Intervista a Daniele Di Gennaro, editore Minimum Fax

 

a cura della Redazione

Minimum Fax è una delle poche, virtuose case editrici che pubblicano racconti. Non è che le altre non li pubblichino, però Minimum Fax ha la capacità, e anche la voglia, di trattare un libro di racconti come qualsiasi altro libro: ci investe, li rende visibili con un'accurata campagna stampa, li manda ai premi...Insomma, fa quello che qualsiasi altro editore un po' si spaventerebbe a fare con un libro di racconti. Non crediamo sia solo una questione di coraggio, il coraggio deve fare anche i conti con il mercato: come vi muovete rispetto a questo aspetto? Come arginate le difficoltà che sul mercato investono le raccolte di racconti?

Quando è nata Minimum fax c’erano molti ambiti editoriali “non coperti”, la poesia, le interviste d’autore sul mestiere della scrittura, una narrativa che affrontasse l’inquietudine e il tempo presente. Di fatto, nel mercato editoriale c’era un grande pregiudizio sui racconti, percepiti dal mercato come forma minore, quindi meno vendibile. Da lettori pensavamo esattamente il contrario. Una collana intera dedicata all’opera omnia di Raymond Carver, il libro di racconti di Valeria Parrella Mosca più balena arrivato in cinquina al premio Strega, i racconti ustionanti, straordinari di David Means (Episodi incendiari assortiti una rivelazione), l’antologia La qualità dell’aria, furono la prova del contrario. Li abbiamo considerati, trattati e comunicati come evento editoriale in seno a un progetto più ampio.

Quando avete un libro di racconti da valutare, in tutta sincerità, vi fate delle domande diverse rispetto a un romanzo? Cioè, quali sono i dubbi e le perplessità che un editore si pone riguardo alla pubblicazione di una raccolta, che, invece, non avrebbe per quella di un romanzo?

No. Cerchiamo le stesse cose, la cura e l’originalità della lingua, una progressione emotiva nei singoli racconti e nel loro avvicendarsi, la sospensione di incredulità nel lettore, la voce e il profilo dei personaggi. L’unico specifico della forma racconto è l’ordine, la successione e la coerenza della raccolta. Ci possono essere racconti che non ha senso inserire, a prescindere dalla qualità, per una necessità di compattezza delle narrazioni. Come in un disco.

Raccontaci un po’ quali sono le maggiori difficoltà, quelle concrete, che Minimum Fax incontra nella promozione e nella vendita di un libro di racconti.

Convincere la rete promozionale e quindi i librai dell’importanza della scrittura e dell’autore a prescindere dal tipo di narrazione. Sta succedendo adesso con Nelle terre di nessuno di Chris Offutt: l’autore è una vera rivelazione, abbiamo acquisito i diritti di sei suoi libri, il prossimo a venir pubblicato sarà un romanzo, ma verrà trattato con lo stesso tipo di cura e di comunicazione. È letteratura, che ci racconta qualcosa di importante da prospettive nuove, empatiche, rivelatorie di spazi e sentimenti poco raccontati. Il suono e l’armonia parlano a chi ascolta, non importa quale sia la durata dell’opera.

Puoi dirci, più o meno, il fatturato che fa, o non fa, nell’anno, un libro di racconti rispetto al vostro piano commerciale? Quanto incide e quanto, invece, pesa?

È un calcolo complesso che non saprei farti così su due piedi, anche perché i libri di racconti variano di anno in anno, e hanno sorti differenti per quel che riguarda il venduto. Di certo la media dei racconti vende un po’ meno del romanzo, ma anche un calcolo statistico sulla media ha poco senso: i libri di Carver, di Valeria Parrella, la raccolta Burned Children of America, i libri di Paolo Cognetti hanno realizzato numeri di vendita per noi da best seller, molto più di tanti romanzi. Parecchio dipende anche dalla responsabilità dell’editore, se si limita a una “tentata vendita” del singolo titolo, o tratta quei libri come parte di un progetto, di una mappa culturale riconoscibile. Lì si decide o meno la nascita di una comunità di lettori.

Da quando siete nati, il vostro catalogo è sempre zeppo di raccolte, anzi, è diventato quasi un marchio di fabbrica – soprattutto grazie allo sdoganamento e al lavoro preziosissimo che avete svolto intorno alla produzione di Carver. Le cercate di proposito le raccolte, per mantenere viva questa attenzione, questa specie di occhio attento ai racconti? O dipende solo dalla bontà di un libro, che, guarda caso, potrebbe essere una raccolta?

Le raccolte le leggiamo con lo stesso interesse con cui leggiamo i romanzi. Possono essere libri d’esordio che rivelano l’esistenza di un nuovo scrittore, o prove fulminanti di grandi romanzieri. Altra cose sono le antologie: aprono di solito per noi un progetto di pubblicazione di libri di diversi autori raccolti in quella silloge.

Che i racconti subiscano un pregiudizio penalizzante è abbastanza evidente in tutta la filiera editoriale; dagli scrittori che non li difendono, e, magari, temono di proporli; agli editori che non investono; alle librerie, ai premi, ai festival che non concedono loro lo spazio adeguato (escluse alcune preziose eccezioni); a volte anche tra i lettori, che non li conoscono abbastanza o che non sono ‘educati’, diciamo così, alla loro fruizione. Come editore, cioè, dal punto di vista di una creatura ibrida, che si trova sempre in bilico tra l’aspetto culturale e qualitativo di un testo e quello del suo valore commerciale, quali credi siano le strategie migliori per debellare questo pregiudizio?

Basterebbe comunicare ai lettori che i racconti in realtà sono la prova più difficile della letteratura tutta. Vivono di equilibri delicatissimi. Un racconto perfetto è frutto di un lavoro estenuante sulla parola, sulla punteggiatura, sul lavoro fondamentale dell’immaginazione e i sentimenti del lettore. Li paragonerei ai cento metri piani di atletica leggera: se sbagli un passo sei fottuto, arrivi ultimo, sparisci. Un buon romanzo corposo può reggere una pagina debole come una piccola caduta: un capoverso o una frase sbagliata in un racconto genera un vero e proprio crollo. Sarebbe anche importante considerare che il trionfo delle serie tv è molto più sincronizzato sul battito cardiaco dei racconti, e che l’attitudine alla lettura nella contemporaneità sta generando moltissimi fruitori di quella modalità, che nel passo breve regala compiutezza, rilassamento e bisogno latente di una prossima narrazione che abbia la stessa mano, la stessa voce e lo sguardo dello stesso autore.

Domanda secca: in fin dei conti, è vera la massima secondo cui i racconti non vendono?

Non è vera. Il problema è proprio la fine dei conti, che genera un inseguimento di bisogni culturali espressi, e non quelli latenti, che sono gli unici a generare valore editoriale, nuovo mercato e nuove comunità di lettori. Se si facessero i conti solo con il contenuto e con la scrittura, con il prodotto culturale e non con il prodotto, nel triste senso del nastro industriale, questo pregiudizio che per definizione è un errore, si dissolverebbe come il più sottile dei gas. Il marketing porta in maniera riduttiva un abuso di soluzioni, e le soluzioni sono sempre una trappola, specie in letteratura, impongono uno standard indifferenziato in un mondo che vive di identità differenti. Quelle identità che vanno raccontate nel loro specifico una per una. Le soluzioni, insomma, sono un modo per lavorare meno.

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