La scrittura è una dimensione collettiva, intervista a Guadalupe Nettel


di Debora Lambruschini

L’infanzia non finisce tutta in una volta come avremmo voluto da bambini. Rimane lì, rintanata e silenziosa nei nostri corpi maturi, poi appassiti, finché un bel giorno, dopo molti anni, quando crediamo che il carico di amarezza ci abbia irrimediabilmente trasformato in adulti, ricompare con la rapidità e la potenza di un lampo, ferendoci con la sua freschezza, con la sua innocenza, con la sua dose infallibile di ingenuità, ma soprattutto con la certezza che quello sia stato, davvero, l’ultimo barlume che ne abbiamo avuto.

(Albatri vaganti, incipit, p. 119, da La vita altrove)

 

Incontro Guadalupe Nettel, tra le voci più importanti della narrativa breve contemporanea, a Genova in un pomeriggio di questa estate; lei è qui per presentare al pubblico la sua ultima raccolta di racconti, La vita altrove, tradotta da Federica Niola, edita come sempre da La nuova frontiera, in un mini tour che l’ha portata qualche giorno in giro per l’Italia. Grazie alla casa editrice ho avuto la possibilità di dialogare a tu per tu con lei, prima del suo intervento pubblico, per questa intervista in esclusiva per Cattedrale. Tenevo molto a quest’incontro, non solo perché mi affascina la scrittura potente di Nettel, ma anche perché come troverò confermato nelle sue parole, ci sono molti punti di contatto tra il suo modo di intendere la scrittura, la forma breve e il nostro osservatorio sul racconto.

La vita altrove è una raccolta di racconti pura, composta da nove storie attraversate ognuna da un differente grado di inquietudine e ambiguità, in cui l’autrice riesce a intrecciare istanze del realismo, della distopia, del perturbante. I personaggi delle storie si trovano di fronte a un ribaltamento del quotidiano e alla fatica quindi di adattarsi a circostanze inaspettate, un cambio di rotta spesso traumatico. Nel racconto eponimo – che apre a una miriade di spunti e altre letture intorno al tema della casa e dell’altro – un attore dalla scarsa fortuna si insinua nella vita di un collega e nella vita che avrebbe desiderato condurre, nella casa cui lui e la compagna hanno rinunciato e che resta quindi una sorta di possibilità mancata. La vita altrove del titolo sono appunto le diverse possibilità che si presentano, ma anche il simbolo di una progressiva distanza dalla propria. Anomalie e distanza tra la vita immaginata e quella che invece è la quotidianità caratterizzano diversi racconti, tra cui La porta rosa, Albatri vaganti – con la bellissima metafora dell’uccello migratore – e Il torpore. In quest’ultimo al discorso sulla pandemia si innesca il distopico, immaginando una realtà profondamente mutata dal virus e nella quale la reclusione è diventata uno stato di cose permanente.

 

Circa quindici anni fa il mondo è cambiato completamente e siamo passati alla “modalità confinata”, all’esistenza intra muros che conduciamo da quando è comparso il virus.

(Il torpore, p. 140)

 

La pandemia è presente, in forma diversa, anche in Giocare col fuoco, racconto caratterizzato da un’inquietudine crescente, in cui sfumano i confini tra reale e fantastico. Dopotutto i confini, di genere e forma, sono etichette che paiono stare strette a Nettel, che si misura sempre con narrazioni diverse.  

Parto da qui, quindi, dalla scrittura, che Nettel plasma ora in racconti ora in romanzi: tre raccolte pubblicate (Bestiario sentimentale, Petali e altri racconti e La vita altrove), tre romanzi (Quando finisce l’inverno, La figlia unica, Il corpo in cui sono nata), passando agilmente da una forma all’altra, dando l’impressione di un fluire piuttosto naturale.

G.N. Io vivo nel mondo della letteratura, delle lettere, leggo costantemente narrativa, ma anche poesia. Quindi credo che questa cosa sia come hai detto tu, molto naturale. Avevo voglia, anzi no, avevo necessità, urgenza, di parlare della pandemia per esempio, di quelle che erano le esperienze più importanti: quando ci sono esperienze così importanti ho la necessità di convertirle in qualcosa di letterario; tutto quello che vivo, determinate esperienze, tendo a convertirle in qualcosa di letterario, per lo più finzioni, non necessariamente autobiografia. La pandemia ma anche il cambiamento climatico, che è qualcosa che preoccupa davvero tanto me ma anche i miei figli.

 

Resto ancora un attimo sulla naturalezza con cui passa tra una forma e l’altra ed è molto interessante apprendere di nuovo quanto la componente più importante della scrittura sia per un autore sempre e solo una: osservare. Qualcosa di così semplice eppure allo stesso tempo complesso. L’osservazione che si lega all’ascolto.

Leggo, ascolto e trascrivo i miei pensieri su un taccuino, una specie di diario; se sento delle conversazioni su qualcosa che mi interessa me le appunto. Dopodiché decido se scrivere un saggio o un racconto; per me i racconti sono delle rivelazioni, partono dalla vita quotidiana, è qualcosa che vedo come di già definito, più rotondo, della vita quotidiana appunto. Invece un romanzo è una decisione un po’ più grande, un po’ più complessa, ha bisogno di più ricerca, di più tempo.

 

Efficace questa idea del racconto come una rivelazione, è qualcosa che si lega al concetto di frammento, di moment of truth per dirlo con le parole di Mary Louise Pratt, teorica del racconto. Ed è interessante osservare ancora una volta che a decidere se ciò che si scrive avrà la forma del romanzo o del racconto è, in fondo, la storia stessa, una particolare postura dello sguardo.

Osservare è qualcosa che, in forma e con intenti diversi, facciamo anche a Cattedrale che appunto nasce come «osservatorio sul racconto». Spesso trascurato dagli editori stessi e dai professionisti della lettura, il racconto è una forma che si poggia su una lunga tradizione, anche in Italia. Il contesto culturale entro cui si muove Nettel ha tratti diversi e la distinzione tra romanzo e racconto è meno netta e problematica, tanto per gli scrittori che per i lettori. La sua scrittura si sviluppa in un contesto dalla lunga e florida tradizione cuentista:

Sì, è vero che c’è una grandissima tradizione latinoamericana e sono cresciuta leggendo autori e autrici di racconti come Cortazar, Amparo Dàvila e anche tanti stranieri. Ma una cosa molto importante è che frequentavo un corso di racconti nel quale si lavorava sui propri testi: si leggevano, si criticavano; molto spesso capitava che si distruggessero i racconti uno dell’altro. È stata una vera e propria palestra. Mi sono formata scrivendo racconti, molto più che come romanziera, anzi se lo possiamo dire come romanziera mi sono praticamente lanciata nel vuoto. Esistono tantissimi tipi di racconto: i micro relatos (racconti molto brevi, ndt), il racconto alla Carver, oppure la tradizione nordamericana che sono come fulmini praticamente. Ma il tipo di racconto in cui mi trovo più comoda sono quei racconti lunghi che sembrano quasi micro romanzi, romanzi condensati.

 

Un approccio alla scrittura che comprendiamo molto bene: fondamentale leggere e discutere i lavori propri e degli altri, confrontarsi. C’è molta artigianalità nel mestiere di scrivere e, soprattutto, nello scrivere racconti.

Moltissimo e mi piace che tu abbia parlato di artigianalità. Per questo mi piace tantissimo anche la parola “taller”, “officina”, perché rimanda a tutto un mondo di artigianalità, officina di scrittura.

 

La scrittura per Nettel diventa quindi qualcosa di collettivo, un processo condiviso:

Mi piace molto questa dimensione collettiva in cui qualcuno ti dice «togli quella frase, scrivila in quest’altro modo…» perché è una sorta di editing collettivo in cui sì, c’è un autore, c’è una dimensione personale, però il risultato finale è qualcosa di collettivo; in questo senso ancora più che con l’artigianato ha a che fare con l’architettura. Grazie a questo lavoro collettivo si arriva a un risultato ancora migliore: se facesse tutto una sola persona dall’inizio alla fine il racconto non sarebbe così, non si arriverebbe a una forma tanto bella.