Guardare il sole, di Antonio Vangone

Declic edizioni, porta in libreria Bosco, di Antonio Vangone. Una raccolta in cui si racconta il margine della vita umana, il confine oltre il quale l’urbano sfuma nelle forme più inattese. Ma il bosco è anche vivere comune, orizzonte in cui singolo e plurimo si mescolano fino all’indistinguibile.
qui si aggirano ragazzi dorati, suore mattonaie e duellanti con le spade di gomma, pesci coi piedi, piccioni e draghi, robot poetanti e mezzi spiriti: fantasmi venuti dal bosco per narrare la crudele fragilità del reale.

Cattedrale vi propone uno dei racconti della raccolta, per gentile concessione dell’editore.


GUARDARE IL SOLE
di Antonio Vangone

In un mondo vecchio come il nostro, la notizia che nella fontana ci fossero dei pesci coi piedi fece presto il giro. La fontana è lì da sempre, bassa e obliqua, vuota o piena a seconda di chi dovrebbe ricordarsene, grigia, stesa all’angolo di una piazza altrettanto grigia popolata da cani senza guinzaglio e lettori di quotidiani, eclissata dalla brutta statua del limite ignoto e dalla strana sfera che dovrebbe rappresentare la Pace, circondata di manifesti gualciti, necrologi avvisi pubblici nuove aperture.
Non si capì chi mise i pesci nella fontana e perché avessero i piedi, da dove vennero e se arrivarono con i loro stessi piedi. Nessuno si domandò perché i pesci avessero scelto di restare nella fontana e questo credo fu un grosso errore. Li sottovalutammo, credo, perché parlavamo e non ci ascoltavano, li guardavamo ma loro non ci guardavano: preferivano guardare il sole. Quando il sole non c’era serravano gli occhi e nulla poteva scuoterli: non bastava immergere le dita in acqua e nemmeno lanciare loro monetine, piselli surgelati o pezzi di pane; tantomeno picchiarli, prendendoli a bastonate in testa o sui piedi, e neppure ucciderli con lance improvvisate o fucili subacquei. L’unico modo per ottenere la loro attenzione, si scoprì durante la sagra del caciocavallo podolico, era mostrando loro il fuoco. Le prime notti usavamo grandi falò, poi ripiegammo su semplici fiaccole. Dopo settimane di fiaccolate ci accorgemmo che, se la luna era piccola e si spegnevano i lampioni, i pesci si accontentavano persino della brace di una sigaretta – condannando diversi ragazzini al vizio del fumo, attirati dal brivido di sentirsi i loro occhi addosso.
La teoria di Don Michele, che l’inferno si fosse fatto improvvisamente più piccolo e i dannati stessero tornando così sulla terra – tiepidamente, muti e stupidi come bestie, umiliati dalla grazia del Padre e ansiosi di non perderla – trovava fondamento proprio in questa riverenza per le fiamme, che il parroco volle imputare all’impressione dei supplizi patiti nel Tartaro. Più apprezzata perché meno moralista era la teoria di Gaetano il ferramenta, che voleva i pesci coi piedi essere un’allucinazione collettiva d’ispirazione folcloristica: era certissimo di aver sentito un racconto su di loro, da bambino.
I più ritenevano comunque che si trattasse di mutanti nati negli scoli della discarica: l’allarmismo fu tale che venne un professore famoso a raccogliere un paio di esemplari, ma non se ne seppe più nulla. Si seppe tutto invece di quelli che pensarono di pescarne quattro o cinque e mangiarseli all’acqua pazza: tre settimane al San Leonardo.
Visto il rischio per la pubblica salute, in inverno si decise di soffocare la fontana con una colata di cemento: i corpi pietrificati dei pesci vennero distribuiti in omaggio con settecento euro di spesa da Lella la mobiliera, fino a esaurimento scorte. Esaurite le scorte, i comignoli iniziarono a diventare corvi.