Novelle per un anno, di Dario De Marco

Wojtek porta in libreria Novelle per un anno, di Dario De Marco. Novelle per un anno è l'ambizioso progetto che Pirandello non riuscì a portare a termine: scrivere un racconto per ogni giorno dell'anno. Dove il maestro della short story italiana ha fallito, De Marco con faccia tosta pari solo alla superbia tenta l'impresa: un libro di 365 racconti (più uno per i bisestili). 9Lx1(365,25), appunto. Solo che da Pirandello è passato un secolo, in cui è successo di tutto: neoavanguardie e postmodernismo, serie TV e social network. Perciò le novelle sono diventate 9L: in una società liquida sono diventate gassose, si sono polverizzate, si sono rimpicciolite a livello subatomico, si sono disperse in mille forme, sono esplose nel nonsense.

Cattedrale vi propone alcuni dei testi contenuti nel libro con i commenti a margine dell’autore, per gentile concessione dell’editore.

Novelle per una settimana. Una breve antologia.
Con i commenti dell’autore
Dario De Marco

 Dario De Marco: I debiti principali con le figure pioniere del microracconto vengono pagati subito, e in maniera esplicita. Con il sudamericano Augusto Monterroso, autore del notissimo racconto del dinosauro («Cuando despertó, el dinosaurio todavía estaba allí») addirittura fin dalla quarta di copertina:

9 giugno. Il racconto più breve del mondo - remix

 Quando si addormentò, il dinosauro se n’era già andato.

 

(Anche se poi, con un ulteriore remix, il racconto che davvero compare il 9 giugno ha un finale leggermente diverso). Lydia Davis, meno famosa ma strabiliante scrittrice americana, i suoi libri sono composti quasi esclusivamente da racconti di poche righe, è omaggiata esplicitamente in una dedica; ma soprattutto a più riprese viene usato lo stilema del racconto che dialoga col titolo, che ne costituisce la prosecuzione o la risposta.

31 gennaio. La punta dell’iceberg

 prima o poi si stuferà, di essere trattata come cosa di poca importanza.

 (Aristide Maselli, da Afuorismi, inedito)

 

La sfida, la ‘contrainte’ dei 365 racconti brevi subisce varie parziali deroghe. Innanzitutto non sempre di racconti in senso stretto si tratta, perché a volte compaiono anche quelli che potrebbero essere definiti micro-saggi, o short nonfiction. Nella maggior parte dei casi sono riflessioni letterarie, o meta letterarie, attribuite a tal Aristide Maselli, scrittore immaginario (o forse no?) di opere bizzarre. Lo stesso Maselli è poi protagonista di una serie di episodi, ora misteriosi ora surreali.

 

26 marzo. Metafora

 

Una sera si fece offrire – o meglio lasciò che gli offrissimo – rectius evitò di opporsi quando provammo a pagare – il bere. Cosa insolita per lui, prodigo com'era, non meno che squattrinato. Non dicemmo niente, ma non ci sembrava vero. Ci guardavamo increduli, di sottecchi, tacitamente d'accordo nel non rompere la magia.

Un'oretta dopo, ci chiese di soprassalto: Cogliete la metafora? Afferrate il sottotesto? Intuite il valore intrinsecamente letterario del gesto? Non era distrazione, dunque. Noi rispondemmo che no, no; anche volendo (la generosità di dare spazio alla generosità altrui?, il maestro che si fa superare dagli allievi?, chi preferisce che abbiano ragione gli altri1?), non avremmo potuto fare altrimenti.

Non disse niente, continuò a camminare con un sorriso. Maselli odiava la metafora sopra ogni cosa.

 

Questa è un’altra caratteristica del libro. Che non è, per niente, un cosiddetto romanzo-di-racconti, né una raccolta di storie che hanno tutte lo stesso protagonista (Olive Kitteridge di Elizabeth Strout), o tutte la stessa ambientazione (Kalpa Imperial di Angelica Gorodischer). E però, ci sono situazioni, sfondi e personaggi che ritornano, come tirati da fili invisibili di storie parallele, di romanzi mancati che ogni tanto si riaffacciano in superficie. È più come se fossero delle rubriche, e qui viene evidentemente in rilievo la natura dell’autore, che faceva il giornalista. La più evidente tra queste “rubriche”, un appuntamento mensile nel calendario, addirittura numerata, è quella delle Facebook Stories: questo era il titolo che avevano in origine, il libro è stato scritto nel corso del 2016 (un racconto al giorno), quando il più anziano dei social network ancora poteva essere citato in maniera non ironica. Pubblicate nel 2024, hanno cambiato titolo.

 

26 novembre. C’era una volta Facebook / 16

 

Stanotte ho sognato che la polizia postale i chiudeva l’account, perché non avevo espresso la mia opinione sul referendum costituzionale e sullo scandaloso Nobel per la letteratura, sull’ultima controversia alimentare e sul santo Natale.

          Carina questa modalità che ha lei, di riportare tutto a una dimensione onirica, come se fosse dall’analista. Cmq non si preoccupi, era solo la realtà.

 

Il brano precedente è esemplificativo anche di un’altra forma ricorrente, quella del dialogo. Sono dialoghi senza virgolette né nomi, le voci sono differenziate solo con i diversi rientri, nella maggior parte dei casi non si capisce bene chi è che parla, a volte non lo capiscono neanche loro.

 

25 ottobre – Santa Daria

 

Infatti, i momenti in cui sono stato più male, non erano quelli in cui soffrivo di più, ma quelli in cui soffrivo di meno; in cui avevo quasi dimenticato. Ti senti quasi bene; ti senti quasi leggero; ti senti, quasi. Perché no? Poi ti torna in mente, riaffiora alla coscienza la mancanza, quel peso sullo stomaco che ti affonda; quel velo davanti agli occhi che non ti impedisce nulla, ma ti rende inutile tutto. E allora arriva la mazzata, il senso di colpa ti torce, finché esplodi in un pianto liberatorio: no, non sei un mostro, non l'hai dimenticata, puoi continuare a soffrire.

          Capisco. Quindi tu non volevi dimenticarla.

Per carità! Vede, il dolore... quel dolore, era tutto ciò che mi restava di lei, di mamma.

          Okay. E poi? Cos'è successo?

E poi, niente, è tornata a casa, come tutte le sere, mi ha dato il latte e io mi sono addormentato.

 

Qui emerge quella che è una delle caratteristiche principali della forma breve, una delle più cercate, almeno in questo libro: il colpo di scena finale. Diceva il famoso boxeur belga Julio Cortázar che il romanzo può permettersi di vincere ai punti, il racconto deve vincere per kappaò. E quale migliore modo di sferrare il gancio stordente, che il coup de theatre, il plot twist, il rovesciamento di prospettiva finale? Naturalmente, la forma breve si presta particolarmente bene a questo gioco, perché in poche pagine o righe non si può, non si deve spiegare molto, e quindi il lettore dà per scontati una serie di elementi: ad es., che il protagonista sia un essere umano, e invece alla fine si scopre che è un alieno, un animale, una macchina, Dio - o tutte queste cose insieme.

Altra caratteristica delle 9L, rispetto alle Novelle, sono i racconti a tema. Diversamente da Pirandello, il quale praticava l’indifferenza al calendario, rivendicava di non aver scritto manco un “racconto d’occasione”, qui i giorni contano, e le storie vengono influenzate dalle date; che siano festività, ricorrenze e altri momenti particolari dell’anno.

 

27 gennaio. Il giorno della memoria (Appunti per un film noioso)

 

- autunno 1941. Non siamo ad Auschwitz ma a Ferramonti, Calabria. Il campo di internamento è per professionisti e intellettuali ebrei; tra questi il berlinese Ernst Bernhard, junghiano eterodosso (costui si era improvvidamente rifugiato in Italia anni prima, dopo che l'Inghilterra gli aveva rifiutato il visto perché alla voce “professione” aveva scritto: “chirologo e astrologo”)

- Più che un lager sembra un kibbutz, scrive Bernhard alla moglie Dora: il comandante del campo è un militare colto e illuminato, poco incline alle idee e ai metodi del fascismo. (Fin qui la storia con la maiuscola, quella documentata, quella “tra virgolette” reale.)

- tra un torneo di scacchi, un orto sperimentale e un gruppo di lettura su psicanalisi e Euripide, Bernhard conquista il comandante e altri prigionieri all'arte divinatoria dell'I-Ching, il libro cinese dei mutamenti.

- mentre molti internati vanno via, verso i campi di sterminio della mitteleuropa, tra i nuovi arrivi c'è un poeta, Giovanni Fiorenza, molto giovane e quasi sconosciuto. Brillante e carismatico, costui organizza una serie di attività ancora più audaci (orchestrina klezmer, laboratorio teatrale), entrando nelle grazie di tutti, diventando amico e confidente di Bernhard. Solo il comandante del campo non gli dimostra l'usuale benevolenza, anzi inizia ad avere un atteggiamento ambiguo; fino a rimangiarsi delle promesse, fino a togliere ai prigionieri libertà ormai date per scontate.

- una memorabile notte infine, Fiorenza è selvaggiamente picchiato dalle guardie del campo. Si viene a sapere che il poeta era una spia, mandata dal regime a verificare, se non a provocare, il lassismo del comandante. Lo scopo: accusare il militare – sgradito al Duce – di favorire il dissenso, per poterlo rimuovere e punire. Ma il comandante aveva intuito tutto – grazie a un informatore personale, o alla predizione dell'I-Ching? – e aveva stretto la morsa della repressione, facendo finta di niente. Con lo stesso atto violento, infine, aveva smentito i sospetti di debolezza, e si era tolto la soddisfazione di punire l'infame – in quanto ebreo, non in quanto spia, e garantendosi perciò una posizione inattaccabile, anzi encomiabile.

- nell'ultima scena, Bernhard e il comandante giocano a scacchi; tutti e due fingono: stanno provando a far vincere l'avversario, ma senza fare errori evidenti, dando l'impressione di impegnarsi al meglio; e ridono.

- nell'ultima scena Bernhard, ormai anziano, sfogliando una vecchia copia dell'I-Ching trova una lettera con il timbro dell'Ovra e la data 27 gennaio 1941. Prima che possiamo leggerne il contenuto, la camera vira verso la finestra, che incornicia i tetti di Roma, e il Cupolone.

 - (così però è noioso. Inserire un altro elemento – una storia d'amore? Che noia)

 

Come si vede, appare qui un artificio formale, un artificio ricorrente, mutuato da Borges: quello della finta recensione, o in modo più largo del racconto di secondo livello. Nel libro compaiono descrizioni di opere d’arte, riassunti di documentari, soggetti di drammaturgie, schede libro, sinossi promozionali.

Infine - anche perché Novelle per una settimana deve constare di sette racconti - tocca dare conto di un’ultima peculiarità, dell’ennesima scappatoia: tra questi racconti brevi non tutti sono racconti, come si è detto, e non tutti sono brevi.

Chiudiamo con questo, che è una sorta di rovesciamento (sin dal titolo) di un leggendario pezzo di Kafka, e prende ispirazione da certe atmosfere di George Saunders (il fantastico e la fantascienza sono uno dei leitmotiv del libro, ma non si può mica dire tutto, oh).

 

 

14 maggio. Nella colonia civile

 

È a un certo punto del Luna Parco, tra la Galleria del Troppo Amore e il Tirassegno al Presepe Vivente, che ti trovi davanti alla Gamblet Machine, popolarmente detta il 'risica-rosica'. Forse è per noia, o forse è per dimostrare che non hai paura, non lo sai neanche tu, fatto sta che entri e ti siedi sulla sedia di legno.

Lo sai come funziona: inserisci l'indice in un buco, e a quel punto la macchina, in maniera assolutamente casuale, emette una piccola somma di denaro, oppure ti fa un po' male. Non è richiesta alcuna abilità specifica per questo gioco; il responso è del tutto random – sembra più un esperimento su topi da laboratorio, e forse lo è, pensi ridacchiando fra te e te.

D'altra parte la posta in palio è veramente nulla di che: i soldi che puoi vincere non sono certo quelli che ti svoltano la vita, e neanche la giornata; il danno che puoi ricevere consiste in una piccola puntura di spillo sul polpastrello, o in una lieve scossa elettrica, questo non te lo ricordi bene, o forse cambia di volta in volta.

A destra della sedia c'è un asse, sempre di legno scuro, stretto e lungo con due scanalature ai bordi; serve per poggiarci il braccio, e tu lo poggi. Tutta la macchina dà un'impressione complessiva di negozio d'antiquariato, o di bottega del sarto: legno, legno e qualche parte metallica, tipo la scatoletta quadrata che somiglia a una serratura, e che al centro ha il foro circolare per il dito. Appena lo introduci, accorgendoti che non entra per più di metà, qualcosa all'interno del buco gli si serra leggermente attorno. Non tanto da farti male, ma abbastanza da immobilizzarti l'indice (e di conseguenza bloccarti la mano sull'asse, e tutto il corpo sulla sedia). È giusto, pensi tu: se il pizzicotto, o quello che è, deve arrivarti nella parte morbida del dito, la macchina è fatta in modo da non fartelo girare liberamente, per non nuocerti più di quel che deve; è normale.

Poi, per qualche minuto, non succede proprio niente. I soldi sono un'eventualità che neppure prendi in considerazione; sei solo lì ad aspettare la scarica, insomma non doveva durare tanto, ti sembra di ricordare; c'è gente dietro di te in coda.

Il movimento della macchina parte come uno sferragliare nella parte posteriore, quella che non puoi vedere. Poi finalmente dei piccoli pannelli di legno, come delle mensolette, mosse da bracci in ferro battuto, avanzano dai lati e dal di sopra della serratura, fino a circondarti il braccio da tre lati (il quarto, quello inferiore, sta sempre poggiato sull'assicella con le scanalature ai lati, come delle fughe per far scorrere un liquido). Resta comunque un po' di spazio, puoi ancora vederti il braccio nudo. È giusto, pensi di nuovo tu, è normale: la parte in cui può arrivare la puntura è un po' più ampia, la macchinetta sta giocando con un banale effetto di suspense, senza dirti il dove, né il quando. Così il dolore, che è piccolo, si sa, s'ingigantisce un poco nell'attesa, nel dubbio. Solo, non capisci da che parte e in che modo può arrivarti l'offesa, dato che non ci sono punte o altri strumenti in vista.

Scattano rapidamente altri pannelli, più grossi, come schiene di librerie antiche; scorrono ai lati della sedia, sono intorno a te; sei come dentro uno sgabuzzino di legno, chiuso. È giusto, pensi ancora, è normale: così sai che il colpo può venirti inferto in qualsiasi punto; un po' ti scoccia, si era parlato di dito, ma dove se n'era parlato, questo è quello che sai, o meglio che ricordi, ma tu non sei mai stato famoso per la buona memoria. Un po' ti scoccia, un altro po' ti tranquillizza, che ti sia concessa questa forma di preavviso. Continui ad aspettare, la botta può arrivare da un momento all'altro, le monete non sono uscite, d'altra parte non hai notato alcuna fessura da cui potessero uscire, l'importante è che il dolore sia breve, questo almeno è assicurato.

Sennonché, cigolando e sferragliando in maniera sorda e pigra come quando sono spuntati fuori, i congegni si ritirano: prima le grosse dorsali esterne; poi le mensole attorno al braccio. Infine, quasi impercettibilmente, si allenta la presa sul dito. Puoi alzarti, quindi ti alzi. Ma, rifletti un attimo, denaro non ne vedi da nessuna parte, quindi non hai vinto, hai perso. È giusto, pensi sempre, è normale: come in quegli indovinelli col trucco, tipo quello della vasca e della goccia di sangue, dove la prima risposta che ti viene in mente, la più intuitiva, è quella sbagliata; anche qui, è apparecchiato tutto il teatrino della macchina, del dito e del braccio, così tu pensi che sia finito, che non succeda più niente, e la mazzata ti coglie quando meno te lo aspetti, mentre sei in piedi, mentre sei quasi uscito. Solo che, proprio come in uno di quegli indovinelli, anche se lo hai sentito decine di volte, quando te lo rifanno per l'ennesima, il trucco ti è passato di mente, e quindi devi cercare di fare il ragionamento da capo; così ora non hai idea, ti sembra vagamente di ricordare qualcosa, mentre avanzi lento sulla pedana di macadam, ma non sapresti dire se è qualcosa che è successo a te, o che ti hanno raccontato, e così cammini con prudenza, quasi barcollando, mentre aspetti di essere folgorato dalla sofferenza,
mentre continui a pensare è giusto, è normale.