Meteore, di Camila Fabbri

Polidoro porta in libreria Sani e salvi, di Camila Fabbri, tradotto da Carlo Alberto Montalto.
Un marcato disincanto erode l’animo dei protagonisti di Sani e salvi: solitari e instabili, sopraffatti da una profonda depressione, così ci vengono presentati, o così li percepiamo, e così si muovono, senza convinzione né entusiasmo, come testimoni silenziosi di una tragedia sociale o familiare che li precede e che inesorabilmente precipita loro addosso.

Una prosa che sembra venuta dallo spazio. Leila Guerriero

Cattedrale vi propone l’estratto del racconto Meteore contenuto nella raccolta, per gentile concessione dell’editore.

METEORE
di Camila Fabbri

Viaggiarono per una ventina di minuti su un’autostrada quasi deserta di una notte di piena estate. C’era odore di vomito. Luis guardava Elisa dallo specchietto e sorrideva. L’odore non sembrava infastidirlo. Elisa cercava di fare respiri profondi ed era così strano: il paesaggio la calmava, eppure non riusciva a ignorare di essere stata portata via, senza poterlo impedire, da un pelato con quattro capelli lunghi che puzzava di sigarette e che di certo le avrebbe fatto qualcosa di brutto. Ma cosa?
Il suo telefono si era spento due caselli prima e il sole iniziava a splendere all’orizzonte. «Eccolo là, il signor Febo» esclamò Luis. Elisa non avrebbe risposto più niente. Avrebbe lasciato parlare lui. Aveva le braccia interamente graffiate e il cuore le batteva come a un atleta fuori forma che corre a una maratona. «Hai ripreso colore» le disse Luis sorridendo con una sigaretta all’angolo della bocca. «Mi fa molto piacere».
Elisa chiuse gli occhi, non avrebbe saputo dire per quanto tempo. Quando li riaprì, era pieno giorno e ai lati della strada c’era campagna, campagna e ancora campagna. Vide in lontananza alcune mucche e dei cartelli che pubblicizzavano mate per dimagrire o assicurazioni auto dagli sconti notevoli. Sul sedile, accanto a lei, c’era una bottiglia di acqua fresca. Elisa bevve un lungo sorso domandandosi se Luis si fosse fermato per comprare qualcosa o per fare chissà cos’altro. Continuava a guidare con lo stesso slancio di sempre, come se cercasse la destinazione della sua passeggera. Sembrava proprio che stesse svolgendo il suo lavoro.
Quando il sole iniziò a picchiare forte, l’auto svoltò su un sentiero sterrato. «Non siamo lontani dalla capitale» disse Luis. «Non avere paura».
La strada adesso era parecchio stretta, ai lati c’era erba secca e alta, case con persiane chiuse e bambini seduti su delle panche, svegli da poco, che bevevano acqua da bottiglie di plastica o latte da tazze con disegni di supereroi. Elisa vide cani magri e gatti grassi. Sentì anche dei grilli o qualche altro insetto incollato al vetro del taxi. Non vide adulti nella zona.
Luis frenò davanti a una di quelle case. Elisa aveva ancora la nausea. Le parve di essere rimasta seduta o immobile per ore e che in quell’auto tutto fosse un’altalena infinita. Faceva un gran caldo, lo stesso che Elisa aveva cercato di evitare la sera prima decidendo di cenare in un ristorante con l’aria condizionata e obbligando la sorella a sceglierne uno che ce l’avesse. Luis scese dall’auto. Era difficile capire la statura di un tassista, ora Elisa ne aveva modo. L’uomo fece mezzo giro intorno al veicolo e aprì lo sportello alla sua passeggera. La invitò a scendere. Lei era ancora stordita. Il cuore adesso le batteva lentamente, la pressione sanguigna era scesa di parecchio. Aveva bisogno di zuccheri. «Hai perso colore di nuovo» le disse Luis. Elisa ripensò a un viaggio in macchina fatto qualche anno prima, ci pensava spesso, soprattutto quando aveva la febbre. Era seduta sul sedile posteriore e sua madre guidava fumando una sigaretta dopo l’altra. Ascoltavano la radio, un brano conosciuto, di quelli che diventano un tormentone, e di colpo, lo scontro avvenne davanti ai loro occhi: un’auto incastrata in un’altra, come se si fossero attratte, come se fossero fatte per stare insieme. Fuoriusciva una gran quantità di fumo e una ruota espulsa da uno dei veicoli girava da sola, perché è questo che fanno le ruote, girano, devono girare. Elisa e sua madre non hanno mai saputo chi ci fosse lì dentro. Accelerarono e proseguirono sulla stessa strada per altri dieci chilometri. Non si dissero niente. Lasciarono che fossero quelle immagini a parlare.
Luis aiutò Elisa a camminare. Entrarono in una casa piccola ma graziosa, con aria fresca nelle stanze e acqua gassata in frigorifero. Luis aiutò Elisa a sedersi su una sedia di legno, poi andò a prendere un bicchiere di vetro. Elisa si riempì gli occhi: il tavolo della cucina era invaso da riviste sportive, su una sedia formavano addirittura una montagna, simile a una presenza fatta di carta. Un orologio da parete era fermo alle cinque del pomeriggio o del mattino. Dalla finestra sopra il forno entrava una luce color seppia, come nelle case dei nonni o nei salotti delle prozie con problemi cardiaci. Era una casa silenziosissima, disturbata talvolta dal ronzio di un tagliaerba o di una mosca esageratamente verde. Mentre Elisa beveva l’acqua offerta da Luis, i dotti lacrimali le si riempirono di liquido. La porta di casa era rimasta aperta. «Serve una presa?» domandò Luis indicandogliene una ed Elisa vi mise in carica il suo cellulare. Sentì dalla cucina rumori di oggetti spostati da una parte all’altra, era Luis che preparava una robusta colazione. Elisa lo osservò mentre si dava da fare, prestando attenzione al tatuaggio che aveva sul braccio, ora ben visibile: il simbolo dell’infinito. Come un viaggio che non finisce mai, pensò.
Ci fu un istante di silenzio in cui si udì soltanto lo sportello del frigo aprirsi e chiudersi, il tonfo di qualche pentola, le forbici che aprivano il cartone del latte, una caffettiera, il clic di un tostapane. Più in là, attaccato con del nastro adesivo, il viso di un calciatore famoso, con lo sguardo rivolto verso Elisa, decorava la parete sopra il letto. In casa c’è qualcun altro, pensò lei.
«Mi fai fare una telefonata?». Luis rispose di sì e le prestò il suo telefono. Elisa compose il numero della madre. Seguirono tre squilli e poi, dall’altra parte della linea, provenne una voce rauca e insieme acuta che sembrava di questo mondo, ma anche di un altro: Chi è? Elisa sentiva il suo respiro. Guardò Luis che serviva tre fette di pane tostato in un piatto fondo e delle uova strapazzate in una ciotola di vetro. Elisa, sei tu? Elisa riattaccò. Non sapeva cosa dire né cosa fare. Adesso il futuro era un po’ più sfocato.