di Andrea Cafarella
traduzione a cura di Stefano Musilli
Martin Michael Driessen è un autore poco conosciuto in Italia ma parecchio affermato in Olanda (il paese in cui è nato) e in altri paesi. Sbarca nel nostro panorama editoriale nel 2015 con il suo Padre di Dio, pubblicato da Del Vecchio e tradotto da Stefano Musilli. Da qualche mese possiamo trovare in libreria anche il suo Fiumi che nel 2016 gli è valso il prestigioso premio letterario ECI. Sempre edito da Del Vecchio e con una limpida postfazione del traduttore, Stefano Musilli. Due libri molto diversi tra loro, eppure accomunati da una voce molto precisa e sicuramente anacronistica. Anacronistica in senso buono: Driessen non cerca mai l’artificio, il post-moderno, il perturbante, l’avanguardia, il memoir. Non è incline alle mode del momento. Eppure, per uno strano giro di ruota improbabile, Fiumi è uno dei libri più illuminanti che io abbia letto negli ultimi anni per ciò che concerne il momento storico attuale. La sua voce ha un tono antico che mi fa tornare in mente alcuni dei classici più noti. In particolare, mi sembra evidente la sua spiccata propensione alla tanto cara ‘descrizione paesaggistica’ che oggigiorno tendiamo a individuare come quella parte “noiosa” dei classici di cui dicevo sopra. Invece, nella scrittura di Driessen, questo soffermarsi sui movimenti del paesaggio diviene – o meglio: ridiventa – il modo, l’unico, di far parlare anche le altre forme di esistenza che ruotano attorno all’essere umano. Quando ci si interroga sul come rappresentare le altre forme di vita, romanzescamente – come fa da anni Jeff VanderMeer, per esempio – bisognerebbe interrogare e analizzare questo tipo di narrazioni. La voce di Driessen, pur non concentrandosi precipuamente su come decostruire la narrazione antropocentrica, riesce a far parlare – come se mettesse in pratica le lezioni di Descola – la Natura.
Sono quindi molto felice di poter intervistare Driessen a partire da questo libro che, a distanza di quattro anni dalla sua prima pubblicazione olandese, risulta oggi essenziale per una lettura profonda di questo strano e interessante presente, collettivo e intimo, di ogni essere umano e del lettore attento che vorrà solcare il suo fluire, guadandone i molti strati.
È già il titolo a dare immediatamente la chiara idea della preponderanza di una figura concreta e simbolica che scorre tra le pagine, quella del Fiume. Il libro si compone di tre racconti lunghi ambientati prevalentemente attorno a uno o più fiumi. Non solo: tutti i protagonisti di questi racconti sembrano affrontare in qualche modo anche il simbolo del fiume: passaggio, confine, soglia. Non sempre questo movimento dei personaggi corrisponde a una prevedibile crescita, come nel più classico dei romanzi di formazione, eppure c’è sempre questo sconfinamento nel territorio del selvaggio – rappresentato appunto dal fiume – che inevitabilmente viene a generare una trasformazione. Cosa significa effettivamente, sia all’interno dei racconti che in un contesto più ampio e/o più personale, questo percorso da una condizione verso una nuova e diversa esperienza di sé?
L'ha espresso benissimo - i tre racconti parlano di avventure che cambiano la vita dei protagonisti. Nel corso della nostra vita alcuni cambiamenti si insinuano di soppiatto, anno dopo anno, e altri sono più immediati e violenti. In Fiumi si trovano ambedue gli esempi. L'attore senza nome del primo racconto viene inghiottito dal fiume nel breve lasso di tempo di un viaggio in canoa; le storie di Konrad e Julius si sviluppano più lentamente, attraversando un'intera generazione; e in Pierre e Adèle, il fardello di una travagliata storia condivisa è rischiarato da sprazzi di introspezione da entrambe le parti.
A dirla tutta l'argomento che mi è sempre interessato è il cambio di paradigma che può avvenire nella mente di un uomo o una donna. E ho pensato che potesse essere una buona idea contrapporlo a un tema così arcaico come il perpetuo e mutevole corso dei fiumi.
Di recente ho letto una recensione del libro in cui si sottolineava molto la componente psicologica dei suoi racconti, citando addirittura Jung che aveva una precisa interpretazione della simbologia legata all’acqua. In che modo è coinvolta nella sua scrittura la figura simbolica e in quale maniera essa va a interagire con la psicologia dei personaggi e del racconto stesso?
Profondamente… Quando un soggetto si dimostra così potente nella nostra percezione da raggiungere lo stato di simbolo - e cioè, qualcosa che sia riconoscibile da tutti - sarebbe stupido non sfruttarlo in letteratura. Faccio sempre interagire i miei personaggi con le immagini che si sono costruiti di loro stessi e del mondo che li circonda. Questa è, a parer mio, l'essenza della vita e il suo significato.
Leggendo Fiumi mi sono venuti subito in mente i classici di Jack London e alcuni racconti di William Faulkner, allo stesso tempo ho riflettuto molto sul modo che aveva Horacio Quiroga di rappresentare la natura selvaggia. E non ho potuto non pensare al Fiume senza sponde di Juan José Saer, seppure c’entri poco o niente. Trovo che possa essere davvero interessante individuare alcune qualità della scrittura di tutti questi autori che hanno saputo esplorare il selvaggio e si sono distinti in questa direzione. Lei come vede la sua opera in relazione a questi o altri scrittori che hanno raccontato la Natura o hanno scelto dei luoghi lontani dalle città per ambientare i loro racconti?
Provo molto affetto per autori come Jack London, Patrick O’Brian e Robert Louis Stevenson, i cui eroi si mettono in viaggio per terre lontane lasciandosi alle spalle il mondo confortante di tutti i giorni.
Questo passo nell'immaginazione - proiettare il comportamento umano in circostanze diverse da quelle a cui siamo abituati - è indispensabile per me, come autore. Così come si può trasporre un brano musicale degno di nota, allo stesso modo una buona storia si dimostra tale se risulta convincente; che si svolga in un qui e ora più o meno lontano dal nostro non fa differenza.
Descrivere quello che ci circonda è qualcosa che può fare chiunque, più o meno accuratamente. Si può aprire un blog o scrivere una rubrica. Ma questa non è arte. L'arte inizia se si compie un ulteriore passo in avanti: quando si trasforma una percezione iniziale in qualcosa che trascende il qui e ora di scrittore e lettore.
Puccini non è mai stato in Cina o in Giappone, eppure ci ha regalato la Turandot e la Madama Butterfly. L'appropriazione culturale è la linfa vitale e l'anima della civilizzazione, per come la vedo io. Non sono un insegnante, né tantomeno incline a dare lezioni; ma se dovessi dare un consiglio ai giovani autori li incoraggerei, contrariamente al pensiero comune, a non scrivere della loro vita o di esperienze personali, ma di qualcosa che possono immaginare. Li incoraggerei a scrivere una storia pensata per Omero, Dante, Boccaccio e Goldoni.
Ovviamente per tutto il tempo non ho fatto altro che pensare al discorso che si sta sviluppando in ambito antropologico riguardo alla distanza tra Natura e Cultura che è poi confluito in quello che Eduardo Viveiros De Castro chiama Prospettivismo. Semplifico all’estremo: l’idea principale è che potremmo trovare nuove prospettive, appunto, per un vivere ecologicamente sostenibile, se guardassimo alle concezioni del mondo di alcune popolazioni indigene con l’intento di comprenderne le istanze. Ora, in Fiumi il protagonista del primo racconto, «Fleuve Sauvage», a un certo punto riflette su cosa significhi la vita nella natura selvaggia e arriva alla conclusione che essa corrisponda a un «ritorno alle origini». Cosa vuole intendere il personaggio e cosa è per lei «il senso della vita nella natura»?
Beh… l'uomo in Fleuve Sauvage è un illuso. Non è in nessun modo alla ricerca di un ‘ritorno alle origini’. Si ubriaca fino alla morte e la sua sedicente lotta contro le forze della natura è tutta una farsa. Cerca di innalzare la sua sordida fine a eroica battaglia contro la Natura, ma in effetti soccombe alla sua stessa debolezza.
Cos'è per me, personalmente…? Non penso che durerei a lungo in un confronto di qualsiasi tipo con la Natura, anche se mi piace spacciarmi per un tipo avventuroso.
Mi incuriosiva molto un minuscolo dettaglio del secondo racconto. Il protagonista possiede esclusivamente sei libri, tutti di Jules Verne. «Gli sembrava che il loro contenuto fosse di un valore così inestimabile da poter bastare per una vita intera». Non so, vorrei saperne di più.
Sì, capisco il punto. Penso che gli orizzonti mentali e intellettuali di ognuno di noi siano, necessariamente, moto limitati. La portata ovviamente è definita dall'istruzione e dalle opportunità della vita. Siamo quindi esperti solo in un campo molto ristretto. E da quel piccolissimo campo deriviamo la nostra identità, e cioè: la rivendicazione di una certa posizione nel grande mondo sconosciuto che ci circonda. Di conseguenza, scegliamo con chi vogliamo confrontarci e gli amici e i nemici con cui, di volta in volta, avere a che fare. Per sopravvivere, devi sapere quando smettere di pensare.
Quindi, da autore, ho fatto in modo che Konrad si limitasse esclusivamente a sei libri. Si tratta di una deliberata esagerazione.
Rispetto a quanto scrivevo all’inizio dell’intervista, riguardo quello che il traduttore del libro, Stefano Musilli, definisce «un piacere antico» della narrazione, io ho subito pensato a un autore di cui si parla molto in questi ultimi anni: J.R.R. Tolkien. Nella sua scrittura è evidente il piacere atavico della descrizione e del mostrare. Come costruisci i tuoi paesaggi? Quanto hanno a che fare con la realtà e quanto invece si lascia plasmare dal fantastico? Dove porta l’esplorazione del paesaggio e lei come si mette in cammino con lo sguardo nel fitto di questi luoghi dell’immaginazione?
Mi piacciono le escursioni - una volta, quando ero più giovane, sono partito dai Vosgi, allora vivevo lì, e sono arrivato in Italia a piedi, ispirato dal libro di Hilaire Belloc, ‘La via di Roma’ - e, mentre girovagavo da un paese all'altro, ho collezionato ricordi indimenticabili di paesaggi bellissimi e intriganti, molti dei quali sono poi confluiti nei miei racconti.
Ovviamente spesso li trasformo, per adattarli ai miei scopi narrativi, più o meno come facevo a teatro quando mettevo in scena commedie e opere liriche.
In Fiumi tutto ciò è particolarmente evidente in Pierre e Adèle, dove ho creato il fiume Issou che divide i territori delle due famiglie rivali e che in Bretagna non c'è. Ma, per il resto, questo paesaggio inventato è fedele alla realtà.
In altri miei libri mi sono spinto più in là con la fantasia, nell'esplorare il potenziale drammatico del paesaggio ho incluso anche degli improbabili fenomeni naturali: in Gars, tra le altre cose, c'è una vallata nell'oceano e il Mongolia, un monte formatosi da una pila di Unni uccisi; in Padre di Dio c'è un lago che viene misteriosamente ricoperto da due lastre di ghiaccio e il vascello di Gesù finisce per essere risucchiato nel mezzo. Ovviamente mi sono divertito parecchio a descrivere la separazione delle acque, quando Giosuè attraversa il fiume Giordano…
Nel mio romanzo più recente, De Heilige [Il santo], per il protagonista ho immaginato una fortezza nella città di Metz che fungesse da prigione, il che è reale quanto i disegni di Piranesi.
Creare un senso di appartenenza è essenziale per me. Non riuscirei a scrivere di un personaggio senza avere chiaro dentro di me il paesaggio in cui si muove.
Potrebbe anche esserci una ragione psicologica più profonda alla base della mia ossessione di scrivere e ricreare con le parole i paesaggi che vedo nella mia mente. Forse è un modo per essere certo che questo mondo non possa più svanire - per salvarlo dall'oblio. Come tutto ciò che scrivo, forse è il mio modo di esprimere la ‘rabbia contro il morire della luce’, per dirla alla Dylan Thomas. O, tirando in ballo André Malraux, ‘Ogni arte è una rivolta contro il fato’.
Nella bandella è espresso palesemente che lei abita «in una casa galleggiante nel cuore della campagna olandese», dato rassicurante, considerando le ambientazioni di Fiumi. Questa caratteristica biografica mi fa venire in mente certi libri di Bjorn Larsson (che abita in una barca a vela) ambientati in mare. Inoltre, in questi ultimi mesi, almeno in Italia, fioriscono testi, soprattutto biografici o autobiografici, che raccontano la scelta di vivere lontano dalle città. In questo ambito la figura di Henry David Thoreau è preponderante. Cosa vuol dire vivere in una casa galleggiante? È una scelta che ha a che fare con una visione filosofica, prima ancora che politica, oppure si tratta di una condizione derivata da una serie di concomitanze che poco hanno a che fare con la scelta drastica che portò il filosofo all’arcinoto lago Walden?
Vivere in una casa galleggiante significa che c'è la possibilità che affondi - come mi è successo quest'anno, cosa che ha comportato la perdita della mia intera biblioteca. Nonostante ciò lasciarmi la città alle spalle e scegliere questo posticino tranquillo sull'acqua è stata una decisione di cui non mi sono mai pentito. Prima ho vissuto in una fattoria isolata nella Foresta Nera e in un piccolo villaggio francese.
Si tratta di una preferenza personale, comunque, più che di una questione filosofica. Ho bisogno di silenzio e di un'esistenza solitaria per scrivere.