Valeria Parrella

a cura di Giuliana Riccio

“Tienimi alla giusta distanza da quelli che amo, Dio, cazzo…Tienimi alla giusta distanza dalla morte, Dio, cazzo”

Dice Bud, il protagonista di Behave, uno deiracconti più belli di Troppa importanza all’amore.
Queste due frasi, sparse in momenti diversi della narrazione, connotano con grande efficacia la natura dei tuoi personaggi e di tutto l’impianto narrativo del libro: un testo sulla verità, la ricerca della verità, e di conseguenza sull’amore.  I personaggi di questi racconti ci si presentano nel momentoin cui ,faccia a faccia con se stessi,  sono pronti finalmente a dirsi quello che hanno sempre saputo e che per un motivo o un altro hanno sempre dimenticato di dirsi.  Li vediamo nell’atto di fare di questa consapevolezza l’incipit di una nuova vita e qui, sulla soglia di un prossimo inizio, li perdiamo. Sembra che la tua urgenza narrativa sia concentrata non sul dopo ma sull’attimo prima del dopo, il momento in cui il divenire si concretizza in una possibilità o semplicemente una certezza. Così facendo riesci sempre a mantenere quella  giusta distanza dai personaggi e dalle loro storie che consente alla scrittura di non morire, di restare sempre fresca, mai stanca. In questo senso, quanto credi che la forma del racconto possa essere utile, in virtù delle sue caratteristiche spazio-temporali, a preservare lo scrittore dal rischio di annegare nelproprio personaggio e banalizzarne la storia trasformandola in tesi?

Ciao. Premetto che ho letto con grande interesse questa tua osservazione, ma anche voltandomi un po’ di là, perché io questa lettura dei miei stessi racconti non la posseggo del tutto, e diciamo che non la voglio possedere del tutto. Diciamo che io non ci penso mai. Stano nei libri degli altri (in questo momento lo sto proprio facendo con Alice Munro) i meccanismi narrativi, o quelli drammatici, ma poi quando devo scrivere io ne sto alla larga.
Ecco: allora forse, proprio in questo non guardare direttamente, tenersi alla larga gioca la giusta distanza che tu generosamente trovi nei miei racconti. In quanto alla scelta del racconto: io fosse per me scriverei solo quelli. Ma forse non scrivo solo quelli? Tranne ‘Lettera di dimissioni’ che accompagna un personaggio dall’infanzia ai quarant’anni (ma lo fa anche “Chi ti credi di essere?” di Alice Munro, che poi alla fine sono racconti) tutto il resto della mia produzione non è incontrare i personaggi a un certo punto e lasciarli andare?
Chiaro che più breve è il percorso più è riuscito l’esperimento.

Nella forma del racconto la tua penna sembra muoversi come la Giulia, di Il giorno dopo la festa:

“Allora io andai rabbrividendo nell’acqua vitrea del mattino, ma dopo pochi minuti già nuotavo e non avevo più freddo. Davanti a me, una bracciata sì e una no, vedevo le barche lente all’orizzonte. Avanzavo e a ogni metro sentivo che l’ acqua mi alleggeriva e sosteneva”

Giulia non nuota oltre la baia e in questo suo stare dentro una conca, metaforizza il senso stesso del genere racconto: una nuotata perfetta che sa esattamente quando fermarsi per non perdersi nell’infinito.
Quando scrivevi negli ampi confini del romanzo, al contrario, ti sei mai sentita sopraffatta dallo spazio bianco? Da una nuotata oltre confine? Le sponde del racconto permettono alla tua voce di avanzare con maggior sicurezza/naturalità?

Forse allora ti ho già risposto, non so: io non ho mai la sensazione di perdermi, mi dispiace se il lettore si è perduto….anzi quando scrivevo ‘Lo spazio bianco’ la scrittura mi serviva proprio per arginare l’inedito. Nominare, limitare, decidere dove sta il limite, guardare. Non lo dico in senso terapeutico, lo dico proprio in senso letterario: tenermi ben stretta alla scrittura è la mia forma dello scrivere. Altra non ne ho. Decidere che lingua usare, come e quanto usarla per dire e come e quanto usarla per celare. E poi ‘Lo spazio bianco’ sono 120 pagine. È un romanzo? Mah?

Alcuni di questi racconti erano già apparsi in altre vesti, in altri luoghi. Come l’hai costruito questo libro? E come pensi che si pongano gli scrittori contemporanei rispetto alle raccolte di racconti: le ritengono dei libri compiuti con una loro anima viva, o pensi che spesso i racconti siano delle tappe per riposarsi tra un romanzo e l’altro?

La scrittura e la pubblicazione sono due cose diverse. Quando io scrivo racconti, (e lo faccio continuamente, anche mentre sto scrivendo altro, in maniera random, quando penso alla storia, e non sistematicamente) corro libera nel praticello. Ho tredici anni e ho passato lo steccato, ora c’è solo da correre nell’erba, poi buttarsi a terra per la stanchezza, evitare di pestare le cacche di mucca. Qualcun altro penserà a far da mangiare quando sarà ora. Ogni tanto ho un bel po’ di questi racconti e verifico se l’editore ha voglia di pubblicarli. Allora lì si cominciano a scegliere in base a una coerenza interna (che non può mancare giacchè l’autore è lo stesso!), e alcuni usciti in rivista per esempio sono piaciuti più di altri originali. In questa raccolta avevo un racconto molto bello, ma alla mia editor non convinceva proprio. Lei ci voleva mettere un altro racconto che a me invece non convinceva proprio. Allora ho detto: mo ne scrivo un terzo. L’ho scritto in una settimana, è ‘Gli esposti’: e siamo state d’accordo tutte e due a metterlo nella silloge

Leggendo il tuo libro ho più volte ripensato a Fuochi della Yourcenar. Anche lì, come qui, un percorso che prende le mosse dall’amore per ritrovare una strada più che perduta, abbandonata, e che, attraverso dialoghi rarefatti, che non chiamerei proprio monologhi, poiché scorgo un dialogare costante con l’al di là del proprio io, riesce a ritornare a galla, alla coscienza non solo di chi scrive, ma anche di chi legge. Il tutto scandito da un ritmo drammatico che non fossilizza mai il testo. In questo riconosco la forza del teatro: la capacità di dare consistenza alla voce e di trasformare le descrizioni in azioni. Quanto la tua esperienza in scena ha arricchito, trasformato, la tua forza narrativa?

Stai diventando la mia intervistatrice preferita, lo sai? Fuochi l’ho letto e riletto quando scrivevo Clitemnestra. Che alla fine è una novella, ma è stata portata in scena. La verità è che io per la scena scrivo solo di eroine demoniache e alte: Antigone, Euridice, la protagonista di ‘Ciao maschio’. Cioè, come ti può dire qualunque regista e critico, io non scrivo “per la scena”, ma scrivo storie dialogate o monologanti che possono essere “tradite” per la scena. Dentro c’è tutto. Nell’ultimo lavoro, ‘Assenza’, faccio dire a Hermes un sacco di cose: cenere, ginestra, pira, satiro, etc etc., cose che il regista ha deciso di utilizzare come elementi scenici. Un altro magari gliele faceva recitare. Se, però, leggi il testo nel volumetto Bompiani, senza la messa in scena, regge lo stesso. Non c’è manco una didascalia.

“Lo trovo onesto, dire ciò che si pensa. Non è garbato, direbbel’ assistente sociale.
L’ assistente sociale non è una che dice quello che pensa. Èuna morta. Non è un modo di dire,questa cosa qua a me riesce bene: io quando dico , sto proprio dicendo morto. Sto dicendo che dentro le persone normali, che camminano, fanno le loro cose, io vedo i morti”

Colpisce, in questo libro, la tua capacità di fare del mondo contemporaneo, con le sue drammaticità e le sue incongruenze, uno scenario a un tempo potente e discreto. I fatti che compaiono in queste pagine, benché tragici, non prendono mai il sopravvento sulle scelte deituoi personaggi . I dilemmi, le storture attuali del nostro sistema politico ed esistenziale ci sono tutti: il precariato scolastico, la fugacità dei rapporti coniugali, la prostituzione, il fantasma evocato del Mar Mediterraneo, del mare nostrum non più innocente, della paradossale situazione degli ergastolani, costretti a scontare una pena che non si può scontare.

È questa una conseguenza spontanea del tuo essere al mondo e nel mondo, o una scelta legata al tuo modo di intendere l’arte?  Credi che uno scrittore, oggi, per essereautentico, per non creare libri morti, possa prescindere dalla Storia/ cronaca quotidiana?


Vorrei pensarlo. Ma sono nata nel 1974 e sono cresciuta a pane e Nilde Jotti. A casa mia si vedeva Fantozzi perché faceva la lotta di classe. A me faceva ridere. Quest’anno l’ho rivisto assieme a mio marito e ci siamo tormentati a rivederlo da grandi: è un capolavoro di cattiveria orrenda. Vorrei scrivere una storia per il solo piacere di affabulare ma non ci riesco, non mi sento chiamata al mondo per questo. Non credo che se un libro è lontano dalla sua epoca (non in senso temporale ma di impegno politico/civile) è morto, anzi! Li leggo felicissima da lettrice e sono grata a chi mi dona questa parentesi. Io credo che l’unico vero “ingaggio” dell’artista è fare cose belle. Punto. Ma sono laureata in lettere classiche, e la kalokagatia di Saffo mi è entrata sotto pelle. Che ci posso fare?

Paola del Zoppo, responsabile editoriale Del Vecchio Ed.

Intervistiamo Paola del Zoppo
responsabile editoriale di Del Vecchio Editore

 

a cura di Francesca de Lena

La prima cosa che mi viene in mente da chiedere a Paola del Zoppo, responsabile editoriale della Del Vecchio editore, riguarda il modo di categorizzare le cose, che a me, in generale, ha sempre affascinato molto. Le collane delle case editrici spesso nascono e si sviluppano attorno a un tema, a ideali di poetica, a un'area geografica, o a caratteristiche di stile e contenuti. Oppure, quando le case editrici sono grandi, diventano delle macro-categorie senza molto criterio.

Voi avete scelto di sviluppare categorie rispetto alla forma: lunga, breve, poesia - e a me, a naso, questa sembra una cosa molto ordinata e giusta – ma perché l'avete fatto? Com'è nata questa scelta? Come mai l'attenzione va prima di tutto alla forma della narrazione?

Dopo un primissimo periodo in cui Pietro Del Vecchio ed io ci siamo rivolti soprattutto alla poesia straniera, tastando il terreno, con in mente più che altro l'idea di cercare qualcosa che mancava ai lettori italiani. Avevamo iniziato con la poesia, e la collana di poesia continua a darci molte soddisfazioni (il premio Catullo è di meno di due anni fa), ma volevamo raggiungere anche i lettori di narrativa. Riflettendo ci siamo resi conto che forse proprio le categorie tematiche e regionali non facevano bene alla lettura, in Italia. La tendenza a creare lettori "abitudinari" funzionale a un certo tipo di marketing editoriale, che giova del poter definire un libro "femminile" o "giallo", non solo non raggiungeva tutto il pubblico che la letteratura può conquistare, ma, soprattutto, non permetteva a determinati libri di "entrare" nel panorama italiano. Per fare un esempio, fin da subito abbiamo scelto degli autori noir molto particolari, come Laurent Martin, Robert Hueltner, Moussa Konaté, che in parte smussavano i contorni del "giallo" tradizionale. Per questo quasi subito abbiamo sciolto definitivamente le categorie di genere. La nostra idea era di sviluppare il pubblico dei lettori di letteratura e far intravedere delle possibilità (anche di mercato letterario) che rimanevano adombrate. Ecco perché adesso abbiamo solo le tre collane che menziona. Il lettore vero apprezza la letteratura che sia in forma di romanzo, di racconto o di apologo – e niente di più. 

La seconda domanda è strettamente collegata, ma punta il riflettore sulla categoria che più c'interessa: la collana Formebrevi funziona come quella Forme Lunghe? Aver dedicato un'intera collana ai racconti riesce a valorizzarli, a farli uscire dal ghetto? E, ragionando in termini strettamente imprenditoriali, si sta rivelando una scelta vincente rispetto al ritorno economico?

La distinzione tra la collana formebrevi e la collana formelunghe non è data solo dalla lunghezza dei testi. Nella collana formelunghe si trovano romanzi di poche pagine e nella collana formebrevi, in alcuni casi, novelle piuttosto lunghe (come nel caso di “L'origine del male” di Leonhard Frank, il primo testo di “L'uomo è buono”). Distinguiamo le forme in base alla struttura narrativa. Nella collana formebrevi vengono presentati al lettore testi brevi di varia natura, raccolte di racconti, più "classiche" come quello di Deborah Willis, ma anche assemblaggi tematici di testi in origine non pubblicati insieme (come appunto il caso di “L'uomo è buono” di Leonhard Frank e di tutte le altre prose brevi di questo autore), ma anche riflessioni, testi di taglio più giornalistico, come nel caso delle “Acqueforti di Buenos Aires” di Roberto Arlt.
Nella collana formebrevi è inserito anche l'ultimo libro uscito: “Tutameia. Terze storie”, un meraviglioso caleidoscopio di racconti brevissimi di Guimaraes Rosa, finora inedito in Italia, dalla solida coesione interna. Questo per dire che la collana formebrevi è tanto eterogenea, nella sostanza, quanto quella formelunghe. Inoltre, alcuni autori sono presenti in più collane, Fuouad Laroui, per esempio, pluripremiato in Francia, in Italia ha vinto il premio Alziator con la raccolta “L'esteta radicale” e sarà presente nel nostro catalogo con un romanzo che uscirà fra pochi mesi: “Un anno con i francesi”. Di Lutz Seiler, che ha inaugurato la collana formebrevi alcuni anni fa con la raccolta “Il peso del tempo”, abbiamo pubblicato in seguito un volume di poesie (La domenica pensavo a Dio) e stiamo per pubblicare il primo romanzo, KRUSO, uscito l'anno passato in Germania e vincitore del premio dei librai. Insomma, ci piace che i nostri libri dialoghino tra di loro, tra autori, collane, generi. E credo che in questo dialogo - ovviamente intuito innanzitutto nel progetto editoriale complessivo - stia anche l'essenza imprenditoriale. Le formebrevi vendono quanto e a volte più delle formelunghe, perché le une non escludono le altre, anzi, si richiamano a vicenda e il lettore curioso sarà portato a cercare novità volentieri passando da una collana all'altra.

Mi dice quali sono o possono essere i motivi per cui una storia o un'idea sul mondo debbano essere raccontati in forma breve - che sia essa un racconto, un testo giornalistico o dei frammenti? Perché è giusto e necessario che sia proprio quella la forma che ci vuole, e non un'altra?

Ovviamente deve essere innanzitutto una scelta di carattere artistico letterario. Non credo che ci siano delle tematiche particolari che vadano affrontate in forma breve, come non credo che si possa considerare scrittore solo chi regge l'ampiezza narrativa di un romanzo, anzi, credo che tutti facciamo riferimento, per dire, a Kafka o a Poe per la loro capacità di condensazione degli universi narrativi in forme brevi. Credo che a ogni soggetto narrativo si accosti un giusto e necessario sviluppo, e credo che le forme ibride siano le più interessanti. Al giorno d'oggi assistiamo a un riavvicinamento alle forme epiche, per esempio, il che mi fa pensare al ritorno della necessità di narrare per conoscere ciò che non capiamo e per accettare di non capirlo. Per quanto riguarda il frammento, l'apologo, le brevi satire giornalistiche, credo che sia un tipo di comunicazione letteraria del tutto diversa, anche perché presenta un rapporto diverso con la finzione. Ma è proprio nel gioco di finto - o vero - realismo che si sussume il senso letterario di quel tipo di letteratura, che, mentre può apparire più menzognera sul grado di realtà effettivamente presente nel testo, è più leale rispetto all'intento: un lieve spostamento nel rapporto che il lettore può avere con la realtà.

Cosa pensa della tradizione delle short stories americane e di quella dei racconti e delle novelle europee e italiane? Perché le prime hanno tanto successo e le seconde sono conosciute solo dagli intenditori? C'è una responsabilità da qualche parte? Se c'è, dov'è?

Non so se si possano attribuire responsabilità in senso stretto. La letteratura americana è stata molto presente in Italia fin dall'inizio del secolo scorso con i grandi romanzieri. L'enorme successo della short-story è legato secondo me alle significative potenzialità della narrativa breve, che si avvertiva più realistica in alcuni casi, più pungente in altri. Molto poi è dipeso da un certo tipo di critica letteraria che ha fatto della letteratura americana in generale, e non solo della tradizione della short-story, un modello da seguire, spesso collegandola alla tendenza al realismo, laddove è ovvio che si potrebbe discutere anche sul concetto di realismo. Abbiamo adesso e abbiamo avuto in Europa e in Italia anche scrittori di short-stories oltre che di novelle: gli svizzeri, per esempio Dürrenmatt e Glauser sono abbastanza conosciuti anche da noi. E non so se i racconti di Calvino, Morante, Fenoglio, o anche Landolfi e Bassani siano conosciuti solo dagli intenditori. Se vogliamo invece vedere il problema nell'"importazione" di letteratura, lì si gioca il ruolo delle case editrici, e della loro volontà e capacità di agire nel mercato. Quello che noi cerchiamo di fare è proprio far conoscere le diverse possibilità e realizzazioni delle forme brevi anche provenienti da diverse tradizioni letterarie, di prossima uscita, per esempio racconti lettoni e lituani che conciliano alcune tendenze della classica short-story con il respiro della novellistica.

Come mai nella vostra collana forme brevi non ci sono ancora autori italiani? Crede che ce ne saranno? Sareste aperti anche agli esordienti?

Abbiamo da poco intensificato la ricerca sugli italiani. La nostra editor per gli italiani - Vittoria Rosati Tarulli - finora ha individuato un solo autore di racconti che pubblicheremo. Il suo nome è Luigi Cecchi e il volume uscirà a settembre di quest'anno (titolo provvisorio: “Il karma del pinolo”). Si tratta di una raccolta di racconti - short-stories - in cui l'autore gioca con le componenti classiche del racconto fantastico, e le congiunge con una ironia talvolta amara e con molteplici possibilità di umana reazione agli eventi, per offrire visioni oblique della realtà. E, sì, siamo aperti agli esordienti, certo! ma al momento il catalogo è pieno fino a fine 2016.

 

Libreria Modusvivendi

Intervistiamo Fabrizio Piazza, responsabile vendite ed eventi della libreria

Modusvivendi
di Palermo


a cura di Cattedrale

Cominciamo con una domanda generica ma doverosa: cosa significa, oggi, gestire e portare avanti una libreria indipendente?

Significa libertà nelle scelte e assenza di pressioni esterne. Io la vedo come una garanzia di autonomia. L'importante è che si affermi un'identità forte. Oggi molte librerie senza un'anima precisa sono costrette a chiudere. Una forte identità e un'attenzione costante al cliente sono le prime cose di cui una libreria indipendente degna di questo nome dovrebbe dotarsi.

Quali sono le vostre strategie di sopravvivenza?

Sostanzialmente tre. Primo: un calendario di eventi molto studiato, in cui si alternano nomi affermati a livello nazionale (e non solo) e autori locali. Il 18 giugno ospiteremo per esempio al Teatro Biondo l'ultimo libro di Stefano Benni "Cari mostri" edito da Feltrinelli mentre il 30 giugno c'è già molta attesa per l'arrivo a Palermo di Miriam Toews, autrice di un romanzo per me davvero straordinario come "I miei piccoli dispiaceri" (Marcos y Marcos). L'autrice sarà accompaganata dalla bravissima traduttrice Maurizia Balmelli. Secondo: l'importazione diretta dall'India di prodotti ad alto contenuto artigianale e tradizionale come sciarpe, borse, giacche, gioielli. Il tutto perfettamente integrato in mezzo ai libri, un mix di cultura e antiche tradizioni. Terzo: i progetti con le scuole, fondamentali per avvicinare i giovani alla lettura. A"Modusvivendi va a scuola" hanno già partecipato Gianluca Nicoletti, Riccardo Iacona, Stefano Benni, Piero Dorfles, Giuseppe Catozzella, Andrea Bajani, mentre per le scuole medie abbiamo coinvolto Annamaria Piccione, Vichi De Marchi, Loredana Lipperini e Viviana Mazza.

Quanto è importante ancora la figura del librario, che dà consigli al cliente e magari conosce i suoi gusti, rapportandolo agli algoritmi di Amazon "se ti è piaciuto x allora leggi anche y?"

Per noi è fondamentale. Creare una comunità di lettori è una delle strade che stiamo percorrendo. Ogni mese selezioniamo un libro che entra a far parte del "Modusclub", il nostro circolo di lettura. Chi si iscrive legge il libro e il giorno fissato per l'incontro se ne discute insieme, ognuno esprime liberamente il proprio parere, spesso alla presenza dell'autore che ascolta in religioso silenzio cosa ne pensano i lettori. Spesso chi viene in libreria si fida ciecamente dei nostri consigli. Una delle domande più frequenti è: "cosa mi fai leggere?".  Piccole grandi soddisfazioni.

Come ti poni nel dibattito sull'iva agevolata sugli ebook?

Vado controcorrente. Per me un libro non è un ebook. La penso come Giuseppe Genna e Giulio Mozzi. Ma ripeto, siamo in minoranza.

Siete molto attivi, da voi si organizzano un mucchio di eventi e di attività. Questo vi costringe, in qualche modo, a partecipare alla filiera editoriale di un libro, a fare parte di un gioco che riguarda tutti: dagli editori agli autori, dai distributori agli uffici stampa. Che cosa ne pensi di questo mondo? Come vi ci trovate?

L'editoria mi ha sempre affascinato, sin da quando feci uno stage con Marcos y Marcos, nell'ormai lontano 1997. Dall'estate di quell'anno mi sono messo a fare il libraio. Il prossimo 20 giugno Modusvivendi compie 18 anni e io ancora ho lo spirito e l'entusiasmo di chi mette piede in libreria per la prima volta.

Come tutti sanno, i racconti non vengono letti e non si vendono. Qual è la vostra esperienza da librai riguardo a questo argomento così spinoso? È vero che i lettori non leggono i racconti?

Confermo, vendere un libro di racconti equivale a vendere tre romanzi. Ma il Nobel ad AliceMunro e il successo anche cinematografico di Raymond Carver hanno un po' sdoganato il genere. Non abbastanza però. Spesso devo ricevere risposte come: "no, io voglio la storia lunga che mi prende per mano dall'inizio alla fine". Hai voglia a dire che spesso i racconti hanno un filo conduttore, o splendidi personaggi. Resta un compito difficile.

Come vi organizzate con i libri di racconti? Cioè, facci un esempio delle vostre vetrine e dei vostri scaffali: dove finiscono i libri di racconti? È facile trovarli, per il lettore che non è andato in libreria alla ricerca specifica di una raccolta?

Noi li mescoliamo agli altri libri di narrativa. Confinarli in uno spazio dedicato sarebbe come chiuderli in un ghetto. E questo va assolutamente evitato.

Vi capita di consigliare raccolte di racconti, ai vostri clienti? E di che tipo? Più straniere o italiane?
Certo che ne consigliamo. Per esempio questa estate vorrei fare un esperimento su "L'età della febbre" appena uscito per Minimum Fax. E continuiamo a proporre "L'interprete dei malanni" di Jhumpa Lahiri, prima con Marcos y Marcos e ora con Guanda. Successo garantito e ottimo grimaldello per convertire i lettori al genere short stories.

Quando vi arriva un copertinario o da una casa editrice vi viene proposto l’acquisto di una raccolta, come vi comportate? Alla stessa maniera che con un romanzo? Quali sono i parametri di scelta, rispetto ai racconti?

Molto dipende dall'autore che ci viene proposto. Certo, se si tratta di un esordio di racconti è dura. Alcune volte può fare differenza anche il titolo accattivante o la copertina riuscita.

Qual è l’ultima raccolta di racconti che hai letto? E, se lo ricordi, quella più venduta ultimamente?

Ho appena finito di leggere un libro che probabilmente non avrà la considerazione che merita, non avendo alle spalle nessun grande gruppo editoriale ma solo un piccolo editore messinese, Mesogea, che pubblica esclusivamente libri con argomento mediterraneo. Sono racconti atipici, costruiti sul modello dei Sillabari di Parise. Li ha scritti Mario Valentini, il titolo è "Come un sillabario". L'autore, che negli anni passati ha collaborato alla redazione del Semplice con Celati, Cavazzoni e Paolo Nori, oggi fa l'insegnante di scuola media e ha uno sguardo da flaneur che ricorda quello di Robert Walser. Leggetelo, una scoperta. Di recente abbiamo venduto bene la raccolta di Paolo Cognetti "A pesca nelle pozze più profonde" (Minimum Fax), che è anche un libro sull'arte di scrivere racconti. Per me andrebbe adottato nelle scuole.
 

Se tuo figlio dovesse dirti che da grande vuole fare il libraio, saresti contento o cercheresti di dissuaderlo?

Gli direi di fare quello che lo appassiona e lo rende felice. Il profitto non è la misura di ogni cosa.

Marco Cassini, direttore editoriale SUR

A cura di Cattedrale
 

Nel tuo libro autobiografico Refusi – Diario di un editore incorreggibile (Laterza), scrivi:

“Con il lavoro che ho scelto di fare, mi aspettavo che la mia vita sarebbe stata diversa. Mi immaginavo lunghe giornate a leggere manoscritti che avrebbero cambiato la storia della letteratura, conversazioni rivoluzionarie in fumose bettole del centro storico con scrittori leggendari […] Avevo dimenticato che l’editore non è solo un appassionato di libri, un animatore culturale, ma è fondamentalmente un imprenditore, con tanto di partita iva, obblighi fiscali e bilanci depositati.”

È mai capitato che l'appassionato e l'imprenditore che albergano in te fossero in disaccordo? Che, magari, l'appassionato spingesse per la pubblicazione di una raccolta di racconti che gli stava a cuore e l'imprenditore scuotesse la testa perché doveva far quadrare il bilancio? E di solito, chi vince tra i due?

Che imprenditore e appassionato non vadano d'accordo succede – per fortuna – spessissimo. Dico "per fortuna" perché è come avere un controllore interno (e reciproco!), una coscienza sempre in piena attività. Racconto spesso che dopo aver imparato a calcolare il punto di pareggio (quante copie di un libro bisogna vendere a un determinato prezzo per poter coprire i costi di produzione) ho dovuto disimpararlo perché, specialmente all'inizio, quando la casa editrice era appena nata e aveva poche aspettative di vendita (ma anche di recente, dato che con la crisi sono drasticamente diminuiti gli ordinativi da parte delle librerie), l'imprenditore avrebbe imposto all'appassionato di lasciar perdere, di passare la mano. Poi le cose hanno dimostrato in qualche caso che tra passione e ragione spesso vince il terzo litigante che è l'intuito. E in parecchi casi, almeno nell'esperienza diminimum fax, pubblicando racconti abbiamo potuto violare quel tabù imperante della non vendibilità della narrativa breve, e siamo riusciti a dare una visibilità e una diffusione ampie "perfino" a libri di racconti di autori internazionali come Carver, Malamud, Yates o di autori italiani come Parrella o Cognetti.

Dopo minimum fax e il suo meraviglioso lavoro sulla narrativa nordamericana, hai cambiato emisfero, sei passato a quella sudamericana e hai fondato SUR. Se dovessi sintetizzare in poche parole le differenze tra la narrativa breve del sud e quella del nord America, quali sarebbero e perché?

Non credo che sarei in grado di farlo, né con poche né con molte parole... Si tende ad associare la letteratura degli Stati Uniti con il contemporaneo, il metropolitano (la cosiddetta urban fiction), in molti casi con il postmoderno; e allo stesso modo, generalizzando, si parla di America Latina con una tendenza a sottolineare gli aspetti epici, magici (quell'etichetta che forse ha fatto più danni che favori alla sua letteratura). Ma basta pensare a dei singoli casi (Onetti a cui si fa riferimento quasi sempre come al "Faulkner latinoamericano"; Cortázar che forse è stato un postmoderno ante litteram o extra moenia) per capire che i confini sono molto più porosi. Ci vedo più punti di contatto che elementi di distanza: in entrambi gli emisferi – così come del resto in Europa – il racconto ha permesso di sperimentare, di creare mondi accennati che il lettore può continuare a costruire. Più che le differenze potrebbe risultare interessante tracciare dei punti di contatto, anche solo nei cataloghi delle due case editrici: i racconti di Donald Barthelme hanno certamente una parentela non troppo lontana con le storie di Julio Cortázar; gli adolescenti di José Emilio Pacheco potrebbero essere compagni di scuola di quelli di Aimee Bender; nella loro diversa modalità di svelare un mistero i racconti gialli di Rodolfo Walsh mi hanno ricordato la serie dei "vedovi neri" di Isaac Asimov.

Nel libro Lezioni di letteratura (Einaudi), Julio Cortázar scrive che in America Latina la forma racconto occupa una posizione di prima fila non solo dal punto di vista degli scrittori, che la praticano da sempre e con molta naturalezza; ma anche dal punto di vista dell’interesse dei lettori: c’è, cioè, un pubblico che aspetta di leggere racconti. Come mai questo non avviene in Italia?

Non sono così convinto che non esista un pubblico per i racconti in Italia. L'atteggiamento degli editori che non pubblicano racconti perché sicuri che non verranno letti assomiglia a quello dei vertici della tv pubblica quando tengono basso il livello qualitativo dell'offerta perché credono che il pubblico non apprezzerebbe un prodotto più "alto": si finisce col proporre ciò che l'editore suppone che avrà un pubblico, e quindi si decide a tavolino cosa il pubblico, per dirla con un bisticcio, "dovrà volere". Si pretende insomma di pensare al posto del lettore, non si rischia, si limita la scelta, si propone sempre qualcosa che assomigli a ciò che ha già avuto successo. L'editore dovrebbe invece guidare il lettore alla ricerca del nuovo, educare alla diversità, rischiare nella proposta originale. E si badi, il racconto non è certo un genere nuovo, è anzi antichissimo, e ci sono molti casi di successi editoriali legati ad autori di narrativa breve; quindi in fondo non è detto che pubblicare racconti sia rischioso. Ma, appunto, in un mercato in gran parte (per fortuna non del tutto) omologato perfino la lunghezza di un testo può essere considerato un fattore di "non allineamento" alla formula "squadra che vince non si cambia".

Continuando a parlare di differenze e somiglianze, credi che ognuno dei Paesi che compongono l'America meridionale abbia una sua letteratura nazionale ben riconoscibile o, per la proprietà transitiva, viene semplicemente assimilata agli stili e alle tematiche dei loro scrittori più noti (Bolano per la cilena, Cortázar e Borges per quella argentina, Paz la messicana e così via)?

Credo ci siano altrettante letterature nazionali, ciascuna con la sua storia, i suoi autori e titoli più rappresentativi. In questo senso si può parlare di letteratura latinoamericana tanto quanto si può parlare di "letteratura europea", ossia dovendo sottolineare le differenze piuttosto che le similitudini. Ma è innegabile che a dispetto di quanto accade nel nostro continente dove ogni letteratura ha la sua lingua, la latinoamericana – con l'ovvia e ingombrante eccezione del Brasile – ha una lingua franca che diventa una patria letteraria. Molti scrittori si sono definiti cittadini di un Paese che è la lingua spagnola: una sorta di Schengen letteraria in cui Bolaño è concittadino di Cortázar, di Onetti e di Vargas Llosa. Schengen for you!

Burned Children of America fu un'antologia di racconti di minimum fax sui giovani scrittori nordamericani più talentuosi, ed è divenuta ormai un classico. Ci sarà il Burned Children of America dei sudamericani?

Ci stiamo lavorando. È ancora un cantiere pieno di secchi, impalcature e cazzuole. Ma appena inizierà a prendere una forma riconoscibile sarete i primi a saperlo!

Sur ha una veste grafica molto ben definita e riconoscile: come siete arrivati al risultato finale? Cos'è che a un certo punto vi ha fatto dire “Sì, è questa: i libri di Sur devono essere così”?

Nel caso di SUR il lavoro di Riccardo Falcinelli è stato quello di creare una sintesi di una serie di elementi su cui avevamo le idee molto chiare, a partire dal logo che è un omaggio al nome della rivista letteraria argentina fondata nel 1931 da Victoria Ocampo e per la quale hanno scritto i maggiori autori latinoamericani (fra tutti Borges, García Márquez, Paz, Neruda) e alla freccia verso sud, l'unico segno grafico a comparire nelle copertine della rivista e che abbiamo inserito nel logo di SUR. Gli altri punti di riferimento che avevo segnalato a Riccardo erano: il colore di fondo sempre diverso, altra caratteristica della rivista di Victoria Ocampo; la sequenza cromatica, per la quale ci siamo ispirati invece alla collana di libri per ragazzi "I Quindici" (punto di riferimento non solo per l'arcobaleno della sequenza dei dorsi – che Falcinelli ha deciso di limitare a dieci tinte rispetto alle quindici del modello di partenza – ma anche per il simbolo-silhouette che racchiude in sintesi il contenuto del libro); la presenza di font tipografici grossi, pieni, che sono un omaggio alla tipografia a caratteri mobili (nel periodo in cui lavoravamo al progetto grafico io e Riccardo passammo un fine settimana ad Arezzo per partecipare a un corso di Letterpress in una piccola tipografia artigianale); infine dal punto di vista dei materiali (copertina rigida senza sovraccoperta) l'idea è stata quella di rendere omaggio all'editoria italiana dei decenni Sessanta e Settanta in cui molti degli autori che ora riproponiamo nel nostro catalogo furono proposti per la prima volta nella nostra lingua (in particolare le collane di narrativa di Bompiani e Feltrinelli). I punti di partenza quindi li avevamo tutti, e quando Riccardo ha "unito i puntini", il risultato è stato più o meno un'epifania simile a quella che descrivi.

Praticamente non passa mese in cui qualcuno esterni come i dati delle vendite di libri siano in caduta libera, ma a questo seguono ben pochi fatti (ci ricorda un po' il film di Mathieu KassovitzL'odio in cui si racconta di un uomo che precipita da un grattacielo e che ad ogni piano si ripete “fin qui tutto bene”). Tu spingi ed elogi sempre moltissimo i librai. Secondo te, sono loro l'anello della catena editoriale che può fare la differenza e invertire questa tendenza?

Senza alcun dubbio. L'ho detto spesso e lo ribadisco ogni volta che posso (eccone un'altra): i librai lavorano in squadra con gli editori, anche perché sono loro a fare da filtro, da selezione e da "consulenti" per i lettori. È compito degli editori non solo sostenerli ma valorizzare il loro lavoro. Nel nostro caso singolo, abbiamo deciso di creare con i librai una vera a propria rete, una forte collaborazione che si concretizza nella fornitura diretta dei libri SUR a circa 200 librerie indipendenti in tutta Italia. Fornendo i libri direttamente, si ha un risparmio sui costi di distribuzione che anziché costituire un maggior ricavo per la casa editrice viene interamente girato ai librai, che così hanno la possibilità di guadagnare un po' in più. Inoltre (e diversamente da quanto avviene con la distribuzione tradizionale) forniamo i nostri libri con la formula del conto deposito, quindi le librerie non si espongono finanziariamente e ci pagano i libri solo dopo averli venduti. Molti dei librai con cui collaboriamo lungi dall'essere solo dei negozianti sono dei veri e propri centri culturali, punti di ritrovo, organizzatori di eventi piccoli e grandi, punto di riferimento per una comunità che ha trovato nella libreria (e nella lettura) il suo fulcro. Il loro lavoro è encomiabile e non possiamo che manifestare tutto il nostro entusiasmo e la nostra disponibilità ad aiutarli nello svolgere questo ruolo decisivo per l'editoria e per la cultura in generale.

Cosa dovrebbe cambiare in Italia per restituire al racconto credibilità e prestigio nella filiera editoriale?

Come ho detto, in altro modo, poco prima, il ruolo principale lo svolgono gli editori. Se la forma racconto viene poco frequentata dagli editori nelle loro scelte sarà più difficile che i lettori possano accedervi, e di conseguenza che si possa costruire quella credibilità o quel prestigio di cui parli. Forse il libro digitale da una parte, e il fenomeno ormai consolidato dei blog dall'altra, due ambiti in cui la forma breve è predominante, possono dare una spinta affinché sempre più editori arrivino a considerare anche il racconto come possibilità.

L'ultima domanda. Hai sempre avuto a cuore la forma del racconto: perché?

Te lo racconto. La prima volta che ho formulato, da adolescente, nella mia testa il concetto di "scrittore preferito" è stato leggendo Calvino, e in particolare il mio imprinting è stato Se una notte d'inverno un viaggiatore, che è un romanzo fatto di racconti; anni dopo decisi che Il Mio Scrittore Preferito era Raymond Carver, il nume tutelare di questo osservatorio, e ho avuto la fortuna di pubblicare tutte le sue opere in italiano; quando con minimum fax decidemmo di aprire una collana di classici contemporanei, mi proposi di curare personalmente la pubblicazione del primo titolo di Donald Barthelme; nel 2001 ho curato con Martina Testa Burned Children of America (che citavi poco fa), un'antologia di diciotto autori statunitensi che è uno dei libri a cui sono più affezionato, che ha avuto una vicenda curiosa: messo insieme per un'edizione italiana, la raccolta ebbe solo successivamente un'edizione in inglese, e in seguito fu poi tradotta in una decina di lingue; qualche anno dopo, nel 2004, un'altra antologia mise insieme una generazione di scrittori, stavolta italiani: La qualità dell'aria curata da Christian Raimo e Nicola Lagioia fu un bel momento di "raccolta"; il progetto a cui sto lavorando in questi giorni è la collana littleSUR, una collezione di testi brevi latinoamericani, che inauguriamo con Cortázar e con il messicano José Revueltas.
Insomma – facendo un mestiere dove la passione è quasi sempre alla base delle tue scelte – molte delle scelte editoriali di minimum fax e di SUR sono legate a dei singoli libri che hanno segnato altrettanti momenti-chiave nella vicenda delle due case editrici e (devo confessare che me ne rendo conto solo adesso, facendo questa carrellata a ritroso per rispondere alla tua domanda) spesso si tratta di libri di racconti. È probabile si tratti solo di un caso. Ma io al caso non ci credo.

 

Paola Gallo, editor Einaudi

Paola Gallo è responsabile della narrativa italiana Einaudi

a cura di Cattedrale

Quali sono le qualità indispensabili per un buon racconto?

La compiutezza. Un racconto è come una stanza, bisogna poter chiudere la porta.La piena consapevolezza da parte dell'autore della portata simbolica degli elementi narrativi.Meno oggetti hai a disposizione, più visibili saranno, più usi saranno destinati a svolgere.La complessità di visione. Un racconto è una stanza, appunto, bisogna poter guardare fuori dalla finestra. 

Qual è, secondo lei, la maggiore differenza tra un racconto e un romanzo? La libertà del lettore. In un'architettura narrativa più articolata, e nel tempo lungo della narrazione distesa, è previsto che chi legge possa prendersi delle pause, divagare, addirittura saltare, avanzare, ricominciare. L'abilità del romanziere sta nel calamitare il lettore ogni sera, costringendolo a riaprire il libro che sta chiuso sul comodino.  Lo scrittore di racconti invece chiede al lettore di abbandonarsi: in questo tempo breve che mi stai dedicando, le regole le detto io.

Un po' dappertutto, ma in Italia in particolar modo, il racconto viene visto come un'opera di minore dignità rispetto al romanzo. Secondo il suo parere, questo è dovuto solo a motivi commerciali o le ragioni sono da ricercare anche nel lavoro editoriale e nell’attitudine del lettore? E, in quest'ultimo caso, l'attitudine del lettore è a sua volta condizionata da come e cosa propongono gli editori, dando così vita a una sorta di circolo vizioso?

Io non penso affatto che ai racconti venga attribuita minore dignità. Basti pensare ad Alice Munro, oggetto di culto ben prima del Premio Nobel! A volte i libri di racconti hanno esiti commerciali più tentennanti, ma non è sempre così. Forse un poco dipende dal fatto che è più difficile definirli e comunicarli all'esterno. Si dice: è un romanzo d'amore, di formazione, una storia familiare, un giallo, un noir… E poi si dice, semplicemente: è una raccolta di racconti. In un mondo in cui la comunicazione è sempre più volatile e puntiforme, anche stupidaggini come questa finiscono per avere un peso. Ma al di là delle questioni superficiali, mi sembra di poter dire che hanno maggiore impatto (e interesse) le raccolte dotate di una forte coesione, di una nota peculiare, quelle che sono state pensate sotto forma di libro compiuto, per quanto frammentario. È un'esperienza di lettura piuttosto spaesante invece trovarsi immersi in una successione di storie "spaiate", accostate in modo casuale, molto difformi negli intenti prima ancora che negli esiti.

Scrivere racconti è difficile, forse anche per questo è difficile leggerli. Crede che in Italia, nonostante una lunga e invidiabile tradizione di scrittori dediti alla narrativa breve, ci sia una produzione di racconti meno valida rispetta a quella del romanzo e che questo rifletta una maggiore difficoltà a pubblicarli?

No, non lo credo affatto. Sono certa che sia difficile scriverli, ma non penso sia difficile leggerli, né pubblicarli.

Da qualche tempo Einaudi, nella collana Quanti, propone scritture brevi contemporanee e classiche, esclusivamente in formato digitale. Più in generale si parla anche di mettere in vendita i singoli racconti di una raccolta, un po' come si fa con le singole canzoni di un album. Pensa che con gli e-book il destino del racconto potrebbe cambiare?

Dai pochi esperimenti fatti finora, non mi sembra proprio. La gente tende a comprare in digitale quello che compra su carta, né più né meno.

Giulio Questi ha vinto con ‘Uomini e Comandanti’, pubblicato da Einaudi nei Supercoralli, l’ultima edizione del Premio Chiara, uno dei maggiori premi dedicati ai libri di racconti. In termini di vendita, quanto conta un riconoscimento come questo?

In termini di vendita, forse non moltissimo. Eppure conta tanto per il prestigio e per la gratificazione dell'autore.  È bello e giusto che ci sia un premio dedicato soltanto ai racconti, anche perché spesso gli scrittori di racconti si stringono fra loro, si riconoscono, si sostengono e si leggono a vicenda. Eppure in questo a volte sento un orgoglio un po' ferito, una sindrome da minoranza etnica, quasi che si trattasse di un'altra forma d'arte, bistrattata e misconosciuta.  È una cosa che non capisco fino in fondo.

Anche presso Einaudi, vengono pubblicate molte più raccolte di racconti di autori stranieri rispetto agli italiani, soprattutto nelle collane più visibili. Secondo lei, per quale motivo?

Ma no, non è vero! Da Michele Mari ad Andrea Bajani, da Sandro Bonvissuto a Luca Ricci, Ascanio Celestini, Rossella Milone, Antonio Pascale, Marcello Fois, Gabriele Pedullà, Alberto Asor Rosa (ne starò certamente dimenticando qualcuno), abbiamo pubblicato con grande evidenza molte raccolte di racconti. Anche i Momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo, a modo loro, sono a tutti gli effetti dei racconti. Tanti progetti sono in cantiere, alcuni libri molto importanti usciranno l’anno prossimo. Quello che voglio sottolineare è che non si tratta di un ghetto, o di un sottogenere. Salvo rarissimi casi, gli scrittori passano con naturalezza dal romanzo al racconto, a seconda del momento e di ciò che desiderano raccontare, e senza perdere lettori per strada.

Parlando di percentuali, nella vostra casa editrice qual è il rapporto tra romanzi e raccolte di racconti rispetto alla pubblicazione? E quello tra romanzi e raccolte inedite che vi arrivano in cerca di pubblicazione?

Non saprei dire con esattezza, e dipende dagli anni. Per fortuna non esistono le "quote racconti". Non so se sia molto interessante analizzare i dati statistici, ma a occhio direi che la percentuale di racconti pubblicati supera quella dei racconti ricevuti in lettura. Solo nel 2014 abbiamo pubblicato La vita non è in ordine alfabetico di Andrea Bajani (che ha appena vinto il Premio Settembrini, ndr);  Uomini e comandanti di Giulio Questi, l'antologia curata da Marcello Fois intitolata Sei per la Sardegna, una selezione di racconti di Primo Levi a cura di Ernesto Ferrero e l'antologia dei Racconti di Cinema a cura di Emiliano Morreale e Mariapaola Pierini. Sarebbe a dire, un quinto delle uscite di quest'anno. Certo, si tratta di libri diversissimi tra loro, ma mi pare testimonino un certo amore per il genere…Ogni anno poi pubblichiamo un'antologia tematica, di grandissimi scrittori italiani e stranieri, per provare ad attraversare un mondo tramite tanti occhi diversi. Ne cito solo alcune: Racconti di montagnaRacconti di vento e di mareRacconti matematiciRacconti gastronomici, i racconti naturalistici raccolti sotto il titolo Pietre, piume e insetti.  È un’idea che è nata un po’ per caso, partendo da un’occasione, come sempre accade, ma presto ci siamo resi conto che era una possibilità bellissima di avvicinare alla forma racconto un ampio numero di lettori, a volte semplicemente attratti dal tema ma poi conquistati dalla bellezza delle storie e dalla potenza della scrittura.

Rispetto all’editing, quali differenze riscontra tra il lavoro che si fa su un romanzo e su una raccolta di racconti?

Non saprei. Ogni libro è diverso, ogni scrittore è diverso, sull'editing non riesco mai a dire nulla di universalmente valido. Diciamo che i racconti pongono meno problemi a livello di struttura narrativa! (Ma costruire un indice ben fatto può essere impresa non meno ardua…)

Da semplice lettrice, le piacciono di più i romanzi o i racconti?

I racconti mi suscitano una lieve apprensione. Non riesco mai a leggerli uno dopo l'altro perché mi sembra di tradirli, vorrei sempre rimanere ferma lì ancora un po'.

Marco Monina, direttore editoriale Italic Pequod

Italic Pequod prosegue la pluridecennale tradizione di peQuod attraverso un lavoro di ricerca attento e scrupoloso. Quanto è difficile soffermarsi sulla qualità di un testo, su questa attività complessa di esplorazione, in un momento così delicato per l'editoria italiana? Si può ancora fare?

Italic Pequod continua, imperterrita, l'attività di peQuod. Siamo sempre noi, d'altronde. Abbiamo dovuto aggiungere il "prefisso" Italic per varie vicissitudini societarie sorte, inesorabilmente, nel corso degli anni.
Purtroppo, voglio essere sincero: fino a qualche anno fa il lavoro di ricerca, ma anche solo il tempo da dedicare a un autore o a un testo, era molto di più. Adesso non si può più fare e non si può, appunto, perché non ha senso.
Non ha senso perché, è noto, ormai i libri di qualità non interessano a nessuno. "Non hanno mercato", direbbero gli editori più grandi (che non sono, però, quasi mai grandi editori); non vendono, insomma.
È molto difficile, quindi. Molto, molto difficile. Quasi un'attività suicida. 
Eppure, anche se ormai solo ogni tanto, noi non riusciamo a resistere alla tentazione. Addirittura, a volte, osiamo anche di più e pubblichiamo raccolte di racconti.
Il racconto è un genere molto vituperato in Italia. Nonostante il successo editoriale di autori come Charles Bukowski e Raymond Carver e nonostante nel 2013 sia stato assegnato il Premio Nobel a Alice Munro.
Con orgoglio possiamo dire di essere tra i pochissimi, in questo momento, a pubblicare raccolte di racconti. Perché noi, invece, qui a Italic Pequod, pensiamo che il racconto  sia un'arte.

In effetti oggi come oggi, pubblicare raccolte di racconti è molto coraggioso, e già questo indica un lavoro scrupoloso di ricerca e selezione del testo, perché con i racconti proprio non si può sbagliare. Voi avete una lunga tradizione di pubblicazioni di racconti, siete stati sempre molto attenti soprattutto agli italiani, da Enzo Siciliano a Claudio Piersanti, fino ad oggi. Qual è, secondo lei, la ragione per cui in Italia i racconti non vengono sostenuti, e quindi non vengono letti?

Claudio Piersanti, Enzo Siciliano, sì, ma anche tanti altri. E tanti di questi autori al loro primo libro. Fare liste è antipatico, si finisce sempre per dimenticare qualcuno, ma gli esordi di Giuseppe Genna, Marco Mancassola, Igino Domanin e Francesca Scotti, qui, li voglio ricordare (tutte raccolte di racconti, ovviamente). Emblematico, mi sembra, è il caso di un altro nostro autore degli anni scorsi, Vincenzo Pardini. Nel 2003 avevo letto un'intervista che Pardini aveva rilasciato a Bruno Quaranta de "La Stampa" che si concludeva con una sorta di appello, nessuno lo pubblicava più, in definitiva. Avevo letto tutti i meravigliosi libri di racconti di Pardini (aveva addirittura esordito con Mondadori, presentato da Natalia Ginzburg). Allora lo sono andato a cercare e, vinte le sue iniziali diffidenze verso un editore così piccolo, ho cominciato a pubblicarlo. Con peQuod sono usciti ben quattro libri di Pardini, di cui tre raccolte di racconti. Ecco, io credo che Vincenzo Pardini sia uno dei più grandi scrittori di racconti che ci sono in circolazione. Sono in buona compagnia, perché la stessa cosa pensa, per esempio, Sandro Veronesi che ne parla come di un maestro. Proprio Veronesi, con Mario Desiati, allora direttore editoriale, portarono successivamente Pardini in Fandango, che è ancora, a tutt'oggi, il suo editore.
Il fatto che un autore così debba uscire per case editrici che possiamo considerare, tutto sommato, piccole, la dice lunga sulla paura degli editori più grandi a "osare". Il perché di tutto questo, però, bisognerebbe chiederlo a loro. Certo, pubblicare i racconti di Fois, Bajani o Celestini non basta. O, quanto meno, ne sono capaci tutti.

Concretamente, di cosa ha bisogno un editore più piccolo per imporre un libro di racconti? Si tratta soltanto del potere economico relegato alle case editrici più forti, o stiamo parlando anche di un atteggiamento di scelta, cura e attenzione che le case indipendenti posso permettersi in maniera più libera?

Per rispondere a questa domanda bisogna partire dalla premessa che le due cose sono strettamente collegate.
Una piccola casa editrice può, paradossalmente, "permettersi il lusso" di dedicare tempo e cura a un libro di racconti che poi, lo si sa, venderà poco o addirittura niente.
Ricordo una bella intervista, qualche anno fa, all'editore Sergio Fanucci (su Sette del Corriere della Sera) dove diceva che la fine di un certo modo di far libri è cominciato con l'avvento dei manager a capo delle case editrici. Ecco, penso che dentro questa affermazione di Fanucci (davvero prefigurativa) ci sia, neanche tanto implicita, la risposta alla vostra domanda.
Da poco avete pubblicato la raccolta di racconti: Tutto qui. Una serie di racconti di autori esordienti sulla scia di Giovani Bluescurata da Tondelli. Se pubblicare racconti, per un editore, è un atto di coraggio, pubblicare racconti di esordienti forse è un atto di estremo coraggio. C'è stato un tempo d'oro per gli esordienti, in cui tutti li ceravano. Adesso, con una crisi così lancinante per il mondo editoriale, sono tutti più scettici rispetto ai nomi nuovi, e preferiscono - come sottolineavi tu - puntare su nomi già affermati e più rassicuranti. Come mai avete fatto questa scelta?

Il riferimento a Giovani blues di Tondelli è più che mai esatto. Ci inorgoglisce e, al contempo, ci spaventa.  Per prima cosa perché noi veniamo esattamente da lì! L'esperienza che, prima di fondare peQuod, abbiamo fatto in Transeuropa con Massimo Canalini è stata decisiva per noi.
Siamo stati fortunati. Abbiamo vissuto "sul campo" il periodo più bello dell'editoria italiana degli ultimi trent'anni.
Tutto qui è, sì, un atto di "estremo coraggio", ma è anche altro e di più.
L'antologia, non a caso, è curata da Marco G. Montanari, nostro bravissimo e preziosissimo giovane collaboratore (ora, purtroppo, non più. Lavora a Milano presso Editing and Agency di Cristina Tizian che a sua volta ha lavorato con noi all'inizio degli anni 2000). L'altra curatrice, la ventunenne Cecilia Monina, è "palesemente" mia figlia...ma non si tratta, qui, di nepotismo. È una sorta, invece, di passaggio di testimone. Bisogna lasciare spazio ai giovani. Farlo davvero, non solo limitarsi a dichiararlo. Questa decisione nasce qualche tempo fa. Una sera ero a cena con il mio caro amico Andrea Bergamini della benemerita casa editrice Playground, e lui mi ha detto che si era fatto l'idea che il nostro  fosse "un lavoro a termine". In definitiva, sosteneva Andrea, il nostro lavoro lo si può far bene (lo si può far seriamente) per non più di dieci, quindici anni. Questa cosa mi ha molo colpito e ho continuato a pensare alle sue parole. Ho continuato a pensarci perché, forse, fin da subito mi sono reso conto che erano sacrosante. Semplicemente, non avevo mai avuto il coraggio di ammetterlo con me stesso. Quando Montanari e mia figlia mi hanno proposto il progetto di Tutto qui mi è sembrata davvero la chiusura di un cerchio, qualcosa che fosse una fine, un inizio e, al contempo, la continuazione di una storia. Vedremo. In tempi di "rottamatori', io, per mio conto, inizio con l'autorottamarmi... 

Monica Paeschi ha appena vinto il prestigioso Premio Fucinicon la raccolta di racconti È di vetro quest'aria. Paola Gallo, editor Einaudi, in un'intervista che ha lasciato a Cattedrale, ha dichiarato che un Premio come il Chiara o il Fucini non smuovono granché in termini economici, anche se sono una grande gratificazione per l'autore. È così anche per una casa editrice più piccola?

È la seconda volta, in tre anni, che vinciamo il Fucini. L'avevamo già vinto nel 2012 con Qualcosa di simile di Francesca Scotti.
Confermo le parole di Paola Gallo, non c'è nessun tipo di riscontro in termini di vendite dopo la vittoria di questi premi.
Ma come potrebbe essere diversamente? Chi conosce il premio Chiara o il premio Fucini? O, peggio ancora, chi conosce più oggi Piero Chiara o Renato Fucini in quanto autori? Forse è questo che bisognerebbe chiedersi.

È di vetro quest'aria è un libro dalla scrittura molto percettiva; ricorda, in certi casi, lo spaesamento visivo di alcuni racconti di Fabrizia Ramondino. Com'è nato il sodalizio con Pareschi? E, soprattutto, in cosa consiste il vostro lavoro su un libro di racconti come questo?
Il paragone tra i racconti di Monica Pareschi e quelli di Fabrizia Ramondino mi fa quasi arrossire...
I racconti me li ha fatti leggere Cristina Tizian (di Editing and Agency). Cristina Tizian si è formata alla "scuola Pequod", ha lavorato diversi anni qui con noi. Ha capito, fin da subito, che per un libro così Italic Pequod era una destinazione naturale.
Siccome non voglio prendermi meriti che non ho, aggiungo che con E' di vetro quest'aria il lavoro è stato davvero poco, era già un libro quasi perfetto. Ce ne fossero...

Giulio Questi

Cattedrale ha realizzato questa intervista un paio di settimane prima che Giulio Questi ci lasciasse. È con tristezza, orgoglio e affetto che la pubblichiamo, sperando di fare un regalo a tutti.

Giulio Questi era considerato uno dei più originali registi italiani. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati sul Politecnico di Vittorini. Con Uomini e comandanti (Einaudi) ha vinto la XXVI edizione del Premio Chiara.


a cura di Cattedrale

Alcuni racconti contenuti in “Uomini e comandanti” erano già stati pubblicati (ad esempio, sulla prestigiosa rivista Il Politecnico, diretta da Elio Vittorini). Qual è stato il criterio adottato per comporre la rosa di racconti racchiusi in questa raccolta?

Il percorso temporale: la guerra, il dopoguerra, la vita che ne seguì, fino alla mia permanenza in Colombia. Una specie di autobiografia letteraria. Lasciando però in evidenza le date di ogni singola scrittura.  

Dopo una vita dalle mille esperienze, in quest'ultima fase lei si è dedicato alla realizzazione di vari cortometraggi e alla pubblicazione della raccolta di racconti con cui ha vinto il Premio Chiara. Che rapporto ha con la narrazione breve?

In letteratura il rapporto mi è connaturato, forse perché non ho mai affrontato altro. Voglio dire che non sono mai stato tentato di scrivere un romanzo, anche se ne sono un appassionato lettore. La differenza è grande. Il romanzo costruisce la sua drammaturgia in una paziente architettura di capitoli che pretende un impegnativo recupero critico da parte del lettore. Il racconto breve si rivela subito, la sua drammaturgia è un nucleo immediatamente rovente che manda una sola fiammata ed è fiamma ossidrica ad alta temperatura. I miei cortometraggi (nel DVD by Giulio Questi) battono la stessa strada del racconto letterario, usando la luce invece dell’inchiostro.

La sua è una creatività poliedrica e fervida. Anche in questi racconti, il ricordo biografico si reinventa nel linguaggio narrativo ricostruendosi in una forma autonoma. Secondo lei, la memoria personale va messa a servizio della narrazione? E in che modo?

Non c’è narrazione senza memoria. Dove c’è racconto c’è memoria. Ma la memoria non è uno scaffale dove si trovano oggetti definiti e inanimati. È piuttosto una sterminata pinacoteca di fantasmi che quando escono dai loro quadri e ti vengono incontro tu cerchi di dargli un volto. Ecco, direi che scrivere è dare un volto ai fantasmi. Voglio dire che memoria e fantasia sono la stessa cosa perché fatta di fantasmi è la memoria. Non si tratta di due pedali differenti che puoi premere alternativamente a piacere.  È chiaro poi che dove non c’è autobiografia non ci sono né memoria né fantasmi. Perciò mi è cara la frase di Marcel Proust: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura ».

Curiosamente sia la sua raccolta che il romanzo vincitore del Premio Campiello di quest'anno (“Morte di un uomo felice” di Giorgio Fontana, edito da Sellerio) trattano della Resistenza. Secondo lei è un caso o in questo momento storico così peculiare c'è un riaccendersi dell'interesse verso le lotte partigiane?
 

La frustrante situazione politica e sociale dell’attualità spinge a rimpiangere quel periodo così pieno di vita e di ideali. La Resistenza tende a riaccendersi come un mito, un faro che manda lampi di luce.

I racconti buoni, hanno bisogno di un estremo rigore, di un'economia precisa. Nella sua scrittura è evidente il tratto del cineasta, uno sguardo attento che mostra e svela con precisione. Crede che questo tipo di attitudine, o di intento, sia intimamente connaturato alla narrativa breve?

Non occorre essere un cineasta per avere un occhio attento che mostra e svela. La narrativa breve non c’entra, anche se sì, lo confesso, ho gli occhi ad alta definizione, con molti pixel che esaltano i dettagli.

Nei suoi racconti si parla di Resistenza, in un dei suoi film, "Se sei vivo spara", si entra nell'ambientazione far west. Individua un filo rosso che collega questi due mondi così distanti?

Se sei vivo spara è uno pseudo-western aperto a una doppia lettura. Pertanto nessun filo rosso, se non per la sua violenza a qualche riflesso delle mie esperienze di guerra partigiana.

Pensa che scrivere racconti sia un'esigenza che nasca da un impulso istintivo, più connaturato all'indole dello scrittore, o si tratta di una scelta consapevole rispetto alla storia che si vuole raccontare?

Dipende da che tipo di storia si vuol raccontare. L'attitudine istintiva sta nella scelta della storia. La consapevolezza sta nella tecnica da usare per raccontarla.

In passato, aveva lavorato a una sceneggiatura per la trasposizione cinematografica di "Una questione privata" di Beppe Fenoglio. Se potesse scegliere, quale racconto le piacerebbe adattare per un film?

Nessuno dei miei racconti, troppo prigionieri di una memoria personale che non vorrei mai snaturare e tradire nella finzione realistica di un film.

Quali sono, secondo lei, i punti di forza di un racconto? 

L’accensione di quel focus drammaturgico che dicevo, con tutta la scrittura al suo servizio, senza deviazioni o divagazioni.