, si è girato verso la seggiola da barbiere, ha guardato Liverio con un occhio in faccia e l’altro nelle verze, e gli ha detto la parola salvifica. Che era poi una frase:
Il segreto è nei granchi.
Quando si dice granchi si intende granchi fluminari, e su questo non si discute: gli altri granchi, quelli di mare, sono fasulli, impostori. A Bruglio di Brembio i granchi vivono nei fossi all’ombra degli alberi, da almeno un milione di anni. Son carne ricca e prelibata, forse un po’ passata di tendenza: nessuno ne mangiava piú, a parte Brennero Trenazzi, fino all’evo nuovo, che comincia proprio da lí.
La stagione dei granchi coincide con la mezza stagione d’autunno, soprattutto nel microclima di Bruglio di Brembio, malgrado la sfasatura dei cambi e delle rotazioni. E in quel periodo Brennero si era sempre nutrito di granchi: di notte li pescava, di giorno li mangiava. Tutte e quattro le figlie erano state concepite nella stagione dei granchi e, facendo per bene i calcoli, anche il nipotino. Diciamo quindi che la stagione dei granchi era la stagione fertile di Brennero Trenazzi. Passata la stagione, gli stimoli si inabissavano in un letargo che valeva sia per Brennero sia per l’Agnese, i cui bioritmi erano fusi osmoticamente fin dal giorno della discesa dalla camionata. Si trattava di un letargo per cosí dire compensativo, perché nel periodo fertile veniva fatta la spunta su tutti i santi del lunario, o anche due o tre spunte ogni santo, e volendo tenere la contabilità di queste cose veniva fuori un numero importante, che mette la cosiddetta pietra tombale sulle chiacchiere della comunità.
Brennero non parlava mai di queste cose: ne ha parlato solo quella volta, ma senza riferimenti espliciti, per rispetto dell’Agnese. Ha nominato piú che altro i granchi, e sui granchi Brennero non tralignava, se si può usare il verbo tralignare.
Tu non fare niente, gli aveva detto Brennero: lascia fare. Il granchio è generoso.
Il granchio fluminario, per dare un’investitura scientifica al discorso, è dotato di un corpo esoscheletrico inospitale, pieno di chele e di piedi, poco adatto alla promiscuità e quindi, in teoria, all’accoppiamento. Ma la natura ha una visione pratica dei fenomeni viventi: dove non arriva il corpo in sé arrivano l’ingegno e la pazienza che, come dicono i filosofi, è ciò di cui il piacere è ricompensa, e in questa filosofia i granchi riescono a copulare come tutti gli altri, anzi meglio.
Se ci riesce il granchio ci riesci anche tu, gli aveva detto ancora Brennero. Come dire, cambiando visuale, che il granchio era un’allegoria di Liverio.
I ricercatori americani sostengono che un’alimentazione a base di granchi fluminari consente l’assorbimento di quella sostanza detta feromone ma che qui chiameremo Dimitri, per comodità. Dimitri è la molecola che una volta intercettata olfattivamente crea l’interesse sessuale reciproco fra creature omogenee, senza bisogno di espedienti e forzature intellettualistiche che da secoli deprimono gli uomini per colpa di un rapporto irrisolto fra emisferi, enzimi, ormoni eccetera. Quello che diceva Brennero è, quindi, quello che da sempre dice la natura mentre sparge la molecola Dimitri: non fare niente, lascia fare.
Liverio gli ha dato retta e adesso siam qui a parlarne facendo un bel salto di anni.
C’era una bella fetta di paese, al funerale di Brennero Trenazzi: curiosi, indifferenti, pettegoli. E, al di sopra dell’incolmabile estensione dell’etere dove dimorano gli dei, c’era anche lui, a godersi lo spettacolo e a raccontarlo a un patrimonio di anime, per i secoli dei secoli.
Quello stesso giorno, ma è stato solo un caso, sono arrivati gli americani e sono ancora lí adesso. Hanno macchine portentose fantastiche, motori mobili e motori immobili, cannocchiali psicodinamici che guardano dentro gli uomini che respirano: vedono gli umori, le malinconie, i colori e le ingegnerie degli emisferi. Hanno corpi volanti di acciaio magnesio e tungsteno che aspirano e sputano l’aria delle stagioni. Hanno strumenti striscianti pornografi che spiano la flora spenta e la fauna pigra, e anche le biografie, come quella di Liverio Lamonaca. Il granchio fluminario, servito in tavola su letto di vigonza rossa brembiana, ora è conosciuto in tutto il mondo, grazie a loro: ne parlano gli esperti di tutti i rami.
Ci ripensa spesso, Liverio, alle parole salvifiche di Brennero. Ci ha pensato con le lacrime agli occhi il giorno del matrimonio in municipio, e poi quando son nati i figli, uno a uno, cinque di numero in cinque anni, tutti rossi e nessuno che gli somiglia.
Oggi, in apertura di stagione, Liverio firma come tutti gli anni una tregua con l’organismo e col respiro, è solo tregua perché la guerra è sempre aperta e non finirà mai.
Tutte le mattine saluta l’Afra e i bambini, esce, cammina nei ritmi della soglia minima, apre la bottega. Ma prima di cominciare il lavoro si gira e guarda ancora in strada il vivaio di uomini e donne di tutte le età. Lo fa tutti i giorni. Ha smesso di cercare le ragioni del tradimento che striscia dentro i loro corpi:
li guarda e basta, oggi piú martellati di ieri, tante pietre martellate ogni giorno, chi assomiglia a una brutta statua, chi a una colonna storta, chi a una pietra da cimitero. Poi entra e chiude la porta.