La persona accanto, di Marco Rossari

The Florentine Leterary Review (The FLR) è la rivista che propone racconti e poesie di autori contemporanei italiani, in italiano e in inglese.
Vi invitiamo a conoscere la rivista, attraverso l'approfondimento a cura di Alfredo Zucchi.
Pubblichiamo il racconto di Marco Rossari, contenuto nel numero 2 della rivista The FLR.


Giuliana entrò in sala.
Il cinema era vuoto.
Non era così insolito al primo spettacolo pomeridiano, eppure difficilmente capitava che non ci fosse proprio nessuno.

Mancavano un paio di minuti, perciò avrebbe potuto prendere un posto qualsiasi e infischiarsene del numero sul biglietto. Scelse un posto centrale, l’ideale intersezione tra due linee, giusto in mezzo alla sala.
Il posto X.
Si accomodò, pregustando la proiezione. C’era un bel tepore. Tutto era tranquillo. Aveva sistemato il cappotto sul posto accanto a sinistra e stringeva la borsa in grembo. Non per paura che la rubassero, era più un gesto istintivo di difesa. La rassicurava.
Era lì, con la sua borsa stretta al ventre, quando notò un movimento con la coda dell’occhio. Si girò di scatto. Le tende si erano scostate e un uomo con un cappotto nero era entrato in sala.
Le luci si attenuarono.
L’uomo aveva più o meno la sua stessa età. Sessanta, forse settant’anni. Alto, composto, borghese. Solo. Nella penombra l’uomo percorse il corridoio con passo deciso. Quando arrivò all’altezza della fila dove si era seduta Giuliana, sempre con passo marziale, entrò. Oltre al cappotto, aveva un cappello nero. L’uomo andò dritto fino a lei e si accomodò proprio lì accanto, alla destra di Giuliana. Lei non fece in tempo a guardarlo bene che le luci si spensero del tutto.
Tutto il cinema era vuoto.
L’uomo si era seduto lì.
Accanto a lei.
Nel buio.
Aveva già visto un film con qualcuno accanto. Però mai in una sala vuota. L’uomo aveva appoggiato il cappello sulla poltrona alla sua destra, ma era rimasto con il cappotto addosso. Dopo aver sbuffato, era piombato in un silenzio rotto da un respiro affannoso.
Giuliana non provò nemmeno a voltarsi per scrutarne il viso.
Il film ebbe inizio.
Fin dai titoli di testa, Giuliana fece una terribile fatica a concentrarsi sui fotogrammi. Sentiva quell’uomo respirare. Dapprincipio sommessamente, poi un poco più roco. Il respiro di un uomo. Era l’unica a percepirlo, l’unica a cogliere lo strofinio delle sue mani, l’unica a percepire il vago aroma dell’acqua di Colonia che doveva essersi spruzzato sulle guance quella mattina dopo essersi rasato.
 


L’uomo esisteva nelle sue manifestazioni – corporee, acustiche, odorifere – solo per lei, in quella sala vuota.
Chiedeva la sua attenzione? Esigeva la sua percezione?
Calma.
Si concentrò sul film. Era una storia lenta, si dipanava con terribile meticolosità, carrellate estenuanti…
O era lei che non riusciva a tenere viva l’attenzione?
Lo sentiva respirare.
Era lì.
Tutto un cinema vuoto e si era seduto accanto a lei.
Si accorse che l’uomo stava sbottonando il cappotto. Un bottone dopo l’altro, lentamente.
Era un malintenzionato?
Giuliana strinse la borsetta a sé. L’uomo voleva strapparla? Frugarci dentro? Rubarle qualche banconota e gettarla a terra con cattiveria, prima di allontanarsi, intimandole di non avvertire la polizia e di non seguirlo? La stava guardando? Voleva rubarle la fede al dito? Il diamante che da tanti anni impreziosiva la sua mano e la sua quiete coniugale?
No, no.
Non la fissava.
Ma respirava, lo sentiva.
Il film proseguiva, inesorabilmente lento. Invece che procedere in avanti, sembrava quasi andare a ritroso. O forse avanzava in modo circolare. Era un film morto. O era lei che in stato di intontimento cominciava ad alimentare fantasie assurde? La massa corporea di quell’uomo –respirava, respirava – la turbava così tanto? Davvero non riusciva più a seguire i personaggi sullo schermo? Doveva andarsene? Doveva mettersi a gridare? Doveva chiedergli di smetterla? Ma smettere cosa?
Non riusciva a concentrarsi.
Strinse la borsa. Si aggrappò alla visione.
Niente.
Non riusciva a seguire il film.
L’uomo aveva sbottonato il cappotto, ma non se l’era sfilato. Non aveva caldo? Brava, ci mancava solo che gli chiedesse: “Non ha caldo?”. Eppure lei soffocava. Una vaga nausea, un senso di spaesamento. L’attenzione che correva dallo schermo al respiro dell’uomo, dal vuoto di quella figura accanto alla trama immobile. Era un incantesimo. Una stregoneria.
Provò a guardare il resto della sala senza muovere la testa, solo gli occhi. Niente, nessun altro, non c’era anima viva. Forse alle spalle, ma non trovava il coraggio di girarsi.
E quello aveva un cappotto nero.
Era la Morte? Ora si sarebbe girato e le avrebbe sussurrato all’orecchio: “Sono venuto per te”. E poi avrebbe sorriso. Un po’ rassicurante, un po’ beffardo. La Morte ti trovava in una sala vuota non per portarti via, ma perché l’inferno era quella sala vuota. Te ne stavi lì a sentire respirare la morte. Tutto qua. E il film purtroppo non era granché.
O era un assassino?
Ora avrebbe estratto un coltello affilato da sotto il cappotto e con gesto sbrigativo le avrebbe tagliato la gola da un orecchio all’altro. Una colata di sangue denso, cupo, violaceo le avrebbe macchiato il maglione, mentre la testa si rovesciava all’indietro. O forse avrebbe preferito il metodo lento dello strangolamento. Non aveva controllato le mani: aveva forse dei guanti di pelle? La sagoma nel cinema si divincola ma non c’è nessuno ad assistere. Esistevano ancora i proiezionisti? Era tutto automatizzato? Avrebbero sentito le sue grida soffocate?
Perché si era seduto lì?
Provò a ragionare. Forse gli piace vedere il film al centro della sala. A tutti piace assistere da posizione centrale. E quando capita di avere un cinema tutto per sé, come un ricco con la saletta privata?
Ma proprio accanto a lei?
Oppure era un balordo. Non puzzava, però. Dignitoso. No, non era un vagabondo. Forse era un signore eccentrico. Girava per i cinema, cercando di instillare una sottile inquietudine nella persona accanto. Era il suo passatempo preferito, nel corso di una vecchiaia che trascorreva nel tedio del lusso. Sai cosa faccio di pomeriggio? Non ci crederai mai.
Doveva essere così.
Ma no.
Calma.
Respira.
Era una vecchia signora, in un cinema del centro, a una proiezione come un’altra. Non bisognava farsi venire il batticuore. Lì fuori c’era una maschera, c’era la cassiera. Nella piccola libreria adiacente c’era una ragazza dall’aria gentile che probabilmente studiava Lettere o Filosofia. C’era il mondo: il frastuono delle auto, la musica dei venditori ambulanti per strada. E allora perché tutto si riduceva al fiato sommesso che sentiva a pochi centimetri? Le spalle, così vicine; le gambe, così vicine; l’aria condivisa, da loro due soli, in quella maledetta sala.
Doveva essere pazza.
Poi la domanda, inevitabile, verso la quale tutto convergeva.
Era un molestatore?
Non ne aveva mai trovati. Adesso Giuliana era una signora stagionata. Forse non era più così avvenente… Ma l’avvenenza, si diceva, non aveva poi tanta parte in una molestia di quel tipo. E poi, aggiungevano, non esisteva più quel tipo di molestatore. Al pomeriggio di norma trovava gruppetti di studenti, diverse signore canute che la guardavano con aria complice, qualche intellettuale precario rincantucciato in un angolo a prendere appunti su un taccuino.
E invece questa volta?
Soli.
Era un molestatore?
Avrebbe abbassato la cerniera nel buio e avrebbe tirato fuori il sesso? Era questo che voleva fare? Masturbarsi accanto a una signora nel buio di un cinema? Voleva farsi vedere eiaculare? Spaventarla, atterrirla? Voleva estrarre il sesso – enorme, spaventoso, lucido – e metterlo in mano a Giuliana, alla vittima Giuliana, alla povera Giuliana, a una signora indifesa? Bisbigliarle qualcosa? Qualcosa come: “Guardalo”? O qualcosa come: “Ti piace, lo so, guardalo bene”? Voleva prenderle una mano, la sua mano avvizzita, la sua mano gelida di vecchia signora, la sua mano abbandonata e ora quasi tremebonda, lì sopra la sua borsetta, lì alla sua mercé, la sua mano con il diamante! Voleva prenderle una mano e mettersela sul sesso, farle sentire la forza del sangue, dopo tutti quegli anni? Voleva dirle quella parola? Voleva dirle: “Guardalo, guarda il cazzo”? Voleva forse metterle una mano sulla nuca e, forzando la sua debole resistenza, farla chinare e arrivare a pochi centimetri dal cazzo? Le avrebbe detto, a quel punto: “So che lo vuoi, su, fai la brava”? E lei che cosa voleva? Voleva che lui lo facesse? Alla sua età, voleva piegarsi su un uomo e prendere in bocca la sua carne palpitante? Voleva sentirsi dire come un tempo, come in luna di miele, in quella tarda primavera del 1969, quando a Capri suo marito le aveva spinto la testa allo stesso modo, sul letto, di notte, e le aveva detto “Su, fai la brava” e a lei era piaciuto anche se non aveva trovato il coraggio di ammetterlo, nemmeno a se stessa?
Ma cosa le veniva in mente!
A furia di farsi domande, di ascoltare il respiro dell’uomo, Giuliana si ritrovò a veder salire i titoli di coda.
Il film era finito. Non era successo niente. Le luci si accesero e i primi spettatori dello spettacolo successivo – numerosi, rassicuranti – cominciarono a entrare.
La persona accanto si girò e le disse: “Amore, scusa se prima ci ho messo un po’, ma proprio non trovavo parcheggio. Ti è piaciuto? Sembravi così assente".