Lingua nera, intervista a Rita Bullwinkel

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di Fabrizia Gagliardi


È difficile indovinare il nuovo indirizzo della letteratura americana. Sembra di essere entrati in un periodo di assestamento e ridefinizione di stili e temi dopo l’ondata di ironia anticapitalista del postmodernismo. Potremmo parlare della letteratura dei non americani in America come quella di Chimamanda Ngozi Adichie, Valeria Luiselli, Akwaeke Emezi, Camille Bordas; si alternano all’autofiction e alla metanarrativa come Rachel Cusk, Lisa Halliday, Leslie Jamison; e al racconto della provincia americana di Chris Offutt, Jesmyn Ward, Kent haruf, Marilynne Robinson.
È altrettanto arduo scandagliare il mercato editoriale americano eliminando l’obiettivo del Grande Romanzo: un’etichetta per fascette che verranno subito dimenticate.
Edizioni Black Coffee ha affrontato la sfida sin dall’inizio riuscendo a creare un catalogo ben equilibrato tra il recupero di alcune pietre miliari e le nuove rivelazioni del panorama americano. Tra queste, Rita Bullwinkel ha tutta l’intraprendenza di un esordiente: nei suoi racconti in Lingua nera (tradotti da Leonardo Taiuti), la sperimentazione sta nella volontà di cimentarsi in generi letterari diversi cercando di illuminarli attraverso registri linguistici atipici. Non si assiste a un vero e proprio stravolgimento del genere, ma a una maniera inedita di rivisitarlo: spesso l’impalcatura della narrazione è sorretta solamente dall'universo, dall’ambientazione, tralasciando, per esempio, la creazione di personaggi memorabili. In un racconto come Arpa, per esempio, una donna assiste a un incidente stradale e da lì inizierà a chiedersi come scindere la propria personalità in un crescendo in cui l’impianto realistico lascia il posto a quello metafisico; in Impasto fritto, la narrazione si farà mano a mano corale pur mantenendo lo sguardo eterodiegetico su una coppia di adolescenti in una tavola calda; mentre in racconti come Phylum e Umani preoccupati si avverte un tono che fa pensare a una parabola.
Per capire come nasce il rapporto di Rita Bullwinkel con il racconto l’ho incontrata in occasione della sua prima presentazione a Milano, alla libreria Gogol & Company.


La tua raccolta alterna racconti surreali, grotteschi, altri sono vicini al reali e altri ancora sembrano parabole o fiabe. Qual è il tuo processo compositivo? Come nascono le tue storie?
 

Leggo molti libri di fiction, ma anche fantasy e science fiction e credo che sia proprio questo a rendere la raccolta così variegata.
Le storie più brevi nascono da un mondo costruito su un’idea molto specifica come in Ingobbirsi. Uno dei motivi per cui la storia è così corta è perché coincide con l’idea di questo mondo capitalista in cui l’unica occupazione rimasta è quella di sorreggere il seno alle ragazzine che iniziano lo sviluppo. Nel racconto non ci sono veri e propri personaggi, nessuno con cui tu possa sederti e conoscere oltre il tempo della lettura. Quando ho concepito il racconto non ho dato peso ai personaggi ma solo all’idea di quello specifico mondo.
Spesso quando penso a una storia gli elementi del racconto stesso sono quelli che influenzano l'ambientazione e il genere.

 

Quindi non scegli a priori il genere, ma ti lasci trasportare…

Non ci penso. Anche perché generalmente non leggo libri avendo in mente il genere a cui appartengono. Ursula K. Le Guin ha scritto La mano sinistra delle tenebre in cui ci sono astronauti su un pianeta sconosciuto, alieni mutaforma... in questo caso non mi concentro sul genere del libro ma sulla sua critica politica. Mi sbilancerei col dire che di solito se ci sono cose di cui ho intenzione di scrivere provo a prendere appunti, o faccio un paio di tentativi, ma di solito non riesco subito a trovare una chiara collocazione all’interno di un genere.

 

In Arpa una donna assiste a un tragico incidente stradale e inizia a interrogarsi sulla possibilità di dividere il suo corpo e la sua personalità, in Lingua nera una bambina mette volutamente la lingua in una presa elettrica, ne I veri zombi di Dio una non-morta dà alla luce un bambino vivo. In un modo o nell’altro l’incontro e lo scontro con il corpo genera cambiamenti. Puoi dirci di più sul significato del rapporto tra mente e corpo nei tuoi racconti?

Spesso sento di essere un alieno che abita nel mio corpo. Penso che per chiunque sia strano avere un corpo, questa sorta di veicolo impacciato che opera in maniera separata rispetto alla propria mente. Ci sono un paio ragioni per cui mi ritrovo a pensarci.
Penso che persone con corpi che subiscono discriminazioni come le donne - dove il mondo esterno guarda il corpo in modo diverso rispetto a chi lo stai vivendo - siano più preoccupate della stranezza del proprio corpo. Ma credo che sia una sorta di esperienza femminile universale, condivisa anche con chi in generale subisce discriminazioni che riguardano il corpo a prescindere dal sesso.
Il secondo motivo è che ho un passato da atleta competitiva: dall'età di sei anni ho gareggiato a livello nazionale in pallanuoto. Per anni ho avuto questa strana sensazione: che il mio corpo fosse uno strumento che dovevo usare per uno scopo specifico. Qualcosa da allenare, mantenere, come fossi un animale che doveva ottenere quello che voleva. Guardo a questo strano periodo, che poi avrebbe influenzato la mia vita negli anni successivi, e sento di aver sviluppato la capacità di far fare qualcosa al mio corpo ma anche di abbandonarlo per guardarlo dall’esterno. Le storie che scrivo derivano da un profondo inconscio, ma ho l’impressione che il mio passato da atleta abbia influenzato il rapporto tra mente e corpo che si avverte nei racconti. Ho chiesto anche ad altri autori che hanno un passato da atleti: tutti hanno confermato di avere queste stesse sensazioni che hanno determinato, in qualche modo, anche la loro vita artistica.

 

In un’intervista su Paris Review hai affermato che il racconto più difficile da scrivere è stato Arredamento perché la protagonista è così particolare da impedirti di calarti a lungo nei suoi panni. Come mai? Credi che uno scrittore debba sperimentare anche personaggi lontani dal suo essere?

Il motivo è stato il personaggio più difficile da scrivere, tanto da farmi sentire a disagio, è che la protagonista, Ursula, è molto arrabbiata, vuole uccidere qualcuno fino a giustificare la pena di morte. È molto pericoloso narrare in prima persona un personaggio che ha una visione problematica del mondo e penso che sia davvero difficile sapere quando il disagio è produttivo o no. In generale direi di essere meno a mio agio nello scrivere di un mondo che si avvicina al mio, anche se spesso fuggo da storie con le quali potrei essere fraintesa. Una cosa che amo della finzione è che indosso maschere che mi permettono di interpretare molti personaggi.

 

In alcuni racconti si avverte un’ironia vicina a Lorrie Moore, l’intimità delle esperienze di Amy Hempel senza il suo minimalismo, lo sguardo distopico di George Saunders, ma quali sono gli scrittori che ti hanno influenzata? E da dove nasce il tuo rapporto col racconto?

Adoro tutti gli autori che hai nominato! Sono una lettrice compulsiva ed è difficile scegliere degli autori di cui parlare nello specifico. A scuola c’erano corsi in cui assegnavano gli stessi libri più volte negli anni. Ho letto più volte Macbeth, Il giovane Holden, Orgoglio e pregiudizio. I miei genitori non erano grandi lettori, ma leggendo questi libri a ripetizione ho iniziato a pensare di non amare la letteratura. Fu così fino a quando al college frequentai un corso di scrittura creativa. Il programma conteneva letture come The way through doors di Jesse Ball, Inventario dei desideri di Lydia Davis, The Anchor Book of New American Short Stories, la prima versione della splendida raccolta curata da Ben Marcus, Magic for Beginners di Kelly Link, Gita al faro di Virginia Woolf. Ho trascorso quell’anno a leggere le cose scritte da ogni autore presente nel programma. Molti di loro sono i miei preferiti. Ben Marcus, per esempio, ha curato la raccolta di racconti in cui ho scoperto Diane Williams, autrice con cui ho lavorato al magazine Noon e che è stata molto importante per la mia formazione.
La letteratura riesce a smuovermi. Il cambiamento emozionale che ha luogo quando leggo libri e letteratura è così drammatico da influenzarmi profondamente rispetto ad altre forme artistiche.

 

Hai scritto per diverse riviste e sei editor di McSweeney’s. Qual è stato il tuo percorso?

 Credo che non ci sia niente di più istruttivo che lavorare nelle riviste letterarie. Ho lavorato a Noon, Vice, sono stata una lettrice per la sezione fiction di BOMB. Ho imparato da tutte queste collaborazioni. La situazione tipica è quella in cui ricevi, diciamo, 600 proposte di racconti e hai un mese per selezionarne un paio da sottoporre agli editor. Da qui comprendi l’importanza dell’incipit, della costruzione stessa della frase e della tua capacità di risconoscerne le potenzialità. Spesso penso che sia molto differente dal teatro: il pubblico è catturato dallo spettacolo, mentre con la lettura c’è il rischio costante di mollare il libro.
Lavorare per le riviste mi ha insegnato molte cose del mio essere lettrice e ho imparato a riconoscere lo slancio della narrazione sin dall’inizio. Una delle esperienze fondamentali, come ho detto, è stata quando ho lavorato a New York per Noon, dove ho avuto occasione di collaborare con Diane Williams. Pochi scrittori lavorano come lei: per scegliere il racconto da pubblicare lo fa leggere ad alta voce creando questa corrispondenza tra la risonanza delle parole ad alta voce e il modo di concepirle al momento della scrittura.

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